Salvatore Calasso, Cristianità n. 424 (2023)
1. La Rivoluzione conservatrice e l’«eterno ritorno»
La «Rivoluzione conservatrice» è un movimento politico-culturale che ha origine in Germania alla fine del primo conflitto mondiale (1). Nella storiografia il termine assume un’accezione chiara a partire da uno studio dello scrittore e filosofo svizzero Armin Mohler (1920-2003) (2). Quella categoria racchiude un movimento di idee «[…] il cui fulcro ideologico sta tutto in una particolare immagine del mondo: “l’immagine dell’eterno ritorno”, del tempo ciclico, opposta alla prospettiva teleologica cristiana» (3), come afferma lo studioso Stefan Breuer. Secondo lo storico del pensiero Antonio Giuseppe Balistreri, Mohler «[…] aveva attribuito alle istanze di rifiuto del cristianesimo, ed in particolare al proposito di sostituire la visione lineare del tempo con quella circolare (in continuità dunque con la rottura filosofica operata da Nietzsche), il suo nucleo tematico aggregativo centrale» (4). Per Mohler esisterebbe una correlazione fra cristianesimo e ideologie politiche liberali e progressiste per cui sarebbe necessario proporre un modello alternativo, costituito dalla visione «pagana» della storia dentro cui si muove la Rivoluzione conservatrice, che «[…] non è pensabile senza Nietzsche […]; il cui influsso lo si rintraccia dappertutto» (5). Questo «padre spirituale» pone la Rivoluzione conservatrice in coerenza con lo sviluppo della modernità, di cui è un filone.
La visione ciclica della storia è fondamentale per la Rivoluzione conservatrice. Partendo dall’ipotesi che Dio non esiste, il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), nell’estate del 1881, elabora la rappresentazione del tempo come «eterno ritorno dell’uguale»: siccome il mondo è composto da infiniti elementi, che non sono creati e non vengono distrutti, per forza di cose questi ultimi dovranno riaggregarsi allo stesso modo infinite volte. Questa concezione viene da lui formulata per la prima volta ne La gaia scienza, dove scrive: «Questa vita che vivi adesso e che hai vissuto, dovrai viverla ancora innumerevoli volte; e non ci sarà niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto quello che in essa c’è di indicibilmente piccolo e grande deve tornare, e tutto nella stessa sequenza e successione — persino questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e persino questo istante e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene girata di continuo —, e tu con essa, infimo granellino di polvere!» (6). Nell’opera Così parlò Zarathustra questa dottrina raggiunge l’espressione più completa. Nietzsche sotto le sembianze di Zarathustra si presenta come il maestro dell’eterno ritorno, colui che ha il dovere di insegnare tale dottrina. «Vedi — scrive —, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose ritornano eternamente e noi stessi con loro, e che noi siamo già stati, un’eternità di volte, e tutte le cose con noi. Tu insegni che vi è un grande anno del divenire, un portentoso grande anno: il quale, come una clessidra, deve sempre di nuovo capovolgersi, per scorrere via e consumarsi sempre di nuovo: così che tutti questi anni sono uguali a se stessi, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole, così che noi in ogni grande anno siamo uguali a noi stessi, nelle grandi e anche nelle piccole cose» (7).
Nella sua ascesa solitaria Zarathustra sperimenta la pesantezza della volontà, schiacciata dalle passioni terrestri che lo allontanano da ogni visione superiore cui anela il suo essere. A queste si aggiunge l’infinità del tempo che rende ogni traguardo e ogni progetto impossibili da raggiungere, nonostante gli sforzi compiuti durante la salita verso le alte mete. Il tempo consuma tutte le energie, diviene padrone delle volontà più tenaci e distrugge perfino le più robuste speranze. Lo spirito della gravità, qui inteso come presa di coscienza dell’infinità del tempo, rispedisce indietro ogni slancio vitale e lo abbatte nella caduta. Guardare nell’abisso del tempo porta a scorgere la vanità di ogni progetto e causa una paralisi a chi fantastica sulle più grandi possibilità dell’uomo. Ogni cosa che l’uomo progetta e intraprende non può crescere in eterno: lo impone il tempo. È chiaro che dinanzi al tempo che avanza inesorabile ogni azione assume le parvenze dell’assurdo, ogni rischio diventa senza motivo, ogni grandezza viene ridimensionata. La volontà di potenza di cui è animato il superuomo non può vincere la legge del tempo: di fronte all’infinito ripetersi dei suoi cicli, si scopre limitata. Per superare questa condizione Nietzsche si appella al coraggio, come alla qualità più propria dell’uomo. Grazie a esso ci si libera dalla compassione e si trasforma il passato in un nuovo inizio. Dove collocare questo nuovo inizio? Per Nietzsche esso si trova sotto un arco, il punto in cui si incrociano e da cui si diramano due vie, una verso l’infinito futuro e l’altra verso il passato infinito: «Ma proprio lì, dove ci eravamo fermati, c’era un arco. “Guarda questo arco! Nano!” continuai: “Esso ha due facce. Due strade si incontrano qui: nessuno le ha mai percorse fino alla fine. Questa lunga via all’indietro: essa dura un’eternità. E quella lunga via in avanti — è un’altra eternità”» (8).
Nell’attimo presente, unico punto concesso all’uomo, esiste una contraddizione perché l’eternità che si manifesta in quel punto di convergenza di due vie diritte, si trasforma automaticamente in divergenza perché allontana passato e futuro. Ogni attimo, però, è punto di convergenza e divergenza e qui sta la menzogna: «Tutte le cose dritte mentono […]. Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo» (9).
Martin Heidegger (1889-1976), nell’opera dedicata a Nietzsche, chiarisce questo concetto: «[…] se le due vie scorrono nell’eternità, vanno verso la stessa cosa, quindi vi convergono e si conchiudono in un tragitto ininterrotto. Quelle che a noi sembrano due vie diritte che si dipartono l’una dall’altra, non sono in verità che la parte per ora visibile di un grande circolo che ritorna continuamente su se stesso. Le cose diritte sono una parvenza. In verità il loro scorrere è un circolo, cioè la verità stessa — l’ente, così come esso in verità scorre — è ricurvo. Il ruotare-in-circolo-su-se-stesso del tempo e quindi il continuo ritornare dell’uguale, di tutti gli enti, nel tempo, è il modo in cui l’ente nel suo insieme è. Esso è il modo dell’eterno ritorno» (10).
Davanti a questa situazione l’uomo avrebbe due alternative: o farsi schiacciare dall’incessante ripetizione del tempo che rende vana ogni opera, perché reitera quanto già fatto, oppure acquisire la consapevolezza che ogni azione fatta, ogni scelta compiuta è inserita nell’eternità del tempo e, come tale, va oltre la vita stessa dell’uomo; così la volontà umana entra nel ciclo dell’eternità e l’uomo si trasfigura, va oltre sé stesso, diviene il signore del tempo eterno. Scrive Nietzsche: «Non più pastore, non più uomo — un trasformato, avvolto di luce, che rideva! Mai prima sulla terra un uomo aveva riso come lui rideva» (11).
Nietzsche considera l’attimo presente e, dunque, ogni momento del tempo, degno di essere vissuto pienamente per sé stesso. Contro il disfacimentodella vita nel tempo, e non esistendo nessun aldilà,la circolarità di quest’ultimo sarebbe la soluzione per riportare il tutto nell’eternità e in essa la volontà di potenza si afferma come la decisionecapace di dare all’uomo il coraggio per accettare la legge dell’eterno ritorno dell’uguale, affrancando al contempo la propria esistenza dal nulla cui la morte la destina, perché anche la morte è nell’eterno ritorno. Ciò che l’uomo decide ora, nell’attimo, sarà sempre deciso nel futuro. Prendendo consapevolezza di ciò, l’uomo accetta l’eterno ritorno e lo prende su di sé, diventando libero dalla schiavitù del tempo. L’eterno ritorno deve essere sopportatocon coraggio e tenacia e affrontato nell’attimo presente, poiché è qui che smaschera l’esistenza nella sua irriducibile dualità tragica di vita e di morte, di gioia e di dolore. L’eterno ritorno non deve essere subìtoma scelto come la possibilità più propria per l’uomo, poiché, in questo modo, l’uomo acquista la centralità nel tempo e nello spazio e la vita regala attimi immensi, senza alcun bisogno di riferimenti normativi trascendenti. L’uomo trasformato riesce così a vincere la condanna all’eterna ripetizione e conquista la vita, identificando essere e divenire nell’attimo. È proprio in esso che si fondono passato, presente e futuro e tutto in esso torna.
Questa consapevolezza porta l’uomo a vivere esercitando un potere sulla realtà nell’attimo presente, senza alcuna giustificazione e senza alcuna finalità, in un susseguirsi di momenti, secondo l’andamento circolare dell’eterno ritorno. Questa gestione del reale come unico patrimonio individuale è «volontà di potenza». Essa è l’essenza del nichilismo, pensata da Nietzsche, che non si presenta come la ricerca spasmodica del potere assoluto, ma l’esercizio «reale» del potere in questo momento disponibile, senza riferimento ad alcuna regola superiore o ad alcun comandamento divino.
Nel perenne movimento dell’eterno ritorno, passato e futuro si ritrovano nel presente e da esso si dipanano, liberando l’uomo dalla trappola di un presente, senza passato e futuro. È in questa consapevolezza che l’uomo esercita nell’attimo la sua volontà di potenza.
