A distanza di tre anni e mezzo, si può fare un primo bilancio del cosiddetto “Reddito di Cittadinanza”, introdotto nel nostro Paese dal Governo Conte I con decreto-legge 28 gennaio 2019 n. 4, come “misura di contrasto alla povertà”, finalizzata “al reinserimento nel mondo del lavoro e all’inclusione sociale”. L’immagine emblematica, e imbarazzante, che tutti noi ricordiamo, è quella del vicepremier Luigi Di Maio che, insieme agli altri ministri del Movimento 5 Stelle, stappa bottiglie di spumante dal balcone di Palazzo Chigi, in diretta video, per celebrare demagogicamente la “abolizione della povertà”. Non è andata proprio così.
di Maurizio Milano
Il Reddito di Cittadinanza “all’italiana” (RdC) è, in realtà, un mero “ammortizzatore sociale”: non è “universale”, perché versato solo a disoccupati, inoccupati o lavoratori che hanno un indice ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente) inferiore a una certa soglia; è erogato non su base “individuale” ma solo a un singolo rappresentante di ciascun nucleo familiare e modulato in base alla situazione patrimoniale-reddituale della famiglia stessa; non è “incondizionato”, perché per fruirne sono previsti degli obblighi, come iscriversi a un centro d’impiego, svolgere senza ulteriore compenso lavori di pubblica utilità e accettare, dopo un certo numero di rifiuti, proposte di lavoro ritenute congrue; prevede l’obbligo di essere assistiti da figure specifiche, i cosiddetti navigator,assuntiper “aiutare gli altri” a trovare un impiego; non è, infine, “automatico”, perché è subordinato alla presentazione di una domanda, correlata da vari documenti e certificazioni, sottoposta quindi alla verifica del rispetto dei requisiti previsti.
Dai dati del XXI Rapporto annuale INPS emerge che considerando sia il RdC sia la Pensione di Cittadinanza (PdC) «nei primi 36 mesi di applicazione della misura hanno ricevuto il pagamento di almeno una mensilità 2,2 milioni di nuclei familiari in cui complessivamente risiedono 4,8 milioni di persone, per un’erogazione totale di quasi 23 miliardi di euro (Tabella 4.9)» (ibidem, pag. 385). Per il solo RdC «a marzo 2022, l’importo medio mensile erogato è stato di 577 euro […] A fronte di 1.223.146 nuclei beneficiari, il numero di persone coinvolte è 2.703.979» (ibidem, pag. 386), con un costo tendenziale annuo complessivo di circa 8 miliardi di euro. Emerge anche che i nuclei familiari sono sempre più piccoli, e tra i percettori del sussidio sono preponderanti le “famiglie” monocomponenti (con un‘incidenza pari al 41%) (ibidem, pag. 387-388).
A fronte di costi così elevati per i contribuenti, i risultati raggiunti rispetto agli obiettivi perseguiti, come prevedibile, sono poco incoraggianti: il Rapporto Annuale Istat 2022 fotografa una situazione di “povertà assoluta” nel 2021 grave ma stabile rispetto al 2020, che riguarda poco più di 1,9 milioni di famiglie (con un’incidenza pari al 7,5%) e 5,6 milioni di individui (9,4%), sintomo di un Paese che non riesce a crescere da decenni e che si trova ora anche alle prese con una forte ripresa dell’inflazione, che rischia di far peggiorare la situazione. A parte i numerosi casi di abusi e clientelismo, non solo il RdC non ha favorito l’integrazione nel mondo del lavoro ma addirittura sta rendendo difficile per molte imprese trovare personale, in specie nel settore della ristorazione e nelle attività stagionali. A fronte di mansioni oggettivamente onerose e spesso inadeguatamente retribuite, è infatti più conveniente percepire comodamente da casa il sussidio, arrotondando poi con qualche lavoretto in nero: si guadagna di più, si fatica di meno. Ironia della sorte, ora bisogna preoccuparsi anche dei 1.886 navigator rimasti dei 3mila assunti nel 2019, mentre alla Camera il centro-destra, per limitare i danni, ha proposto un emendamento per considerare congrua la “chiamata diretta” degli imprenditori ai percettori del sussidio, in modo da smascherare chi non sta davvero cercando un lavoro: insomma, «chi non vuole lavorare, neppure mangi» (Cfr. 2 Tessalonicesi 3,10). Visto che col RdC si può vivere in zone “povere”, ma non certamente a Milano, un sussidio di fatto permanente e così strutturato contribuisce inevitabilmente ad accrescere il divario Nord-Sud e la piaga della disoccupazione giovanile. I beneficiari del sussidio, infatti, sono concentrati per l’85% nel Centro e nel Sud, in particolare in sole quattro regioni: Campania e Sicilia, in primis,e quindi Puglia e Lazio. Nonostante le rivendicazioni del Movimento 5 Stelle che sul RdC ha costruito, e mantiene, il proprio consenso elettorale, si deve quindi onestamente riconoscere il totale fallimento di tale provvedimento, che rimane una pesante ipoteca sul futuro della crescita del Paese.
