Massimo Introvigne, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 1, primavera 1985
Richard John Neuhaus, The Naked Public Square. Religion and Democracy in America, William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids (MI) 1984, pp. VIII-280, s. i. d. p.
Presentato in copertina, con una frase di George F. Will, come «il libro da cui l’ulteriore dibattito sulle relazioni fra Stato e Chiesa dovrà iniziare», The Naked Public Square, «La piazza pubblica nuda», del teologo luterano Richard John Neuhaus è oggi effettivamente al centro, negli Stati Uniti, di un’ampia discussione sui rapporti tra fede e politica. Figura di primo piano fra i luterani americani — dirige la rivista Lutheran Forum e il Center on Religion and Society —, Richard John Neuhaus ha seguito un itinerario non infrequente né isolato negli USA: tra i leader del movimento per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta, successivamente deluso dagli esiti antireligiosi e filo-comunistici di grande parte di quel movimento, ha sottoposto a revisione critica — dopo un periodo di silenzio — varie posizioni e oggi si dichiara pubblicamente un «cristiano conservatore».
The Naked Public Square ripeterà difficilmente in Europa il successo che ha avuto negli Stati Uniti: non soltanto perché i riferimenti culturali e perfino lo stile letterario del volume sono tipicamente americani, ma anche perché le tesi che vi si sostengono urteranno verosimilmente contro una censura che in paesi come l’Italia o la Francia sembra più rigida che altrove. La «piazza pubblica nuda» è la società secolarizzata, vigilata da sentinelle che vorrebbero impedire ogni rilevanza della religione nella politica e nelle leggi e che elevano a dogma la separazione dello Stato dalla Chiesa, richiesta certo dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, ma interpretata in un senso rigido e tendenzialmente antireligioso soltanto da sentenze recenti, che hanno rovesciato una ben diversa tradizione della giurisprudenza americana. The Naked Public Square espone tre tesi fondamentali: la «piazza pubblica nuda» è un luogo pericoloso per la persona e per le sue libertà; nell’affermarsi della secolarizzazione vi sono state gravi responsabilità di leader religiosi di diverse Chiese; si tratta di una situazione da cui si deve e si può uscire.
La «piazza pubblica nuda», che i teorici del secolarismo propongono come forma politico-culturale della democrazia moderna, secondo Richard John Neuhaus ha ben poco di «democratico» perché non corrisponde ai desideri e alle attese della maggioranza degli americani, che vorrebbero invece — come dimostra l’avanzata della moral majority — una maggiore incidenza sociale della religione. Da questo punto di vista l’autore, che pure avanza varie riserve sul fondamentalismo della moral majority, ne mette però in luce l’aspetto originale che viene trascurato, per esempio, nella indagine di Furio Colombo su Il Dio d’America (Mondadori, Milano 1984): quello che è nuovo, oggi negli Stati Uniti, non è il risveglio religioso — ve ne sono stati altri — ma l’aspirazione, largamente diffusa e forse maggioritaria, a una maggiore capacità della religione di incidere sulla politica e sulle leggi.
I pericoli peggiori della «piazza pubblica nuda» riguardano, aggiunge Richard John Neuhaus, il futuro. Parafrasando Baruch Spinoza si potrebbe dire che «la trascendenza aborre il vuoto» (p. 80); la «public square» da cui è stata espulsa la religione non resta nuda, ma viene occupata dalla ideologia statalistica: «una perversa nozione della separazione dello Stato dalla Chiesa conduce alla instaurazione dello Stato come Chiesa» (p. 86). «Un esempio letterale di piazza pubblica davvero denudata è la Piazza Rossa di Mosca», con «il santuario della tomba di Lenin» a sostituire il tempio, mentre, nonostante tutto, «è la presenza della Chiesa cattolica sulla piazza pubblica polacca che impedisce al regime di realizzare la sua ambizione di controllo totale» (p. 88-89). La consueta affermazione degli statunitensi a proposito del totalitarismo — «qui non può succedere» — è considerata dall’autore una manifestazione di ingenuità: anche in America, «qualunque sia la intenzione, poiché la piazza pubblica non può rimanere nuda, la direzione è verso lo Stato-Chiesa, verso il totalitarismo» (p. 89), sia che questo si instauri nella forma «sempre disponibile» del comunismo oppure nella forma di un nuovo statalismo americano, dove le estreme conseguenze dei principi dell’aborto e dell’eutanasia si affermano in uno scenario orwelliano. E proprio il riferimento all’aborto e alla eutanasia porta Richard John Neuhaus a concludere che la «naked public square» si avvia non solo al totalitarismo ma anche alla barbarie: «che i barbari siano composti dalle élite più raffinate ed educate della nostra società non li rende meno barbari. I barbari sono coloro che si rifiutano in linea di principio di riconoscere un’etica normativa e la realtà di una morale sociale» (p. 87).