La Rivoluzione conservatrice fa propria questa posizione. Armin Mohler la colloca nella lotta ai princìpi dell’89 e al mondo nato da quel sommovimento, «[…] che non pone al centro il lato immutabile dell’uomo, ma crede invece di poter trasformare l’essenza dell’uomo» (12), anche se «alla Rivoluzione Conservatrice appartiene in effetti, come già dimostra il nesso paradossale tra i due termini, solo chi combatte i presupposti del secolo del progresso, ma nello stesso tempo non vuole ricostruire un qualsiasi “Ancien Régime”» (13) e ciò la distingue sia dal pensiero contro-rivoluzionario, sia da quello più spiccatamente conservatore.
Una tale interpretazione del fenomeno apre a un’idea spirituale e mitica della nazione, che possa riportare l’uomo, in particolare quello tedesco, ai costumi, alle tradizioni e alla fede del passato, cioè a quell’unità culturale, unità nel rapporto fra uomo e uomo ma anche fra uomo e natura, che venne compromessa e poi definitivamente rotta dalla rivoluzione borghese e individualista del secolo XVIII. Si tratta di rettificare l’individualismo, che ha abbattuto l’antico ordine e le comunità, per consegnare la coscienza all’inquietudine e alle illusioni della libertà, che hanno finito per distruggere quei legami storici e religiosi che conferiscono a ciascuno il proprio compito nel mondo.
Davanti alla dissoluzione di cui è investito il mondo occidentale, un «rivoluzionario conservatore», Edgard Julius Jung (1894-1934), vaticina un ruolo di guida per la Germania nella lotta contro questa dissoluzione (14). Infatti, grazie a questa leadership si potrà bloccare il disfacimento dell’umanità occidentale e si potrà fondare un nuovo ordine con un nuovo ethos capace di dare una nuova unità all’Occidente attorno alla Germania. Per Jung «[…] la Germania non è soltanto un territorio, uno Stato o una nazione, ma innanzitutto un’entità metafisica portatrice di valori salvifici che le sono costitutivamente peculiari» (15). Questa idea rappresenta un Leitmotiv aggregante sul piano delle concezioni e del discorso politico di tutto il variegato mondo della Rivoluzione conservatrice, che trova nel Terzo Reich il suo avveramento, anche se ben presto contestato da alcuni esponenti della stessa, come lo stesso Jung, assassinato nella Notte dei Lunghi Coltelli (16).
La Rivoluzione conservatrice ha un connotato molto più ampio di quello specificamente politico, che comprende la cultura e l’estetica e, per questo, teoretico, nel senso nietzschiano che «[…] l’arte è il compito supremo e la vera attività metafisica della nostra vita» (17); ma finanche mitico, poiché i miti formano l’eredità di una nazione e ne costituiscono un’unità non razionale e sistematica ma vivente. È solo nel passato mitico che può essere recuperato il fondamento, il principio di unità in grado di rifondare la nazione in crisi. La Rivoluzione conservatrice allora è un orizzonte globale di pensiero che vuole andare oltre la modernità, pur rimanendo nel suo solco, perché, come scrive il pensatore tedesco Ernst Jünger (1895-1998), esponente di spicco della Rivoluzione conservatrice, «conservatore non significa restauratore, poiché nella condizione di restaurazione si trovano le idee del 1789, con i loro simboli e le loro istituzioni, che sono diventate singolarmente logore, spesso anzi spettrali» (18). La Rivoluzione conservatrice lotta contro queste idee: vuole depennare il passato, causa della crisi dell’uomo contemporaneo, un passato, però, che non si ferma solo ai princìpi dell’Ottantanove, ma va oltre, fino a coinvolgere tutto il pensiero razionale. A questo passato oppone un ritorno alle origini, una «rivoluzione» verso le forme mitiche dell’esistenza: una rivalorizzazione di quelle strutture di pensiero che vengono prima della manifestazione del pensiero razionale, e con esso della civiltà europea, e che per questo motivo non possono essere colpite dal crollo e dall’implosione di questa. Queste strutture sono l’ancora di salvezza per non naufragare nella crisi e per uscire da essa verso il futuro.
2. Rivoluzione conservatrice e Contro-Rivoluzione
Per comprendere pienamente il carattere paradossale di questo concetto bisogna precisare il termine «Rivoluzione». La scuola di pensiero cattolica contro-rivoluzionaria, che nel secolo XX ha avuto nel pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) uno dei suoi massimi esponenti, così la descrive: «Diamo a questo vocabolo il senso di un movimento che mira a distruggere un potere o un ordine legittimo e a instaurare, al suo posto, uno stato di cose — intenzionalmente non vogliamo dire “ordine di cose” — o un potere illegittimo» (19). L’ordine legittimo è quello che nella sua struttura sociale e politica rispecchia, «[…] una visione della realtà come dato “naturale”, cioè esiste una natura umana con leggi proprie, naturali, che presiedono al retto vivere civile: sono esse il fondamento della politica. E vanno rispettate e tutelate. Il compito dello Stato è quello di favorire tale tutela e rispetto da parte dei cittadini con una legislazione adeguata. In questa visione si colloca la difesa di quelli che vengono chiamati valori tradizionali, come il valore primario della vita umana dal concepimento alla morte naturale, la famiglia naturale come cellula fondamentale della società, la cultura nazionale come patrimonio comune di un popolo, la proprietà come valore sociale, la religione come valore fondante il vivere personale e comunitario» (20).
La Rivoluzione vuole eliminare questa visione della realtà e questo modo d’essere dell’uomo per rimpiazzarli con altri radicalmente opposti, che riconoscono nell’individuo un essere singolare, totalmente libero, autonomo e autoreferente. È quel tour d’esprit di cui parla Jünger: «Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa più semplice» (21).
Queste citazioni di Jünger sono fondamentali per farci capire lo spirito con cui la Rivoluzione conservatrice vuole unire due termini opposti e antitetici. Infatti, dalla Rivoluzione francese in poi, la vita politica e culturale del mondo occidentale si è espressa secondo due concezioni dell’uomo e del vivere sociale contrapposte, due maniere diverse di accostarsi alla realtà e di conoscerla, cui sono stati i nomi di «destra» e «sinistra». Dice a tale proposito il filosofo italiano naturalizzato tedesco don Romano Guardini (1885-1968): «[…] l’una [la destra] conduce ad immergersi nell’oggetto e nel suo contesto, per cui l’uomo che vuol conoscere cerca di penetrarlo, di vivere con lui; l’altra [la sinistra], al contrario, raduna le cose, le decompone, le ordina in caselle, ne acquista padronanza e possesso, le domina» (22). A loro fanno riferimento, più o meno esplicitamente, il «conservatorismo» e il «progressismo».
3. Il conservatorismo
Il conservatorismo affonda le proprie radici in una concezione naturale e tradizionale della socialità umana, dove gli uomini si organizzano in corpi differenziati a partire dalla famiglia, composta da padre, madre e figli, cellula fondamentale dell’ordine sociale e prima comunità, anteriore a qualsiasi altra istituzione, compreso lo Stato. Come afferma l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009) «[…] la famiglia è l’emanazione, a livello sociale, di quei requisiti naturali senza i quali non ci potrebbe essere la società, né in fondo, il genere umano» (23). Intorno a questi requisiti naturali si organizza la società, che, secondo la concezione tradizionale, ha connotati ben precisi, descritti dal filosofo conservatore cattolico svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970): «I due primi bisogni provati dall’uomo e che egli ha chiesto alla società di soddisfare sono l’uno dell’ordine naturale, dell’individuo, ma l’altro dell’ordine spirituale, della persona. Si possono dire simultanei. Il bisogno di perpetuarsi e il bisogno di sopravvivere, la società familiare e la società religiosa. Con quella l’uomo assicura la sua stirpe, il suo divenire; con questa assicura la sua anima, il suo essere. Il corpo alla terra e l’anima a Dio: è la spartizione originaria ma anche il fondamento primordiale della distinzione fra l’individuo e la persona che Aristotele [384-322 a. C.] aveva già intuito. La società umana ha all’origine un altare e una tomba, e l’altare è sulla tomba. I due primi diritti dell’uomo, nello stesso tempo naturali e storici, sono dunque il diritto di organizzarsi in società familiare e il diritto di organizzarsi in società religiosa.
«Ma questi due primi diritti — prosegue de Reynold — ne implicano immediatamente un altro: il diritto di utilizzare i beni materiali per vivere umanamente, cioè da uomo libero, capace di difendere sé stesso e di svilupparsi secondo il suo essere — il diritto di possedere. […] Nel diritto di proprietà dobbiamo vedere la conseguenza del diritto alla famiglia, cioè alla discendenza e al focolare. Ma, se l’uomo non è assolutamente solo, neppure la famiglia è assolutamente sola. E anzitutto essa mette rami. Altre famiglie nascono da essa. Essa fa già parte di un gruppo più vasto, il clan, la tribù, la città. All’organizzazione sociale e all’organizzazione religiosa si unisce subito l’organizzazione politica, la cui prima forma è militare: la difesa comune. Così, per gradi, attraverso sviluppi concentrici, si vede nascere la società nazionale. La sua origine è in un bisogno originario e in un diritto primordiale di associazione, di difesa, fra uomini della stessa origine, con le stesse credenze, con gli stessi costumi, con gli stessi bisogni, dello stesso posto» (24).
Per comprendere pienamente la concezione della persona umana e della società propria del pensiero conservatore — che, nonostante il trascorrere dei secoli e il mutare delle situazioni storiche, è rimasto, nei suoi princìpi, inalterato — bisogna considerare le sue radici, che affondano nella concezione greca espressa mirabilmente da Aristotele nella Politica: «la natura […] destina ogni cosa ad una sola funzione: ed ogni strumento che non servisse a più usi, ma ad uno solo condurrebbe a termine la sua funzione nel migliore dei modi. La comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni è per natura la famiglia. La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio. […] La comunità perfetta di più villaggi costituisce ormai la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello di autosufficienza e che sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. […] Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che uomo» (25).