In letteratura si parla di “reddito minimo garantito”, “reddito di base”, “reddito di cittadinanza” o, ancora, “reddito minimo universale” (in inglese Universal Basic Income, UBI), con varie sfumature e applicazioni differenti. Rispetto alla “variante” italiana, nell’UBI si fa generalmente riferimento a un’erogazione monetaria periodica, tipicamente mensile, a partire da una certa età e per tutta la vita, distribuita a tutti i “cittadini”, che lavorino oppure no, senza riferimenti né alla situazione famigliare né alla posizione patrimoniale e reddituale di chi la percepisce: una “paghetta pubblica” mensile, insomma, “non condizionata” e “universale”, uguale per tutti. Parafrasando la concezione liberale moderna del “un uomo, un voto”, potremmo quindi dire “un uomo, un reddito”: una sorta di “nuovo diritto del cittadino” che fa nascere, inevitabilmente, lo speculare “nuovo dovere del contribuente” di farvi fronte. Se l’UBI si aggiungesse allo Stato sociale, così com’è ora configurato nelle democrazie occidentali, comporterebbe inevitabilmente un ulteriore incremento della pressione fiscale, facendo contrarre ancora la già compromessa capacità di risparmio di singoli e famiglie di fascia media e medio-bassa, e quindi la capacità di sostentarsi e di gestire in autonomia le proprie scelte di previdenza. Pur riconoscendo l’UBI a tutti i contribuenti, dato che le moderne socialdemocrazie sono caratterizzate da forte progressività delle aliquote fiscali, oltre che da imposte di tipo patrimoniale, il costo netto del provvedimento sarebbe infatti sostenuto prevalentemente dalla classe media – dove si concentrano i cosiddetti tax payer, coloro cioè che ricevono meno servizi pubblici di quanto pagano in tasse e imposte – mentre i benefici sarebbero goduti dalla classe bassa, dove si concentrano i tax consumer, che ricevono invece più servizi rispetto al loro carico fiscale. Con l’UBI la responsabilità personale, e famigliare, passa in secondo piano: è la comunità politica che deve prendersi cura del “singolo”, considerato appunto come “individuo”, astraendo quindi da qualsiasi altro requisito, compreso il costo reale della vita nel luogo di residenza; non essendo un aiuto temporaneo ma strutturale si rischia che l’UBI crei nel tempo assuefazione e quindi una malsana dipendenza parassitaria dal potere pubblico, a danno non solo del contribuente ma, paradossalmente, dello stesso beneficiario.
