di Valter Maccantelli
In queste settimane molte cose si sono mosse in Libano, Paese nel quale ‒ è bene ogni tanto ricordarlo ‒ l’Italia schiera 1.200 soldati inquadrati nel contingente UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon, Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite).
Il 4 novembre, il primo ministro libanese Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni con un annuncio a sorpresa, mentre si trovava a Riad, ospite della monarchia saudita. La prassi insolita ha fatto sospettare che questo gesto sia stato indotto dall’astro nascente della dinastia regnante saudita degli al-Saud, il principe ereditario Muhammad bin Salman, impegnato nella corsa per la successione al padre, Salman bin Abd al-Aziz. Hariri è esponente del principale partito sunnita libanese, il Partito (Movimento) del Futuro (PF), e interlocutore privilegiato dell’Arabia Saudita, dove la sua famiglia possiede rilevanti interessi economici.
Per buona misura, l’Arabia Saudita, insieme a Bahrein e Kuwait, ha invitato i propri cittadini residenti in Libano a lasciare il Paese. Sempre L’Arabia Saudita ha richiesto la convocazione di una riunione di urgenza della Lega Araba per il 19 novembre nella quale avrebbe intenzione di chiedere, nel quadro di una forte denuncia delle ingerenze iraniane nella regione, una serie di sanzioni economiche contro Beirut accusata di essere prona all’influenza del movimento sciita filo-iraniano Hezbollah.
La politica regionale di Riad e del suo principe ereditario, volta a fronteggiare l’Iran al limite dello scontro, è certamente la chiave di lettura più ovvia. In questa guerra asimmetrica, Muhammad bin Salman sembra non voler fare prigionieri, come dimostrano la guerra in Yemen, l’ostracismo nei confronti del Qatar, le minacce nei confronti del Bahrein e le tensioni con l’Oman, tutti amici di Riad che però si sono visti proferire dure minacce per il minimo gesto di apertura verso l’altra sponda del Golfo. In questo senso, i sauditi hanno qualcosa da rinfacciare al fedele alleato Saad Hariri, che dal novembre 2016 e fino alla scorsa settimana ha governato avendo di fatto Hezbollah nella propria coalizione.
Dalla prima intervista concessa da Hariri dopo le dimissioni a Future TV e riportata dalla BBC sembrerebbe lecito ipotizzare anche una chiave di lettura che guarda alla politica interna libanese. I toni dell’ex premier verso Hezbollah diventano ogni giorno più duri: prima ha accusato l’Iran di volerlo assassinare, poi Hezbollah di utilizzare il Libano per destabilizzare i Paesi vicini (la Siria) e, infine, ha ipotizzato di poter anche ritirare le dimissioni se il movimento del Sayyid Hassan Nasrallah cambierà posizioni, cosa palesemente impossibile.
Questo crescendo di dichiarazioni ha il sapore di una scenografica presa di distanza dall’ingombrante alleato di governo. Hariri sembra aver scoperto a Riad quello che in realtà sapeva già molto bene: Hezbollah è la longa manu di Teheran nella regione e, a fronte di un significativo sostegno economico e militare, supporta la politica d’influenza della Repubblica sciita in Libano, Siria, Yemen e ovunque ve ne sia bisogno. Non è un segreto e, anzi, viene dichiarato da esponenti di Hezbollah in tutti i modi possibili.
Sembra quindi lecito ipotizzare che le pressioni saudite e l’approssimarsi delle elezioni politiche, previste a maggio 2018, abbiano spinto Hariri a quello che dalle nostre parti verrebbe chiamato “un segnale di discontinuità” nel tentativo di ricuperare il consenso dei sunniti libanesi molto delusi dall’inclinazione al compromesso dell’ex primo ministro e preoccupati per una legge elettorale, approvata pochi mesi or sono, che con un sistema proporzionale spinto favorirebbe la rappresentanza parlamentare di sciiti e cristiani.
È un quadro molto complesso al livello sia internazionale sia nazionale che rischia di gettare per l’ennesima volta nel caos quel Libano che, con tutte le difficoltà e i distinguo del caso, resta uno dei pochi posti dove sopravvive una pallida ombra di quella che è stata l’anima cristiana del Medioriente come ha con precisione ricordato Papa Benedetto XVI nel suo storico viaggio compiuto del 2012: «In Libano, la Cristianità e l’Islam abitano lo stesso spazio da secoli. Non è raro vedere nella stessa famiglia entrambe le religioni. Se in una stessa famiglia questo è possibile, perché non dovrebbe esserlo a livello dell’intera società? […] Non dimentichiamo che la libertà religiosa è il diritto fondamentale da cui molti altri dipendono. Professare e vivere liberamente la propria religione senza mettere in pericolo la propria vita e la propria libertà deve essere possibile a chiunque».