Da quanto detto risulta chiaro che «[…] l’uomo è un essere assolutamente sociale, cioè che trova la più piena realizzazione di sé solo e soltanto vivendo con gli altri e per gli altri, perché è la presenza degli altri che permette all’uomo di scoprire autenticamente se stesso. Infatti, l’uomo non può esistere “solo”; può esistere soltanto come “persona in comunità”, e dunque in relazione ad altre persone umane. Ciò si comprende dal fatto che l’uomo per elaborare i propri pensieri, che sono la modalità con cui comprende se stesso e il mondo che lo circonda, ha bisogno del linguaggio che è lo strumento tramite il quale comunica con gli altri e che non è una propria invenzione, ma un apprendimento comunitario. Tramite il linguaggio che diventa “lingua”, cioè espressione culturale di un popolo, l’uomo vive e sopravvive a se stesso, conoscendo e padroneggiando il creato. Grazie alla lingua, espressione comunitaria di un popolo, ogni persona conosce il suo essere. E ciò avviene grazie all’esistenza dell’altro che comprende le mie parole e mi risponde. Così tale diversa presenza dell’altro garantisce all’uomo l’autentica conoscenza e realizzazione di sé» (26).
Tutto ciò delinea una concezione della realtà umana come dato «naturale», con leggi proprie, che risiedono nella natura dell’uomo e lo precedono, sovrintendendo al retto vivere civile: sono esse quindi anche il fondamento della politica. L’uomo ha il dovere di conoscerle e di rispettarle, poiché ogni azione deve tener conto di qualcosa che viene prima di lui e che egli riceve come dato da comprendere e da custodire, non da stravolgere: il ricevere anticipa il fare e lo indirizza, gli dona un senso; per cui egli non può produrre norme che vadano contro quello che la natura è, soprattutto la natura umana. Questa constatazione si traduce in un dominio rispettoso della natura: «Quella prima maniera di dominare sentiva in profondità; abbracciava il contesto, liberava le energie, rendeva reali ed attive le virtualità, rilevava i desideri nascosti, li avvalorava e rigettava il resto nell’ombra. Era un “conoscere”, un far risaltare, uno stimolare, un guidare; era una gamma di energie e rapporti naturali. Tutto ciò che riceveva una forma rimaneva, in qualche modo, “natura”. Certamente illuminato dallo spirito, assoggettato alle intenzioni umane, ai pensieri dell’uomo, alle relazioni tra gli esseri, ma sempre in organica unione con la natura. Era un regnare che si otteneva per mezzo del servire; un creare secondo la natura, che non si scostava dalle direzioni indicate, che non oltrepassava i limiti stabiliti» (27).
Il pensiero conservatore sostiene la necessità della tutela del dato naturale e del suo rispetto da parte degli uomini. «In questa prospettiva —scrive lo storico Oscar Sanguinetti—, allora, conservatore, è chi, persona o dottrina, si sente legato in qualche misura a un determinato retaggio di cultura e di modelli di rapporti sociali che considera universale e perenne e che, in aggiunta, preferisce almeno “in prima battuta”, accedere e sfruttare tale retaggio, mettendosi in continuità con il passato, per progettare e per governare la società presente e progettare e promuovere lo sviluppo della società futura, piuttosto che desiderare la palingenesi della società del proprio passato, in forme rivoluzionarie o riformistiche radicali, e la sua riprogettazione in base a criteri nuovi e razionali, presunti perenni e universali» (28). Il suo impegno culturale e politico si muove in direzione di un ripristino dell’ordine sociale di stampo metafisico che affonda le sue radici nella visione cristiana dell’uomo e del mondo.
4. Il progressismo
Totalmente diversa è la concezione di chi si oppone al conservatorismo. La cultura «progressista» non considera il dato naturale come norma degna di rispetto, ritenendola fonte di squilibri e di disuguaglianze, e giudica il mondo come «sbagliato», perché contro l’individuo: da qui il compito «rivoluzionario» di cambiarlo secondo propri criteri razionali individualistici.
Questa visione è il frutto della cultura della modernità, un gigantesco tentativo di costruire una civiltà «perfetta» e autoreferenziale, senza alcun riferimento a Dio e alla sua legge, relegati ai margini oppure apertamente negati e combattuti. Il risultato di tale sforzo è stato l’instaurarsi di una civiltà in cui il dato «orizzontale», ciò che circonda l’individuo ed è oggetto del suo rispetto, si dilegua sotto l’incalzare di un’affermazione sempre più violenta dell’individualità, che rende invivibile la convivenza civile, nonostante gli sbandierati «diritti civili».
La modernità ha le sue basi in un antropocentrismo via via sempre più radicale e assoluto, la cui dottrina filosofica accentua il valore dell’autonomia dell’uomo nei confronti di Dio o della natura intesa come realtà più grande dell’uomo e non governabile da lui. In questa prospettiva l’individuo rivendica un modo «autonomo» di vedere il mondo e di vivere in esso, svincolato da ogni riferimento a leggi insite nella natura umana o a verità rivelate, che, nel caso dell’Europa cristiana, voleva dire allontanarsi dagli insegnamenti evangelici; anzi le regole che da essi discendono sono viste come un’imposizione esterna, limitante la libertà umana.
Il rifiuto di riconoscere le leggi che risalgono a Dio creatore porta come conseguenza il fatto che sia l’uomo a «creare» un sistema di regole «nuove», deducibili dall’uso della ragione, che conducono alla costruzione di un mondo «nuovo», indipendente da ogni riferimento trascendente. Con la modernità l’uomo immagina e costruisce la realtà secondo un proprio criterio di giudizio, criticando l’esistente con metodi razionali e presunti scientifici, senza riconoscere alcun dato «rivelato» o alcuna legge che non sia stata prima vagliata al lume della ragione.
A tale proposito cito un passo del filosofo liberal-socialista Norberto Bobbio (1909-2004): «Quello che oggi noi chiamiamo mondo moderno non è opera dell’Umanesimo né della Riforma, ma dello sviluppo della ricerca scientifica alla fine del secolo XVI. La grande frattura che divide il mondo moderno dal mondo medievale appare sempre meglio essere non già la restaurazione dell’antico, che fu ritrovamento ed intenso rivivimento di una grande tradizione che si era affievolita ma non era stata mai del tutto obliata, né il preteso rinnovamento del Cristianesimo delle origini, che portò ad una recrudescenza di dispute teologiche. Non fu né la lettura più genuina dei classici né la lettura più diretta dei testi sacri, ma il nuovo modo di leggere nel libro della natura e d’imparare la lezione dell’esperienza che fu proprio di un nuovo tipo di uomo di cultura, il filosofo naturale, che si contrapponeva tanto all’umanista quanto al teologo (o al riformatore religioso). Attraverso il rifiuto delle autorità dogmaticamente accettate, la critica dei testi consacrati dalla credenza ufficiale e dalla filosofia delle scuole, l’accumularsi di nuove cognizioni che rendevano l’uomo in misura sempre più grande padrone delle forze naturali e quindi del proprio destino nel mondo, il filosofo naturale aprì la strada allo straordinario progresso tecnico di questi ultimi secoli, ponendo le premesse di uno sconvolgimento così radicale della vita umana che solo partendo da esso si può parlare appropriatamente di una nuova società, contrassegnata dallo spirito scientifico e dalla costruzione tecnica, e distinta con un taglio netto dalle società precedenti» (29).
Questa citazione chiarisce l’equivoco della cultura moderna. Nata per supportare il «metodo scientifico», valido per indagare i segreti della natura, ha preteso poi di assolutizzare tale metodo, estendendolo all’uomo e alla società e facendone l’unico in grado di conoscere la verità. scrive Guardini: «Questa scienza non osserva, ma analizza. Essa non si immerge più nell’oggetto, lo afferra. Non compone l’immagine di un essere, ma una formula. Vuole sottomettere al suo potere ciò che le permetterà di asservire l’oggetto: la legge messa razionalmente in formule. Con ciò è dato anche il fondamento e il carattere della sua superiorità: coartazione arbitraria, spoglia di ogni specie di deferenza» (30).
L’assolutizzazione del «metodo scientifico» ha come risultato l’abbandono del «mistero»: ogni realtà ipotizzabile, ma non razionalmente dimostrabile, oppure confutabile, è ritenuta non certa, quindi irrilevante per l’individuo. Tale operazione porta a una cesura radicale verso il trascendente e l’organizzazione del reale secondo regole nuove e razionali. Ancora Guardini: «Queste, private dei loro legami organici, sono disponibili per ogni uso desiderato. E la nuova volontà di dominio non si sente in nessun modo tenuta a rispettare le vie naturali della creazione né le regole d’equilibrio, di fronte alle quali, anzi, resta assolutamente indifferente» (31). È il trionfo di una visione del mondo come realtà da poter costruire secondo leggi razionali, dove tutto ciò che non corrisponde a questo criterio deve essere abbattuto e sostituito con una costruzione perfetta in grado di superare ogni ingiustizia e disuguaglianza, fonti di sofferenza.