Nella prospettiva della cosiddetta “Quarta rivoluzione industriale”, con la perdita paventata di un’enormità di posti di lavoro negli anni a venire a causa della diffusione, a tutti i livelli, di automazione, digitalizzazione e “intelligenza artificiale”, l’UBI sarà un tassello di un nuovo “contratto sociale”, come proposto dall’iniziativa del Great Reset di Davos, per contrastare la “disoccupazione tecnologica”. Nella prospettiva della futura workless society, l’UBI diventa l’ultima frontiera dello Stato assistenziale, nel segno di una nuova alleanza neocorporativa tra i grandi gruppi industriali e finanziari privati, gli Stati e gli organismi sovranazionali, che va ad archiviare definitivamente la “rivoluzione conservatrice” di Ronald Reagan (1911-2004) e Margaret Thatcher (1925-2013). Al già assicurato soddisfacimento, “dalla culla alla bara”, dei bisogni fondamentali del singolo – casa, salute, istruzione – (Cfr. Anna Coote, Andrew Percy, The case for Universal Basic Services, ed. Wiley 2020), nella “nuova normalità post-pandemica” si aggiungerebbe anche un vitalizio mensile incondizionato, elargito graziosamente dallo Stato al cittadino: due poli tra cui non ci sarebbe più nulla. L’UBI così inteso riflette la sfiducia nella capacità di un’economia e società libere di soddisfare “dal basso” i bisogni dell’uomo; ci si affida, quindi, al paternalismo di Stato.
La filosofia sociale che ispira l’UBI è di tipo dirigistico: la società non nasce dalla libera e responsabile interazione delle persone, delle famiglie, dei corpi intermedi, secondo una prospettiva “sussidiaria”; essa, invece, deve essere “costruita” dal potere politico, che riconosce a tutti i “cittadini”, considerati uti singuli, non solo l’accesso a risorse e servizi di base, ma anche un reddito minimo, quasi la riproposizione moderna del panem et circenses dell’antica Roma. Il cosiddetto Human Development Approach (Cfr. Louise Haagh, The Case for Universal Basic Income, ed. Wiley 2019) prevede che lo sviluppo umano debba essere guidato dall’alto, secondo un approccio “umanistico” che dovrebbe in teoria favorire l’autonomia della persona e la sua crescita, come individuo, e quindi risultare superiore rispetto alle “logiche di mercato”. La prospettiva indicata dalla Haagh è quella di una «ricostruzione democratica in una giuntura di crisi globale della governance». L’obiettivo perseguito è quello di favorire lo sviluppo individuale, “governando” allo stesso tempo la libera interazione tra le persone, per rendere la società più egualitaria e “inclusiva”. In tal modo, tuttavia, si restringe il campo della libera iniziativa privata mentre si allarga ulteriormente il perimetro di intervento pubblico, secondo logiche pianificatrici e accentratrici.
Una conferma si ha nei Paesi del socialismo reale, dove a una condizione universale di miseria si contrappone una ristretta nomenklatura, i cui privilegi crescono man mano che ci si avvicina al partito, che accentra ricchezza e decisioni. Lo aveva già profetizzato, nel lontano 1891, S.S. Papa Leone XIII nella celebre enciclica Rerum Novarum: «L’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso […]. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso» (n.6). E ancora: «Le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria» (n.12). Princìpi di sana filosofia sociale, tragicamente confermati dall’esperienza storica, approfonditi cent’anni più tardi da S.S. Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Centesimus Annus: « Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese». Gli interventi «devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo […] per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile» (n.48).
Quanto detto sullo Stato assistenziale si può applicare, mutatis mutandis, anche all’introduzione dell’UBI. Per contribuire davvero al bene comune, la solidarietà deve seguire l’ordine della sussidiarietà: altrimenti si entra in prospettive deresponsabilizzanti, contrarie all’autentica dignità e libertà dell’uomo, che si rivelano poi fallimentari anche sullo stesso piano materiale, com’è d’altronde inevitabile che sia muovendo da visioni antropologiche e sociologiche distorte. Le dimensioni della “torta” della ricchezza dipendono infatti anche da come si tagliano le “fette”: politiche fortemente redistributive scoraggiano l’iniziativa personale e fanno quindi diminuire la ricchezza complessiva prodotta, a danno di tutti. Se il focus passa dalla creazione della ricchezza alla sua redistribuzione, la crescita viene azzoppata sul nascere. Importanti virtù sociali, quali la laboriosità, l’austerità, la previdenza – precondizioni per una crescita sociale ed economica ordinata, libera e giusta – non rischierebbero infatti di atrofizzarsi a causa del mancato esercizio? Il rischio, insomma, è quello di creare dipendenza dal potere politico e di indurre un progressivo sfilacciamento della società, ridotta a somma di individui irrelati. L’albero si riconosce dai frutti: se diminuiscono benessere e libertà, e la classe media si atrofizza – come sta accadendo in Italia da trent’anni –, è segno che sta avanzando una qualche forma di socialismo, anche se nella versione liberale.