Come si è giunti a questo punto? La tesi, comune negli ambienti della moral majority, di una semplice congiura esterna di «umanisti secolari» viene sostanzialmente respinta dall’autore, che pure riconosce le gravi responsabilità di John Dewey e degli altri firmatari dello Humanist Manifest del 1933. Una responsabilità altrettanto grande va però attribuita alla leadership di quel gruppo di «Chiese» protestantiche americane dette mainline, in quanto tradizionalmente prevalenti e legate all’establishment culturale: episcopaliani, metodisti, presbiteriani, «discepoli di Cristo». Questa leadership — che ha fondato e in grande parte tuttora controlla il Consiglio Nazionale delle Chiese, di New York, e il Consiglio Mondiale delle Chiese, di Ginevra — ha dapprima accettato e favorito la separazione tra fede e politica per lanciarsi poi, a partire dagli anni Sessanta, in una serie di avventure politico-rivoluzionarie che vanno dal sostegno alle femministe più accese al finanziamento dei movimenti di liberazione marxistica in Africa, in Asia e in America Centrale. La dottrina sociale di queste «Chiese» si riduce ormai spesso alla idea di «una felice coincidenza fra i disegni di Dio e quelli della sinistra del Partito Democratico» (p. 232), mentre il riferimento storico è — secondo la espressione di un documento dei «discepoli di Cristo» — ai «sogni che abbiamo tradito, i sogni del 1789 e del 1917» (p. 243).
Le «Chiese» mainline pagano le loro posizioni politiche con una continua emorragia di fedeli, che assume ormai proporzioni drammatiche, a favore dei gruppi evangelici e fondamentalisti che costituiscono il nerbo della moral majority. Per milioni di protestanti americani, scrive Richard John Neuhaus, istituzioni come il Consiglio Nazionale delle Chiese, oppure il Consiglio Mondiale di Ginevra, sono — semplicemente — «il nemico» (p. 208): è un elemento di cui anche l’ecumenismo cattolico dovrebbe forse tenere maggiore conto. Questo e altri fenomeni mostrano come molti americani, forse la maggioranza, desiderano che si esca dalla situazione in cui la piazza pubblica è nuda. Come uscire? E chi è in grado di guidare il cammino? Nel rispondere alla seconda domanda il luterano Richard John Neuhaus si volge con molta attenzione alla Chiesa cattolica. Cinquanta milioni di americani sono cattolici: è il più grande gruppo religioso negli Stati Uniti, e ha dalla sua «la forza di Giovanni Paolo II, una figura storica singolarmente persuasiva» capace di riproporre instancabilmente l’ideale di una unità tra fede e impegno sociale, il contrario della ideologia della «piazza pubblica nuda». «Il momento dei cattolici — scrive l’autore — non venne, come alcuni dicono, nel 1960 quando John F. Kennedy fu eletto, in larga parte perché Kennedy rassicurò subito l’elettorato lasciando intendere che non era un cattolico molto serio»: «Il momento cattolico è ora. Tuttavia, può essere perduto» (p. 262), e di fatto andrà perduto — a suo dire — se una larga parte della leadership cattolica, anziché proclamare quella unità tra fede e politica di cui gli Stati Uniti hanno così disperatamente bisogno, continuerà a «imitare la mainline protestantica, che dal canto suo sta franando» (p. 262), nell’inseguire i miti del terzomondismo rivoluzionario e dei movimenti di liberazione. Se i cattolici sapranno rispondere in modo convincente alla sfida storica che gli Stati Uniti oggi propongono, si aprirà la strada di un dialogo con i luterani, rimasti al di fuori della mainline, e di una collaborazione, per quanto critica e difficile, con gli evangelici fondamentalisti e «reaganiani» della moral majority. Ne potrebbe nascere la «nuova proposta americana» di una religione come anima della vita sociale, ritornata al centro della piazza pubblica, cioè una religione intesa, sempre secondo Richard John Neuhaus, come insieme di valori morali in cui i cristiani, nonostante la separazione delle Chiese, ancora convergono e che ha unito molti di loro nelle battaglie contro l’aborto, la eutanasia, la pornografia e nel rifiuto del comunismo; ma non solo: l’autore di The Naked Public Square si rende conto che la morale da sola non basta, e propone di rimettere al centro della politica e delle leggi la consapevolezza della nostra dipendenza dal Mistero che ci ha creati, il senso di Dio e della sua legge.
Con The Naked Public Square la teologia protestantica americana, che era stata in prima linea — basta pensare a Harvey Cox — nel mostrare i pretesi vantaggi della società secolarizzata, rimanda ora all’Europa un messaggio la cui importanza non può essere misconosciuta: la società secolarizzata conduce al totalitarismo e alla barbarie, da cui solo una nuova unità tra fede e politica può preservare l’Occidente.