In questa prospettiva l’uomo non ha una natura stabile e predefinita, oggetto di rispetto da parte delle istituzioni, ma è il prodotto di un’evoluzione verso stadi presuntivamente sempre più perfetti, tramite un continuo processo di miglioramento delle condizioni esterne che si ripercuotono sulla natura umana. Sulla scorta di questa legge del progresso, diviene lecito ogni intervento per eliminare le disfunzioni sociali alla radice delle disuguaglianze e le rivoluzioni non sono state altro che il tentativo di porre fine alle contraddizioni sociali. Un episodio risalente al tempo della Rivoluzione francese, narrato dallo storico Jean Imbert (1919-1999), rende al meglio la portata utopica dell’azione rivoluzionaria intesa a eliminare ogni sofferenza tramite la modificazione radicale dei rapporti sociali. Egli racconta che un commissario del governo rivoluzionario dopo avere letto l’iscrizione «“Casa destinata ad alleviare le sofferenze dell’umanità” posta sopra l’entrata di un ospedale, si rivolge in questi termini agli amministratori dell’istituto: “Una parte qualunque dell’umanità deve necessariamente soffrire? […] Ponete dunque al di sopra delle porte di questi asili delle scritte che annunciano la loro prossima scomparsa. Poiché se, finita la Rivoluzione, avremo ancora tra noi degli infelici, le nostre fatiche rivoluzionarie saranno state vane”» (32). È questa l’essenza del progressismo rivoluzionario. Essa si basa su una concezione dell’uomo come «individuo», cioè come un’entità scorporata e assoluta, «[…] che è in se stesso una totalità» (33), come affermato da Bobbio.
Anche la socialità dell’uomo è percepita in modo diverso. Come la natura, è un insieme di forze in relazione reciproca, che assumono la forma di contrapposizioni sociali: padrone/servo, governanti/governati, borghesia/proletariato, vecchi/giovani, insegnanti/studenti, uomo/donna, bianco/nero, ecc. Ogni ambiente sociale, da quello religioso a quello politico, da quello economico a quello scolastico, da quello familiare e intergenerazionale a quello più ampio del rapporto fra i sessi e le razze, è pensato come rapporto di forze potenzialmente conflittuale, in cui il primo termine esprime una condizione di supremazia.
Da qui nasce la visione del processo storico come liberazione da queste supremazie per restituire all’uomo la libertà. Per questo c’è bisogno di creare un «uomo nuovo», l’«uomo totale», un individuo che consegue una libertà e un’uguaglianza mai prima realizzate.
Si può affermare che il senso profondo di tutto il movimento di rivoluzione sociale che il progressismo avoca a sé ha lo scopo di instaurare una libertà e un’uguaglianza radicali in cui tutte quelle che vengono percepite come disuguaglianze e supremazie tra gli individui sono abolite. L’«uomo nuovo», frutto della Rivoluzione progressista, è un individuo indifferenziato, talmente uguale all’altro, così fungibile all’altro che non è più diverso dall’altro; quindi, non si è più due, o molti, ma «uno solo»: l’«uomo totale». In questo modo, secondo l’utopia progressista, l’uomo supera sia lo stato di natura, sia quello civile e conquista la libertà agognata.
Per attuare questa prospettiva si serve della «politica», vista come mezzo rivoluzionario. Infatti, lo Stato è il dispositivo necessario per realizzare l’«uomo nuovo», frutto di una società nuova senza classi e priva di divisioni sociali. La scomparsa delle classi porterebbe con sé anche la sparizione dello Stato, poiché, non avendo privilegi da difendere, o rivoluzioni da attuare, non avrebbe più ragione d’esistere. La politica si ridurrà a semplice amministrazione e il governo a pura gestione. Questo passaggio sarebbe certo, anche se si ignorano i tempi del suo sviluppo.
Per raggiungere questo scopo la Rivoluzione utilizza la «[…] conoscenza dei mezzi di coercizione, autorità e violenza in virtù di fini arbitrariamente stabiliti […]. Così si sviluppa una tecnica dell’assoggettamento dell’essere vivente» (34), che si inserisce «[…] in un sistema gigantesco e agisce con una brutalità e violenza, quali una volta mai si sarebbero tollerate» (35). Quindi, l’uso pedagogico della scienza e della violenza è insito nel processo rivoluzionario. Il risultato conduce alla scomparsa della libera espressione della personalità nella maggior parte degli uomini, ridotta a massa informe, che segue gli istinti, sollecitati da un potere che ha nell’odio della natura umana la sua ragion d’essere.
La società nuova non avrebbe valori universali fondanti, basandosi unicamente sull’esaltazione dell’«io» individuale, considerato in astratto, senza alcun legame con gli uomini concreti, storici e il loro sistema di relazioni. La Rivoluzione moderna, quindi, in linea con la sua visione individualistica, programmaticamente sopprime legami. L’individuo, infatti, viene considerato l’istanza fondamentale; da lui scaturisce il tutto. Il fine della Rivoluzione, spiega l’ex leader di Potere Operaio Franco Piperno, è quello di formare il cittadino come individuo sociale, il che «[…] consiste nella capacità di divenire multiplo pur restando uno, senza rompersi psichicamente» (36). Perciò, non vi deve essere nulla che ne limiti l’agire. Il dato naturale, che è un limite oggettivo al delirio di onnipotenza dell’uomo, deve essere superato. Da qui la lotta contro ogni istituzione naturale e sociale e ogni legame fra gli individui, visti come dialetticamente contraddittori, perché generatori di opposti, e considerati un limite alla «libertà» del singolo. Ecco, in quest’ottica, la volontà di distruggere il legame familiare tramite il divorzio, l’aborto, l’equiparazione alla famiglia naturale delle coppie di fatto e di quelle omosessuali, nonché quella di considerare «famiglia» il single.
Queste teorie si pongono in antitesi alla concezione naturale e tradizionale della società umana, dove gli uomini si organizzano in corpi sociali differenziati, partendo proprio dalla famiglia.
Per i progressisti invece è fondamentale, come afferma ancora Piperno, «la formazione del cittadino come individuo completo e perciò multiplo, all’altezza del genere perché capace di tenere insieme almeno sette personalità, suonatore di flauto e cacciatore di funghi, è la ragione stessa per la quale, tanto tempo fa, la città ha avuto origine» (37). Ciò vuol dire che ai corpi sociali differenziati e organizzati in comunità, capaci di venire incontro alle esigenze dell’uomo, il progressismo libertario sostituisce l’individuo multiplo, capace di fare tutto. Infatti, solo negandosi come «io» personale, limitato, si può raggiungere una condizione dove tutte le tensioni si dissolvono e tutte le differenze sono abolite in un’uguaglianza indifferenziata. L’individuo che ha più personalità ha perso la sua falsa identità parziale e ne ha acquistata una nuova, quella del tutto, quella collettiva. «[…] e mentre l’uomo perde tutti i legami interiori che gli procuravano un senso organico della misura e delle forme di espressione in armonia con la natura, mentre nel suo essere interiore egli è divenuto senza contorni, senza misura, senza direzione, egli stabilisce arbitrariamente i suoi fini e costringe le forze della natura, da lui dominate, ad attuarli» (38), come afferma Guardini. È il trionfo della politica dei desideri che diventano diritti, stravolgendo il dato naturale dell’uomo. A livello sociale è il trionfo del melting pot, di un miscuglio indifferenziato in cui le diversità culturali, sociali ed etniche sono tutte poste sullo stesso piano e ridotte a curiosità folkloristica, senza incidenza reale, finendo così per contaminarsi, modificarsi a seconda del momento e cancellarsi in una «omologazione massificante», in cui le differenze si moltiplicano per quanti sono gli individui e contemporaneamente si annullano nella massa indifferenziata. Il risultato di questa operazione è la Babele contemporanea, in cui la mancanza di valori condivisi capaci di fondare la convivenza sta portando alla disgregazione del vivere sociale.
Questa differenziazione tra conservatorismo e progressismo, che è essenzialmente antropologica, ha dato origine a uno scontro bipolare, che si combatte tutt’oggi all’interno di ogni società occidentale che ha visto il trionfo della Rivoluzione moderna nelle sue varie forme.
5. La Rivoluzione conservatrice e la modernità
Dando per scontato questo successo, i pensatori della Rivoluzione conservatrice cercano un approccio diverso, nuovo, alla modernità. Essi intendono dare vita a un movimento equivalente ma antitetico ai grandi «balzi in avanti» delle rivoluzioni progressiste. Come afferma Balistreri, essi sono convinti «[…] che la rivoluzione ormai non può più essere arrestata; l’unica cosa che si può fare è di metterla a servizio di altri fini rispetto a quelli per i quali essa si trova ora ingaggiata» (39). Il loro punto di riferimento è la rivoluzione liberal-borghese che ha la sua origine nella Rivoluzione francese, il loro scopo è intraprendere strade nuove. Punto di partenza è, quindi e comunque, il trionfo della modernità con la sua idea individualistica di uomo, traslato della concezione tecnico-scientifica che ha permesso il dominio dell’ambiente sociale per mezzo dello Stato.
Come spiega ancora Balistreri, «la “rivoluzione conservatrice” è un prodotto della modernità, che si pone sul suo stesso terreno e ne mutua orizzonti concettuali e forme comportamentali. Le istanze di rifiuto della modernità che essa esprime costituiscono più una sorta di dinamica interna alla stessa modernità, da cui si produce la propria negazione, che il manifestarsi di vedute e atteggiamenti ad essa totalmente estranei» (40).
Essa trova la sua ispirazione proprio nella definizione del moto rivoluzionario come andamento circolare che, partendo da un punto, ritorna su sé stesso, ovvero un processo che mira a tornare a un determinato punto di partenza che è sì punto dal quale ci si muove ma anche termine ultimo, perfezionamento definitivo che si vuole riconquistare, dopo essersene allontanati. Il processo storico moderno è dunque una liberazione dalla necessità e dallo Stato per restituire all’uomo la libertà perduta. Come afferma Karl Kraus (1874-1936), «l’origine è l’obiettivo» (41). Rivoluzionario è allora chi dirige il suo sforzo vitale verso le origini del proprio essere e della propria cultura, in cui è immerso come in un liquido amniotico; cioè, colui che, nello sforzo di rivoltarsi contro la struttura della società, lotta per una riattualizzazione delle antiche «glorie» e vede nel futuro la loro realizzazione più completa. Queste glorie parlano al «rivoluzionario conservatore» di un passato in cui l’individuo viveva in un’età dell’oro e a cui ora egli volge lo sguardo e l’azione. In questo il suo atteggiamento è simile al «rivoluzionario progressista» che, come afferma Sanguinetti, «[…] privilegia, al contrario, un futuro idealizzato, quasi sempre pensato in ricollegamento con una “origine” presunta e idealizzata — ergo utopistica —, al passato sperimentato e collaudato, nel bene e nel male» (42). La Rivoluzione conservatrice non si uniforma al liberalismo di destra, non si confonde con il conservatorismo tradizionale, di cui vede solo le posizioni puramente difensive, ma prende su di sé le medesime richieste trasformatrici della modernità e le muta di segno.