Contro ogni demagogia solidaristica, occorre ricordare che la scarsità non è eliminabile radicalmente. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7): come scriveva il filosofo e scrittore cattolico francese, Gustave Thibon (1903-2001), «per voler spartire tutto con tutti, bisogna essere Dio – oppure avere solamente del nulla da offrire» (Cfr. G. Thibon, Ritorno al reale, ed. Volpe, 1972, pagg. 113-123). Ogni azione, ogni provvedimento – al di là delle buone intenzioni – possono avere delle conseguenze non previste che peggiorano la situazione iniziale: e così sempre accade quando si parte da visioni ideologiche, e quindi parziali e irrealistiche. Il ruolo dello Stato in ordine al bene comune è quello di creare le condizioni favorevoli allo sviluppo armonico e dal basso della vita sociale ed economica: solo in tal modo cresceranno le occasioni di lavoro, i cui frutti non sono soltanto il reddito ma anche la crescita umana di chi lavora. Il focus non dovrebbe quindi essere il reddito bensì il lavoro, non il cittadino come singolo ma piuttosto la famiglia e le varie realtà intermedie che innervano la vita sociale, economica e politica delle nazioni.
Più che inventarsi sempre nuovi meccanismi redistributivi bisognerebbe concentrarsi sul “far crescere” la produttività e quindi la “torta della ricchezza”: a tal fine è essenziale che non si inceppi il meccanismo della libera cooperazione tra le persone, che i frutti del lavoro siano lasciati il più possibile a chi li produce, perché siano poi goduti e reinvestiti a vantaggio indiretto di tutti. L’economista statunitense Milton Friedman (1912-2006) così ammoniva sui rischi di politiche fortemente redistributive: «Se tu paghi la gente che non lavora e la tassi quando lavora, non esser sorpreso se produci disoccupazione». Come politica sociale, Friedman proponeva l’introduzione di una imposta negativa sul reddito, che consentirebbe il recupero di una frazione tra il reddito percepito e una soglia minima imponibile; l’idea venne ripresa anche dall’economista austriaco Friedrich A. von Hayek (1899-1992), in modo ancora più “generoso” perché ipotizzava un trasferimento tale da consentire la fruizione dell’intero reddito minimo. In entrambi gli autori, tali ipotesi rientravano però all’interno di una generale rimodulazione del Welfare State, con l’obiettivo di ridurre il livello della spesa pubblica – e quindi dell’imposizione fiscale –, anziché provocarne un’ulteriore dilatazione, come si prevede invece nella letteratura predominante in tema UBI-Welfare State. Analogamente, nel 2006 anche il politologo conservatore statunitense Charles A. Murray (1943-), nel suo “Piano” proponeva di introdurre l’UBI purché con la contestuale eliminazione dello Stato sociale americano, inefficiente e inefficace.
Potrebbero essere strade percorribili: il passo indietro del pubblico e della “solidarietà obbligatoria” favorirebbero la ripresa delle iniziative di solidarietà volontaria dei privati, per passare gradualmente dal Welfare State alla Welfare Society. Nella prospettiva evangelica che i talenti non vanno sotterrati, ma fatti fruttificare (Cfr. Mt 25,14-30), perché l’uomo è faber suae quisque fortunae.
Mercoledì, 13 luglio 2022