Da La bianca Torre di Ecthelion del 12/12/2017. Foto da articolo
Potrebbe essere l’inizio della fine. Dopo avere trionfato nelle primarie del Partito Repubblicano, martedì 12 dicembre l’ex giudice Roy S. Moore, in corsa al Senato federale in rappresentanza dell’Alabama per succedere a Robert J. Bentley, subentrato pro tempore a Jeff Sessions che il presidente Donald J. Trump ha nominato ministro della Giustizia, è stato sconfitto dal Democratico Gordon Douglas Jones.
Le accuse di molestie sessuali rivolte a Moore nelle scorse settimane potrebbero pur essere vere (lo stabilirà la magistratura), ma nulla può negare che siano arrivate con un tempismo perfetto e una partigianeria politica smaccata. La cosa più grave, però, è ciò che questa sconfitta rivela: per la prima volta in un quarto di secolo il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano) perde nel profondo Sud arciconservatore pur avendo schierato un candidato ultraconservatore a tutto vantaggio di un radicale superabortista orbitante attorno a George Soros. È scomparso l’elettorato conservatore? No, è rimasto a casa disorientato. Per questo il “caso Moore” potrebbe essere l’inizio della fine.
Potrebbe esserlo per i Repubblicani nel Senato di Washington, visto che la sconfitta in Alabama ne assottiglia ulteriormente il margine già esiguo: 51 seggi (erano 52) contro 47 Democratici più due indipendenti che però votano sempre come i Democratici. Visto che più di una volta qualche voto Repubblicano è uscito dai ranghi, prevedere una serie d’importanti sconfitte ai punti in aula non è affatto fantascienza.
Potrebbe esserlo per il GOP in tutto il Congresso: il 6 novembre 2018 le elezioni “di medio termine” rinnoveranno un terzo del Senato ma per intero la Camera federale. Già le elezioni “di medio termine” di solito sfavoriscono il partito che esprime il presidente in carica, a torto o a ragione sempre ritenuto responsabile di ciò che (ancora) non va, scordando facilmente ciò che invece (finalmente) va. Prospettiamoci cosa potrebbe accadere ora che l’elettorato conservatore dimostra di essere in libera uscita.
Potrebbe esserlo per Trump, che, nato rottamatore del GOP, con il GOP è poi dovuto scendere a patti. Se in novembre il GOP sbanderà, Trump rischierà di deragliare.
Potrebbe infine esserlo per il fragile mosaico che da due anni configura il mondo conservatore, e questa è la cosa più grave. Negli ultimi due anni il mondo conservatore ha rabberciato un’alleanza di necessità tra varie componenti. Sopra questa fragilissima lastra di ghiaccio hanno pattinato senza troppo urtarsi le correnti, le sensibilità e i protagonisti approfittando del fatto che la pista è apparsa sufficientemente grande per tutti. Litigare da lontano, infatti, attutisce le grida. Ma se i ghiacci cominciassero a ritirarsi, si moltiplicherebbero le sovrapposizioni, le sportellate e le cadute.
Nell’antroposfera attuale della Destra americana c’è un conservatorismo movimentista riconducibile a quelli che furono i “Tea Party” a cui si deve la “colonizzazione” finale del GOP e dunque la sua trasformazione in un partito oggi sostanzialmente conservatore. Del movimento c’è poi una seconda anima che il GOP lo detesta comunque, anche ora che è diventato sostanzialmente conservatore: è il mondo che viene definito (con troppa faciloneria) “populista” e che negli Stati Uniti esiste da ben prima di Trump. C’è quindi un conservatorismo mainstream che vigila sia sui “populisti” sia sul GOP (anche se di solito lo vota). E c’è appunto proprio il GOP, il quale deve fare ancora tutti i conti con cosa voglia dire essere diventati conservatori e per di più esserlo come esito di una stratificazione di sensibilità conservatrici diverse.
Sfidata dalla candidatura Trump, nel corso del 2016 quest’antroposfera varia e a volte eventuale se le è suonate di santa ragione, ha contatto morti e feriti, e alla fine è stata costretta alla sintesi attorno a un Trump prima incoronato dalle primarie, poi eletto presidente per il rotto della cuffia. Ma i sorrisi a denti stretti nelle foto di gruppo non hanno mai eliminato differenze e dissidi. Li hanno semplicemente procrastinati. Il “caso Moore” li riporta sul tavolo con veemenza.
A differenza di altri mondi politici e di altri Paesi, il mosaico del conservatorismo americano non ha però il problema di dover trovare la ragione del proprio stare insieme. Quella c’è, da tempo: è la cultura dei princìpi non negoziabili. Il problema del conservatorismo è piuttosto la rappresentazione pubblica di quella cultura.
Moore è l’uomo politico che sostiene i princìpi non negoziabili più spavaldamente di chiunque altro, tanto da diventare estremista. Da violare la legge nel farlo, da diventare la caricatura strampalata del conservatore con cui i suoi avversari vanno a nozze. Molti conservatori lo adorano non per le intemperanze (che forse nemmeno conoscono), ma per quello che in lui identificano come coraggio, una grande virtù politica. Difficile dar loro torto. Ai Moore si contrappongo però altri uomini politici Repubblicani troppo attenti all’etichetta, troppo formali. Molti conservatori li preferiscono non per i tatticismi (di cui forse nemmeno si avvedono), ma per quella che in loro identificano come prudenza, un’altra grande virtù politica. Difficile dar loro torto. Sono però due errori contrapposti: l’imposizione del bene contro un bene proposto con troppa delicatezza. Il risultato è che l’elettorato conservatore, frastornato più dagli aspetti positivi di entrambi gli approcci che dai risvolti negativi, si astiene. Morale, vince chi è mille volte peggio di entrambi gli errori conservatori messi assieme, ovvero l’esatto contrario di ciò che il mosaico pur fragilissimo delle Destre statunitensi è riuscito a fare l’8 novembre 2016 sbaragliando il mondo che invece martedì ha vinto in Alabama. Non è la prima volta che, raggiunta la vetta, inizia il declino. È già successo negli Stati Uniti, e non è successo solo lì. Ed è sempre un notizia pessima.
Marco Respinti