Uno degli autori che ha espresso in modo più completo l’idea di Rivoluzione conservatrice è Arthur Moeller van den Bruck (1876-1925). Come dice Balistreri, «conservazione e rivoluzione, per Moeller van den Bruck, lungi dall’essere degli estremi escludentesi, costituiscono invece una polarità complementare, attraverso cui si muove la dinamica propria della storia. La strategia conservatrice di Moeller consiste in un’appropriazione dell’idea di rivoluzione che ne depotenzi il carattere dirompente da essa assunta nella modernità, reinserendola dentro un piano di discorso, quello cioè di tipo metafisico, proprio in rottura col quale essa aveva costituito un atto di sconvolgimento storico reale» (43).
Moeller rifiuta l’uso che fanno gli avversari liberali e di sinistra della rivoluzione e ne reclama uno proprio: «si tratta in sostanza di negare che la rivoluzione possa mettere seriamente in discussione l’edificio delle certezze metafisiche, e quindi l’esistenza stessa di un ordinamento oggettivo del mondo» (44), da cui deriva la legittimazione delle istituzioni sociali e politiche. Moeller ridefinisce «[…] la rivoluzione come forza al servizio della conservazione, al fine di poter legittimare l’idea che si possa rispondere alla rivoluzione degli avversari […] con una propria rivoluzione, che non deve servire ad altro, in sostanza, che ad accelerare la meta finale di conservazione verso cui essa tenderebbe» (45). La Rivoluzione conservatrice sostituisce il mito dell’emancipazione umana con un altro altrettanto salvifico di un nuovo radicamento e del ristabilimento dei valori spirituali degli inizi.
Nel credere possibile il recupero degli inizi, unitamente alla loro perfezione e beatitudine, il rivoluzionario sembra mosso dalla credenza «mitica» «[…] che la prima manifestazione di una cosa è quella significativa e valida, e non le sue epifanie successive» (46), come afferma lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986). Il suo impegno va nella direzione di salvaguardare il patrimonio vitale che rinviene nei primordi della tipologia di vita dalla quale si è originata questa esistenza e che è stata invece espulsa e chiusa in «[…] un pozzo dove per millenni sono stati scaricati rovine e detriti. Non appena essi vengono rimossi, riappaiono sul fondo non solo la sorgente, ma anche le antiche immagini» (47). Il vero rivoluzionario è dunque conservatore, come afferma ancora Jünger: «In questo senso si deve concordare con la definizione di Albrecht Erich Günther [1893-1942], che non intende la conservazione come un “restare attaccati a ciò che era ieri ma come un vivere di ciò che sempre vale”. Ma può sempre valere solo qualcosa che si sottrae al tempo» (48).
Ciò che va preservato è l’Uomo. È lui l’oggetto della riflessione della Rivoluzione conservatrice, l’Uomo alle prese col dominio delle macchine, frutto della seconda Rivoluzione industriale; l’Uomo astratto, simile a quello frutto del pensiero rivoluzionario, ma non quello concreto, quello storico che vive nelle comunità storiche particolari.
6. La crisi della coscienza europea
Per la Rivoluzione conservatrice il nostro tempo è segnato da una malattia misteriosa della quale però non si ricercano ancora i rimedi in modo efficace: la crisi della coscienza europea. A proposito di questa crisi, Papa Benedetto XVI (2005-2013) adopera un’espressione assai efficace: «[…] quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia» (49).
L’uomo europeo, nato e cresciuto nella culla di tre città, Atene, Roma e Gerusalemme, e ripensato in chiave antropocentrica con la riscoperta dei classici nella stagione del Rinascimento, un uomo che aveva creduto di veleggiare illuministicamente verso un mondo sempre migliore guidato dalla dea Ragione, utopisticamente governato dalla scienza, nel quale progresso e sviluppo delle condizioni materiali dell’esistenza coincidono, si ritrova invece, seguendo un’immagine di Jünger, «[…] su una zattera di rottami legata insieme. La sicurezza veniva meno, i valori diventavano provvisori, e tuttavia si restava ancora nell’alveo della tradizione. […] La zattera naturalmente era fragile e un puro mezzo di fortuna. Una volta che quelle corde avessero ceduto, sarebbe rimasto solo l’abisso insondabile degli elementi — chi l’avrebbe potuto affrontarlo? Ecco la domanda che assillava gli uomini. Vivevano tutti proiettati verso la catastrofe — non più baldanzosi come un tempo, ma in un’angoscia apocalittica» (50).
Di apocalisse si tratta perché si verificherà un vero e proprio «disvelamento», la scoperta della perdita dei caposaldi della cultura occidentale e in particolare lo «smascheramento» dell’illusione del potere illuministico dell’Io, che dispone a suo piacimento del mondo. Quando ciò succede l’uomo perde il potere che la ragione avrebbe dovuto, secondo l’Illuminismo, garantirgli sul mondo. Quest’ultimo sembra procedere indipendentemente dall’uomo, che non è più il suo centro. E lo fa elaborando leggi e regole non più «umane». La società stessa inizia a «esprimersi» in una lingua diversa, incomprensibile all’uomo. Nella misura in cui la scienza approfondisce in modo sempre più minuzioso la conoscenza della realtà, l’ordine complessivo delle cose sembra sfuggire all’uomo, incapace di uno sguardo d’insieme sul reale. La ragione, filosoficamente intesa, non riesce a stare al passo con la scienza, la quale anzi sembra essersi lasciata intenzionalmente alle spalle la prima, e con essa il suo fondamento: la verità. Il pensiero, ritiene Heidegger, è tecnica, «[…] il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre» (51), e la scienza «[…] fa parte dell’impianto» (52), che mira al dominio non solo sul mondo ma soprattutto sull’uomo. E per avere il massimo dell’efficacia abbandona ogni riferimento metafisico ed etico alla verità: essa, infatti, con le sue leggi e i suoi princìpi, sarebbe un ostacolo troppo grande al progetto di dominazione. Questa è la crisi dell’Europa: la crisi della ragione e, con essa, dell’intelligibilità del reale.
Al suo posto nasce e si afferma la volontà di potenza. Il suo punto di partenza può essere individuato nell’opera di Arthur Schopenhauer (1788-1860), Il mondo come volontà e rappresentazione, il cui pensiero fondamentale è già chiaro nel titolo. Qui il filosofo tedesco mette in crisi la tradizione della conoscenza occidentale: il mondo è volontà, impulso, forza sregolata nei suoi meandri più profondi e non ragione ordinatrice. Da questa tesi discende che «fenomeno significa rappresentazione, nient’altro: ogni rappresentazione, di qualsiasi tipo essa sia, ogni oggetto, è fenomeno. Cosa in sé, invece, è solo la volontà; come tale, essa non è affatto rappresentazione, ma è toto genere diversa da essa: è ciò di cui ogni rappresentazione, ogni oggetto, è il fenomeno, l’apparenza visibile, l’oggettità. È ciò che vi è di più intimo, il nocciolo tanto di ciascun singolo quanto del tutto: si manifesta nell’azione cieca di ogni forza della natura, ma si manifesta anche nella condotta ragionata dell’uomo; la grande differenza che c’è tra questi due casi concerne solo l’intensità della manifestazione, non l’essenza di ciò che in essa si manifesta» (53). Quindi per lui tutto è volontà, come avviene nei fenomeni naturali: «Se noi ora esaminiamo con l’occhio del ricercatore, se vediamo l’impeto potente, inarrestabile con cui le acque precipitano verso il basso, la costanza con cui il magnete si rivolge sempre verso il polo Nord, la smania con cui il ferro vola verso il magnete, la violenza con cui i poli elettrici tendono alla riunificazione […]; se noi vediamo il cristallo che prende forma rapidamente e all’improvviso, assumendo una configurazione così regolare […]; se noi osserviamo la scelta con cui i corpi, divenuti liberi grazie allo stato fluido e sottratti ai vincoli della solidità, si cercano e si evitano, si uniscono e si separano; se noi, infine, sentiamo senza alcuna mediazione, come un peso, la cui tendenza verso la massa terrestre sia ostacolata dal nostro corpo, gravi e prema incessantemente su di esso assecondando la propria unica aspirazione; allora non ci sarà bisogno di un eccessivo sforzo di immaginazione per riconoscere, anche a una distanza così grande, la nostra propria essenza: quella stessa essenza che in noi persegue i propri scopi alla luce della conoscenza, e che invece qui, nei più deboli dei suoi fenomeni, è una tensione solo cieca, sorda, unilaterale e immodificabile, ma che tuttavia, poiché è dappertutto una e la stessa […] anche qui […] deve portare il nome di volontà» (54). Anche la «condotta ragionata dell’uomo», la ragione, non è altro che un fenomeno della volontà.
Ecco la svolta ontologica, il passaggio dal primato della ragione che orienta e dirige la volontà che da Platone (428/427-348/347 a. C.) in poi ha caratterizzato il pensiero occidentale, al primato della volontà; quest’ultima, seguendo le impressioni sensoriali, desidera e vuole sconsideratamente,senza alcuna giustificazione e finalità, con una brama e un desiderio incontrollati e inarrestabili. Essa è, in ultima istanza, causa e fondamento della ragione stessa.