Perché questo messaggio possa essere convenientemente recepito mi sembra, peraltro, che valga la pena di precisare anche quali sono gli elementi della proposta di Richard John Neuhaus che, dal punto di vista cattolico, possono sollevare dubbi o perplessità. Le obiezioni non investono tanto la descrizione della genesi e dei pericoli della società secolarizzata, ma le proposte positive per superarla. Colpisce, anzitutto, l’assenza di ogni riferimento al diritto naturale come elemento comune che cattolici e protestanti potrebbero proporre alla società americana, innestandosi, tra l’altro, su una tradizione ricca e significativa. L’assenza si spiega forse con l’uso, per così dire, «di sinistra» della nozione di «diritto naturale» in tutta una recente letteratura americana di impronta lockiana e contrattualistica; si spiega — ancora di più — con il fatto che l’autore è un teologo luterano, e quindi, in genere, poco aperto a riconoscere la positività di elementi naturali. Dal diritto naturale, tuttavia, l’indagine sembra potere difficilmente prescindere, quando si vuole cercare una base di impegno politico comune per i credenti in una società pluralistica.
Il punto di riferimento politico di Richard John Neuhaus è la «democrazia americana». L’aggettivo è importante, in quanto l’autore si rende conto della esistenza di diversi modelli di democrazia, e contrappone ripetutamente il modello americano a quello illuministico europeo, rivendicando alla «democrazia americana» il riconoscimento di un duplice limite: in alto, la priorità della legge di Dio; in basso, i diritti concreti di persone concrete e non di «cittadini» astratti. Tuttavia egli sembra talora attribuire alla «democrazia americana» un valore assoluto, come la forma di governo più adatta ad essere permeata dai valori cristiani, mentre la dottrina sociale della Chiesa ha sempre insegnato che nessuna forma di governo, di per sé, assicura la giustizia e il rispetto della legge di Dio. La Gaudium et spes, al n. 31, dopo avere lodato il principio di partecipazione, aggiunge: «Si deve tuttavia tenere conto delle reali condizioni di ciascun popolo e della necessaria solidità dei pubblici poteri». Commenta padre Anselm Günthör O. S. B. nel terzo volume del suo Chiamata e risposta, uno dei manuali di morale più adottati nei seminari di diversi paesi: «Il cristiano non può condividere il culto della democrazia. Per “culto della democrazia” intendiamo la convinzione politica secondo la quale la forma democratica di Stato in quanto istituzione, di per sé e da sola, garantisce il benessere terreno […]. Questo culto della democrazia è pagano: fa di un’istituzione terrena un idolo e una dispensatrice di salvezza» (ed. it., Edizioni Paoline, Roma 1979, vol. III, p. 270).
Richard John Neuhaus, infine, partendo dal quadro pluralistico della vita religiosa americana,, propone una società e leggi animate da quanto cattolici e protestanti — e anche altri uomini religiosi — hanno in comune, al di là delle loro divergenze, e si sforza di dimostrare che questi valori comuni costituiscono un catalogo sufficientemente ampio per diventare anche progetto politico. Egli conosce la dottrina cattolica classica sui doveri dello Stato nei confronti della religione, ma ritiene che oggi anche i cattolici possano aderire senza riserve alla sua proposta, in quanto la dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Ecumenico Vaticano II implicherebbe l’abbandono delle tesi ostili alla presenza pubblica dell’errore (cfr. p. 120). Il punto toccato dall’autore è estremamente delicato; ma il cattolico deve almeno enunciare una distinzione di fondo. Dal punto di vista strategico la proposta di Richard John Neuhaus può apparire ragionevole a un cattolico che consideri l’attuale situazione degli Stati Uniti, né la Chiesa ha mai condannato la collaborazione sul terreno politico-sociale con uomini di altre fedi, quando sia necessaria in vista del bene comune. Dal punto di vista dottrinale la collaborazione in nome della comune opposizione alla ideologia della società secolarizzata non può implicare né confusione né relativismo.
Quanto alla Dichiarazione sulla libertà religiosa, l’autore potrebbe forse meditare sulle insospettabili recenti affermazioni di un protagonista del Concilio, il cardinale Gabriel-Marie Garrone, che vi riscontra «qualche ombra». «Infatti a mio parere — dichiara il porporato — il decreto Dignitatis Humanae non sottolinea in modo adeguato l’elemento di continuità con il passato. Qualcuno vi potrebbe leggere addirittura un rifiuto delle concezioni precedenti. Mentre non c’è nulla di più falso che leggere il Concilio in chiave di rottura con il passato, con la “Chiesa preconciliare”» (Io, l’amico Wojtyla e la Gaudium et Spes, intervista a cura di Lucio Brunelli e Tommaso Ricci, in 30 giorni, anno III, n. 3, marzo 1985, p. 23).
Le osservazioni critiche mi sembrano necessarie perché il volume di Richard John Neuhaus, senza che si rischi di promuovere equivoci, possa venire letto e accolto anche da molti cattolici europei preoccupati dalla separazione tra fede e politica. Le osservazioni riguardano il testo di The Naked Public Square. L’elemento nuovo, su cui vale la pena di riflettere, è tuttavia soprattutto il fatto stesso che al centro del dibattito politico-religioso negli Stati Uniti vi sia oggi un libro il cui messaggio centrale e inequivoco è la condanna della separazione tra la vita pubblica e la fede.
Massimo Introvigne