Il filosofo che porta alle estreme conseguenze il discorso di Schopenhauer è Nietzsche: «Non ha certo colto nella verità chi, proteso verso di lei, ha lanciato l’espressione “volontà di esistere”: questa volontà non c’è! Perché: ciò che non è, non può volere; ciò che invece è nell’esistenza, come potrebbe ancora volere l’esistenza! Solo dove è vita, là è anche la volontà: ma non la volontà di vita, bensì — così io ti insegno — volontà di potenza» (55).
La potenza è l’essenza della volontà. Questa ultima affermazione rompe e distrugge il pensiero stesso: da ricerca della verità, si trasforma affermazione solipsistica della volontà di potenza. Il pensiero perde quel rapporto essenziale che aveva avuto con la verità, una verità garantita, in ultima istanza, da Dio, dal quale l’uomo derivava leggi e condotte morali da seguire nel mondo.
La liberazione dall’essere trascendente causa la distruzione sia del reale sia dell’uomo, che proprio da Dio sono stati creati. Il mondo dell’uomo perde così di valore e giunge il nichilismo, «[…] cioè alla logica secondo cui non vi è nessuna verità assoluta esterna all’uomo a cui aderire, nessuno scopo da realizzare nella vita insito nella natura umana, se non quello deciso dall’uomo stesso con un atto libero della sua volontà. In questo modo l’uomo realizza la capacità di decidere ciò che è vero e ciò che è bene» (56).
Il nichilismo è il punto ultimo, l’esito finale del percorso della modernità nella storia dell’Occidente.
La crisi instauratasi con l’affermazione del nichilismo è, dunque, una perdita di fondamento e di ordine all’interno dell’Europa; viene meno lo scopo dell’umanità e il senso della vita, in quanto non può essere necessariamente derivato o dedotto dal nulla.
A questa crisi cercherà di opporsi la Rivoluzione conservatrice, proponendo un nuovo e diverso inizio, recuperato nelle origini mitologiche, senza però rinunciare al cammino verso il futuro fatto dalla Rivoluzione. Non c’è dubbio che il vecchio mondo va in rovina, ma dalle sue macerie ne sorgerà uno nuovo, che scaturirà dalle imperiture origini nascoste nel passato, che il fluire della storia non ha distrutto ma solo occultato.
Si tratta ora di individuare il momento in cui avviene la rottura, che produrrà queste manifestazioni critiche della cultura europea. Essa è ravvisabile nello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Afferma il sociologo delle religioni Massimo Introvigne, «[…] la Grande Guerra del 1914-1918 rappresenta una sinistra novità non solo per il primo uso massiccio di armi di distruzione di massa […] ma anche perché si teorizza e si pratica la separazione fra la guerra e la morale» (57).
La sconfitta degli Imperi Centrali porta alla distruzione dell’Impero Austro-Ungarico, realtà multietnica, dell’Impero Ottomano — la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938) è ridotta alla sola Penisola Anatolica — e del Kaiserreich, tedesco. Ancora Introvigne afferma che: «[…] la Prima guerra mondiale è la conseguenza della separazione dell’idea di patria e di nazione dalle sue radici religiose: con il Kulturkampf in Germania, con la laïcité in Francia, con le campagne laiciste e anticlericali dell’Ottocento in Italia» (58). Essa è il coronamento di una lunga marcia, iniziata con la Rivoluzione francese, che porta all’affermazione dell’idea di nazione quale entità collettiva astratta, composta dagli individui presenti su un determinato territorio e aventi un ordinamento comune, possibilmente repubblicano. Spiega il politologo federalista Francesco Rossolillo (1937-2005): «Mentre nel Medioevo, come notava Boyd C. Shafer [1907-1992], un uomo doveva sentirsi prima di tutto un cristiano, secondariamente un borgognone e soltanto in terzo luogo un francese (dove peraltro sentirsi un francese aveva allora un significato completamente diverso da quello che ha oggi), nella storia recente del continente europeo, con l’emergenza del fenomeno nazionale, la scala dei lealismi si è rovesciata, e il sentimento di appartenenza alla propria nazione ha acquisito una posizione di assoluta preminenza su qualsiasi altro sentimento di appartenenza territoriale, religiosa o ideologica; tanto che, da un lato i lealismi e le identificazioni regionali e locali sono stati praticamente cancellati dal superiore riferimento alla nazione (anche se oggi assistiamo al tentativo di ricuperarli per metterli al servizio di disegni di potere) e, dall’altro, le stesse affiliazioni ideologiche o religiose, che pur si pongono come universali per loro essenza, sono state nei fatti subordinate all’affiliazione nazionale, e quindi intimamente snaturate» (59).
L’esito è che, come dice Introvigne, «[…] cominciano a diffondersi in Europa nazionalismi senza nazione, ideologie in cui ciascuno vuole più potere per la sua nazione perché, appunto, è la sua e non perché la ritiene portatrice di valori moralmente apprezzabili» (60). In questo modo, spiega Sanguinetti, «impregnata di naturalismo e di secolarismo, la nazione del nazionalismo viene disancorata dal suo background naturale — i gruppi in cui si trova a vivere chi viene al mondo: la famiglia, il parentado, la stirpe, la terra natìa — e storico — la comunità di destino — per divenire un mito, una narrazione artificiale, costruita secondo i parametri che meglio si sposano con la volontà di potenza e di supremazia di un determinato gruppo di potere o di uno Stato» (61). Ciò lo si ritrova pienamente nell’atteggiamento assunto dalle potenze vincitrici nella Prima guerra mondiale teso a distruggere le vestigia imperiali degli Stati sconfitti, facendoli sparire, ridimensionandoli e umiliandoli, ponendo così le basi per la conflagrazione del secondo conflitto mondiale, alimentato da ideologie revansciste.
Questo pensiero lo si ritrova pienamente nella Rivoluzione conservatrice, che reagisce allo sfascio del Kaiserreich tedesco appellandosi al mito fondativo della nazione tedesca, da ritrovare e riportare in auge.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, in Germania, il Kaiser Guglielmo II (1859-1941), con un colpo di mano, è costretto ad abdicare e indotto all’esilio. Al suo posto si instaura una democrazia parlamentare in una nazione fortemente rovinata dalle indennità militari, materialment distrutta e moralmente umiliata dalle potenze vincitrici. Le riflessioni di Detlev Peukert (1950-1990) appaiono l’esergo migliore alla situazione vissuta in terra tedesca alla fine del primo conflitto mondiale. Egli scrive: «La nascita della [cosiddetta] Repubblica di Weimar non fu il risultato di un atto eroico o che perlomeno potesse essere considerato tale nella mitologia nazionale. Essa fu piuttosto l’effetto di un complicato e doloroso compromesso, il prodotto finale di sconfitte e reciproche concessioni più che il progetto radioso di un nuovo inizio […]. Quando entrarono in crisi simultaneamente il meccanismo di riproduzione economica e l’assetto sociale, la Repubblica […] non poté contare su quel credito di legittimazione da parte dei suoi cittadini che solamente avrebbe potuto agevolare una tenuta di fondo anche in piena crisi […]. I tedeschi azzardarono il loro esperimento repubblicano nel momento più sfavorevole possibile» (62). La Germania si trascina pesantemente fra spinte rivoluzionarie di stampo sovietico e un nostalgico populismo ultranazionalista a sfondo razzistico e antisemitico.
La sconfitta militare tedesca e la traumatica fine del Kaiserreich tolgono a molti reduci le convinzioni che l’esperienza della guerra aveva fornito. L’audacia, il coraggio e la solidarietà tra commilitoni che emergono in mezzo alla violenza delle situazioni belliche, lasciano il posto a uno smarrimento davanti alle rapide trasformazioni in atto. Quattro anni di guerra forgiano un’identità che molti veterani non riescono a ritrovare in una società in preda al caos e alla rovina. Quello a cui si sta assistendo è lo scontro fra «decadenza» e «civiltà». L’incomprensibile caotico mondo del dopoguerra è un miscuglio di tendenze opposte e contrastanti in costante fermento che danno vita a elaborazioni eterogenee di nuove possibilità di svolta sociale e politica di stampo conservatore come rivoluzionario. Per esempio, il già citato Jung, spiega Balistreri, «[…] vedeva in quello che era divenuto l’anno simbolo della insorgenza tedesca per eccellenza, il 1914, l’inaugurarsi di una nuova epoca che avrebbe messo fine alla Neuzeit, quel corso di civilizzazione, cioè, la cui vicenda aveva trovato il suo esordio cinquecento anni prima, quando, con il sorgere di un nuovo sentimento dell’io, l’uomo aveva cominciato ad estromettere Dio e a divenire al suo posto signore della creazione. […] Negli ultimi centocinquanta anni, poi, questo processo si sarebbe accelerato con il carattere predominante assunto dalla tecnica nella determinazione della vita umana, venendo a sanzionare il trionfo dell’astrazione e il distacco dell’uomo dalle sue basi naturali» (63).
L’età dell’uguaglianza, inaugurata dalla Rivoluzione francese, ha portato al tramonto del principio di un ordine naturale insito nella creazione, di cui l’uomo non può disporre a proprio arbitrio. Tutto ciò però ormai si è compiuto; da qui la necessità di inaugurare una nuova era che aspirasse a porre un nuovo fondamento e a scoprire nuovi princìpi di ordinamento sociale. La speranza dell’avvento di una nuova epoca che avrebbe posto fine alle rivoluzioni dell’età moderna è il sogno della Rivoluzione conservatrice. Essa «[…] sarebbe stata l’atto finale che avrebbe posto termine all’età delle rivoluzioni, andando fino alle sorgenti di essa e soffocandone il momento originario» (64). La Rivoluzione conservatrice — commenta il politico e saggista conservatore cattolico tedesco Hermann Rauschning (1887-1982) — avrebbe voluto «[…] raggiungere con una forza rivoluzionaria il contrario di una rivoluzione» (65).
A partire dal 1918, molti intellettuali, fra i quali figuravano personalità come Ernst Jünger, Carl Schmitt (1888-1985), Martin Heidegger, Arthur Moeller van den Bruck, Oswald Spengler (1880-1936), Thomas Mann (1875-1955), Gottfried Benn (1886-1956), Ludwig Klages (1872-1956), reagirono all’instabilità politica e alla debolezza della Repubblica di Weimar concentrando i loro impegni in un orientamento comune, quello della Rivoluzione conservatrice. In essala critica al progressismo illuministico dell’Occidente e il complicato rapporto con le ideologie socialcomuniste che si stavano facendo strada violentemente, si accompagnarono all’ardore rivoluzionario per una lettura anch’essa ideologica della tradizione nazionale, da opporre alle forze responsabili del disfacimento della nazione per far riappropriare il popolo, con una lotta eroica, del proprio destino. Dunque, un movimento la cui fisionomia conservatrice non volle alimentarsi a una tradizione, basata su princìpi eterni, che si credeva ormai scomparsa, ma preferì nutrire intellettuali che, nelle trasformate condizioni imposte dalla modernità, rappresentavano, come afferma il sociologo Karl Mannheim (1893-1947), «gruppi in larga misura indipendenti dalle classi […] reclutati da settori più ampi della vita sociale» (66), che cercarono di realizzare un rifacimento delle classiche coppie oppositive «sinistra e destra», «conservazione e rivoluzione», «socialismo e nazionalismo» nella direzione di un loro superamento e integrazione.
La medesima peculiarità, lo stesso ossimoro, contenuta nella definizione di Rivoluzione conservatrice,va intesa nell’orizzonte di un pensiero che pretende di essere reazionario e contemporaneamente rivoluzionario, indirizzato alla creazione di un nuovo modello culturale in cui hegelianamente «[…] lo spirito diventerà vita e la vita spirito, in altre parole: comprenderà politicamente ciò che è spirituale e spiritualmente ciò che è politico, costruendo una vera nazione» (67),come affermato dallo scrittore austriaco Hugo von Hofmansthal (1874-1929).
La realtà politica è pensata in termini totalitari, il che implica una rielaborazione della prassi politica tradizionale, alla luce della nuova concezione dello Stato che dall’Unione Sovietica stava dando lezione al mondo.
La Rivoluzione conservatrice affonda le sue radici in uno stato d’animo pieno di rancore e disinganno verso la società liberale, responsabile dell’attuale situazione di profonda crisi, e opera evocando una cultura patriottica, pregna di sciovinismo e carica di estremo disprezzo per gli aspetti materialistici della società industriale. Essa si pone come l’espressione di un «nuovo nazionalismo», che punta direttamente sull’elemento militare, ereditato dalle trincee, come su quello necessario per costruire un nuovo tipo umano.
Per Jünger la Repubblica di Weimar è il paradigma dello Stato nazionale di radice liberal-democratica in cui manca il rapporto con le forze elementari e basilari della nazione, uno Stato simbolo del decadimento della civiltà occidentale. A esso contrappone una nuova forma di Stato: il regime della «mobilitazione totale», trasferita dal dominio militare a quello civile. Il fattore rivoluzionario del secolo XX è rappresentato per Jünger dalla guerra totale, che va di pari passo con la mobilitazione tecnico-industriale. Il problema che egli si pone è quello di adeguare lo Stato e i cittadini ai doveri politici e spirituali cui la mobilitazione totale mette di fronte. La mobilitazione totale è il fenomeno che ha messo in crisi i capisaldi del liberalismo, destando un nuovo spirito di fronte al quale l’individualismo borghese e la tolleranza politica appaiono come valori inadatti all’epoca dei conflitti totali.
Per Jünger in quest’era «[…] non esiste più una vera differenza fra combattenti e non combattenti; in essa ogni città, ogni fabbrica è una fortificazione, ogni bastimento è una nave da guerra, ogni genere alimentare è merce di contrabbando, ogni misura attiva e passiva ha carattere militare» (68). Dalla mobilitazione totale è nato il nuovo clima totalitario in cui la vita torna a essere concepita come servizio, sacrificio, responsabilità e non come una partita d’affari o un luogo di rivendicazioni. Essa riconsegna al nazionalismo quell’anima di cui il liberalismo borghese l’aveva privato.
Jünger condivide con gli intellettuali della Rivoluzione conservatrice la retorica del nazionalismo, a cui dedicò numerosi articoli, specialmente tra il 1925 al 1930, all’interno dei quali si possono identificare quattro piloni su cui costruire lo Stato: la nazione, la casta militare, il governo forte e la società irreggimentata. Il «nuovo nazionalismo» che Jünger professa è un impegno intellettuale, antidemocratico e totalitario.
Da questa prospettiva Jünger avvicina bolscevismo e nazionalismo, visti come espressioni di una medesima volontà totalitaria che si stava facendo strada in Europa. Entrambi concorrono a distruggere il tipo d’uomo borghese e a sostituirlo con il protagonista della nuova epoca, il «soldato politico».
L’idea di guerra totale e permanente è l’unica capace di creare questo nuovo tipo umano per il quale la libertà non è più il fondamento per la costruzione di una vita incentrata su di sé, ma si esprime nell’adesione totale, incondizionata e interiorizzata alla comunità in cui è inserito.
Quest’ordine più grande in cui il singolo nasce e di cui deve apprendere e comprendere i valori, agli occhi di Jünger è la nazione. Questa scelta di una visione totalitaria del nazionalismo è causata in lui dall’osservazione che il socialismo di matrice materialista non ha nessun ideale proprio con cui rimpiazzare i valori borghesi, anzi li vuole estendere a tutto il proletariato.
Il mondo del socialismo ha anch’esso come principio supremo il benessere materiale per tutti, non solo per pochi, ma non ha una disciplina e una formazione spirituale. Per Jünger, è il nazionalismo, con il culto dei valori gerarchici e marziali, che può sviluppare quell’etica che ha il suo ideale nella figura del soldato politico, emersa dalla Grande Guerra e anche dalla Rivoluzione russa. In questa visione torna a essere concepita «quell’obbedienza che è un’arte dell’udire, e di quell’ordine che vuol dire esser pronti per la parola, esser pronti pel comando che come una folgorazione corre dalla cima fino alle radici» (69). È il segno di un’ideologia nazionalista e rivoluzionaria insieme, che cerca di unire in sé i residui valoriali appartenenti al vecchio mondo prerivoluzionario, con le conquiste statuali della modernità, rappresentate dal totalitarismo. La mobilitazione totale è, per Jünger, il principio della Rivoluzione, contemporaneamente nazionale e sociale, destinata a cambiare tutta la società europea. Il socialismo ne viene fatalmente assorbito, poiché, nel suo aspetto di pretesa individualistica e materialista, esso è colpito con la stessa società liberale e borghese, mentre con il suo volto militante e solidaristico trova nella comunità di vita nazionale la sua più completa realizzazione. La mobilitazione totale realizza il «socialismo senza socialisti».
Il riferimento a Jünger per illustrare il campo specifico della Rivoluzione conservatrice è dovuto alla vicinanza della sua posizione a quella dei suoi protagonisti, con i quali condivideva un profondo distacco dal mondo in cui si trovavano a vivere; una dissociazione di misura tale da assumere i caratteri rivoluzionari tipici del totalitarismo, anche se declinati in modo conservatore, con il fine di creare un nuovo Stato per un uomo nuovo e così porre fine alla crisi dell’uomo europeo.
Jünger, con la sua vita centenaria, ha percorso tutto il «secolo breve», il Novecento (70), e lo ha vissuto nella ricerca continua delle radici profonde dell’individuo. Questo cammino lo ha portato, due anni prima della morte, a convertirsi al cattolicesimo. L’«Anarca» — così si autodefiniva —, che per tutta la vita ha voluto volare sempre più in alto come l’aquila, alla fine ha incontrato il «Sole invitto» ed è uscito dal suo splendido isolamento per riconoscere nella Chiesa Cattolica l’ultimo baluardo della Tradizione in un mondo in dissoluzione. La Chiesa è la custode del Mistero che Jünger ha cercato e studiato per tutta la vita dietro la superficie degli eventi. Con questo gesto finale egli risolve l’ambiguità della Rivoluzione conservatrice, aderendo alla Tradizione cattolica che rappresenta le radici dell’anima cristiana dell’Europa e la sua linfa vitale, senza la quale nessuna Europa è possibile.
Menzionare la conversione di Jünger vuol dire raccontare il fallimento dell’idea della Rivoluzione conservatrice. Nata per liquidare la Rivoluzione tout court, è stata da questa liquidata. Dinanzi agli eventi inarrestabili dell’inizio del secolo XX, la Grande Guerra e al suo interno la Rivoluzione russa, che avevano abbattuto le ultime vestigia imperiali, retaggio di un antico modo di concepire la civiltà, per gli intellettuali della Rivoluzione conservatrice «[…] non era più possibile pensare come de Maistre di fronte alla rivoluzione francese, che bisognava fare il contrario della rivoluzione; l’unica cosa possibile invece appariva soltanto quella di fare una rivoluzione all’incontrario. Ma con ciò si veniva a sposare lo stesso principio di legittimazione storica del nemico» (71). Infatti, fare propri i princìpi e i metodi rivoluzionari, pur riempiendoli di contenuti «conservatori», voleva dire aderire a essi, farli entrare in un mondo fondamentalmente estraneo, con il risultato di distruggere questo mondo. Un così azzardato spostamento di prospettiva ha avuto come conseguenza che il soggettivismo umano, l’esaltazione dell’«io» individuale, frutto della Rivoluzione, è entrato nel campo conservatore e ne ha seccato le radici. Pensare che tramite un atto rivoluzionario si potesse ottenere il ristabilimento di un ordine sociale conservatore, il quale è prima di tutto il frutto di una conversione del cuore dei singoli e dei popoli ai princìpi immutabili dell’ordine naturale e cristiano, come nel caso di Ernst Jünger, è stato un fatale errore. Il nutrire l’idea di risolvere nel suo contrario l’autodeterminazione dell’«io» rivoluzionario si è risolto in un fallimento culturale. «La rivoluzione contro la rivoluzione era perciò fin da principio suscettibile, rispetto alle intenzioni perseguite di rovesciarsi in un esito non preventivato, per cui, invece di incontrare l’istanza conservatrice a cui la si voleva far servire, avrebbe imboccato una traiettoria impazzita» (72), che, da un lato non ha fermato la marcia della Rivoluzione e dall’altro ha prodotto fenomeni tendenzialmente totalitari come i fascismi.
La Rivoluzione conservatrice, quindi è un ossimoro che si è trasformato in un’ipoteca sul pensiero conservatore da cui è necessario liberarsi per poter tornare alla logica autentica del conservatorismo, al quale sono completamente estranee forme radicali di nichilismo. Tale logica affonda le sue radici nei princìpi naturali e cristiani, contro cui si erge la Rivoluzione.
Note:
1) La definizione è stata coniata dal poeta austriaco Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) in occasione di un’orazione tenuta all’Università di Monaco nel 1927 (cfr. Hugo von Hofmansthal, Gli scritti come spazio spirituale della nazione, trad. it., in Idem, La rivoluzione conservatrice europea, a cura di Jan Bednarich e Renato Cristin, Presentazione di Damir Barbaric, Marsilio, Venezia 2003).
2) Cfr. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania. 1918-1932. Una guida, trad. it., Akropolis-La Roccia di Erec, Firenze 1990.
3) Stefan Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, trad. it., Donzelli, Roma 1995, p. VIII.
4) Antonio Giuseppe Balistreri, La «rivoluzione conservatrice» tedesca come concetto e come campo di controversia storiografica, in Il Pensiero Politico. Rivista di storia delle idee politiche e sociali, anno XXVIII, n. 2 maggio-agosto 1995, pp. 210-236 (p. 211).
5) A. Mohler, op. cit., p. 36.
6) Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, trad. it., con Introduzione di Fabrizio Desideri, Newton Compton Editori, Roma 2010, pp. 193-194, n. 341.
7) Idem, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. it., prefazione di Carlo Sini, in Nietzsche, Mondadori, Milano 2008, pp. 35-244 (p. 242).
8) Ibid., p. 181.
9) Ibidem.
10) Martin Heidegger, Nietzsche, trad. it., Adelphi, Milano 1994, p. 249.
11) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit. p. 183.
12) A. Mohler, op. cit., p. 17.
13) Ibid., p. 18.
14) Cfr. Edgard Julius Jung, Deutsche über Deutschland. Die Stimme des unbekannten Politikers, Langen, Monaco di Baviera 1932.
15) A. G. Balistreri, art. cit., p. 227.
16) Nella notte fra il 30 giugno e il 1° luglio 1934 le SS e la Gestapo assassinarono per ordine di Adolf Hitler (1889-1945) un centinaio di esponenti di spicco del partito nazionalsocialista a lui avversi — in particolare Ernst Röhm (1887-1934), guida delle SA, le «squadre d’assalto» del partito —, riuniti nella cittadina lacustre di Bad Wiessee, in Baviera, nonché membri della Reichswehr e altri oppositori.
17) F. Nietzsche, Dedica a Richard Wagner, in Idem. La nascita della tragedia, trad. it., Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna (RN) 2010, p. 17.
18) E. Jünger, Rivarol. Massime di un conservatore, cit., p. 56.
19) Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, con presentazione e cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), Sugarco, Milano 2009, p. 71.
20) Salvatore Calasso, Destra e Sinistra: una diversità genetica, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, anno I, n. 1, Roma settembre-ottobre 2009, pp. 21-35 (p. 23).
21) Ernst Jünger, Trattato del ribelle, trad. it., Adelphi, Milano 1990, p. 114.
22) Romano Guardini, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, trad. it., Morcelliana, Brescia 2022, p. 55.
23)Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it., Einaudi, Torino 1967, p. 176.
24) Gonzague de Reynold, Conscience de la Suisse. Billets a ces Monsieurs de Berne, 5ª ed., edizione definitiva, Éditions de La Baconnière, Neuchâtel (Confederazione Elvetica) 1941, pp. 85-126; trad. it. del brano ne Il federalismo e la sua filosofia, in Cristianità, anno XXIV, n. 256-257, agosto-settembre 1996, pp. 7-16 (p. 16).
25) Aristotele, La politica, trad. it., a cura di Carlo Augusto Viano (1929-2019), Armando Curcio Editore, Roma 1993, pp. 5-6.
26) S. Calasso, art. cit., pp. 24-25.
27) R. Guardini, op. cit., p. 57.
28) Oscar Sanguinetti, Chi è conservatore?, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, anno VIII, nuova serie, n. 11, 9 marzo 2016, pp. 4-10 (p. 5).
29) Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, pp. 24-25.
30) R. Guardini, op. cit., p. 56.
31) Ibid., p. 57.
32) Jean Imbert, La tourmente révolutionnaire 1789-1795, in Idem (diretta da), Histoire des hôpitaux en France, Privat, Tolosa 1982, pp. 271-289 (p. 276).
33) N. Bobbio, op. cit., p. 28.
34) R. Guardini, op. cit., p. 58 e pp. 59-60.
35) Ibid., p. 60.
36) Franco Piperno, Elogio dello spirito pubblico meridionale, manifestolibri, Roma 1977, p. 107.
37) Ibidem.
38) R. Guardini, op. cit., p. 60.
39) A. G. Balistreri, art. cit., p. 232.
40) Ibid., p. 215.
41) Lucien Goldmann, Un grand polemiste: Karl Kraus, in Idem, Recherches dialectiques, Gallimard, Paris 1959, p. 229-238.
42) O. Sanguinetti, art. cit., p. 6.
43) A. G. Balistreri, art. cit., p. 232.
44) Ibidem.
45) Ibidem.
46) Mircea Eliade, Mito e realtà, prefazione di G. Cantoni, Borla, Torino 1966, p. 58.
47) E. Jünger, Trattato del ribelle, cit., p. 129.
48) Idem, Rivarol Massime di un conservatore, trad. it., Guanda Parma 1992, p. 53.
49) Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2006.
50) E. Jünger, Visita a Godenholm, trad. it., Adelphi, Milano 2008, p. 35.
51) M. Heidegger, Lettera sull’ «umanismo», Adelphi, Milano 2013, p. 33.
52) Ibid., p. 71, nota a).
53) Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it., Einaudi, Torino 2013, p. 159.
54) Ibid., pp. 168-169.
55) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., p. 139.
56) S. Calasso, Lo scacco della modernità, prefazione di Hervé Antonio Cavallera, introduzione di Fernando Fiorentino, Edizioni Non Tacere, Copertino (Lecce) 1996, p. 50.
57) Massimo Introvigne, Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane, Sugarco Edizioni, Milano 2008, p. 55.
58) Ibid., p. 56.
59) Francesco Rossolillo, voce Nazione, in N. Bobbio, Nicola Matteucci (1926-2006), Gianfranco Pasquino, Dizionario di politica, 3 voll., Gruppo Editoriale L’Espresso, Bergamo 2006, vol. II Fil-Pau, pp. 569-577 (p. 570).
60) M. Introvigne, op. cit., p. 56.
61) O. Sanguinetti, Fascismo e Rivoluzione. Appunti per una lettura conservatrice, invito alla lettura di Marco Invernizzi, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2022, p. 34.
62) Detlev Julio K. Peukert, La Repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 18.
63) A. G. Balistreri, art. cit., p. 226. Questa idea di Jung era già presente nei teorici della Kriegsideologie al tempo della Grande Guerra, dove la Germania era vista non come una potenza tra le altre, ma come portatrice di un nuovo ordine, differente rispetto a quello espresso dalle potenze dell’Intesa.
64) Ibid., p. 228. In realtà la forma statuale della Germania, anche dopo l’esilio del Kaiser, rimase quella del 1871: il titolo della carta era infatti «Die Verfassung des Deutschen Reichs», sebbene l’articolo 1 dichiarasse: «Il Reich tedesco è una repubblica. Il potere statale emana dal popolo».
65) Hermann Rauschning, Die konservative Revolution, Freedom Publishing Company, New York 1941, p. 64.
66) Karl Mannheim, Ideologia e utopia, trad. it., introduzione di Alberto Izzo (1933-2014), il Mulino, Bologna 1957, p. 153.
67) H. von Hofmansthal, Gli scritti come spazio spirituale della nazione, cit., p. 72.
68) Citato da Julius Evola (pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola; 1898-1974), L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, 3ª ed. corretta, con una Lettera e un’Appendice, Saggio introduttivo di Marino Freschi, bibliografia a cura di Francesco Fiorentino, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 77.
69) Ibid., p. 42.
70) Cfr. Eric John Ernest Hobsbawm (1917-2012), Il secolo breve, trad. it., Rizzoli, Milano 2000.
71) A. G. Balistreri, art. cit., p. 233.
72) Ibidem.