Cronaca di uno dei più efferati crimini contro l’umanità del Novecento, ma anche di quel raggio di speranza che, nella carneficina, sono le apparizioni di Kibeho
di Enrico Chiesura
Dal 7 aprile al 15 luglio del 1994 si è consumato uno dei più sanguinosi genocidi del XX secolo, non solo riferito al numero di vittime, stimato tra ottocentomila ed un milione di persone, ma anche allo spazio di tempo veramente ridotto in cui si è compiuto questo dramma: circa cento giorni. A rendere il fatto ancora più raccapricciante, la circostanza che il massacro non sia stato attuato massivamente, ma singolarmente, a colpi d’arma da fuoco, machete e bastoni chiodati, con la tecnica dell’“uno per uno”. Vittime della cieca violenza, in prevalenza, furono gli appartenenti all’etnia Tutsi (noti anche come Vatussi) ma poi anche quegli Hutu (l’etnìa maggioritaria) che non si riconoscevano nel F.P.R. (Fronte Popolare Ruandese), il regista del massacro. L’inizio della mattanza è da ricollegarsi all’attentato avvenuto il 6 aprile 1994, quando l’aereo che trasportava il presidente Juvénal Habyarimana (1937-1994) insieme al suo omologo del Burundi Cyprien Ntaryamira (1955-1994) e stava per atterrare nella capitale Kigali venne abbattuto da un missile terra-aria. Con effetto immediato si scatenava la caccia al Tutsi, capillarmente instillata dall’emittente radiofonica RTLM (Radio Televisione Libera Mille Colline), espressione della componente Hutu più estremista, facente capo all’entourage del defunto presidente e significativamente ribattezzata Radio Machete. Ad essa fecero cassa da risonanza numerosi esponenti della cultura, dello spettacolo e della comunicazione, fornendo il supporto mediatico necessario per propagare l’odio, insieme alla caccia all’uomo, come un incendio. La storia successiva è cronaca dell’orrore su cui è inutile soffermarsi, se non per denunciare l’imbarazzante inerzia delle istituzioni internazionali. Solo l’affermarsi definitivo del F.P.R. a luglio, con la presa della capitale Kigali, ha consentito, dopo poco più di tre mesi dal suo inizio, di arrestare il bagno di sangue.
Se questa è la cronaca dei fatti, portata sul grande schermo nel 2004 dal film Hotel Rwanda, in occasione del trentesimo anniversario della tragedia si impone la domanda: com’è possibile che questo sia avvenuto? L’enormità di quanto accaduto, infatti, non consente di archiviare semplicemente la strage come drammatico epilogo di un conflitto interetnico, frutto di un odio maturato tra la minoranza Tutsi e la maggioranza Hutu. Un odio ancora più incomprensibile se si considera che oltre il 90% della popolazione è cristiana e quasi la metà cattolica. Neppure l’ipotesi di una follia collettiva, che sarebbe stata ispirata e gonfiata ad arte da una serie di “oscuri burattinai” e “cattivi maestri”, può spiegare l’esplosione di una ferocia così incontrollata. Oltretutto non si è trattato di un episodio isolato. Già nel 1972 si era consumata la strage di circa duecentomila persone, questa volta Hutu, a sua volta era stata preceduta da quella di circa centomila Tutsi undici anni prima, in occasione della proclamazione d’indipendenza dello Stato africano. Siamo quindi di fronte ad un conflitto endemico, esploso ogni due per tre nell’arco di un trentennio, le cui radici affondano nel tempo e scontano perlomeno due peccati d’origine: il solco creato ad arte tra le due principali etnìe ruandesi dai colonizzatori belgi, sulla base del motto divide et impera; il fatto che la nascita degli attuali Stati sovrani africani non ha alcuna corrispondenza con la rispettiva identità etnica, culturale, religiosa e linguistica delle rispettive popolazioni, ma rispecchia solo il tracciato della spartizione coloniale del continente da parte degli Stati europei.
In questo contesto si colloca l’unico vero, autentico segno di speranza per questo martoriato Paese, cioè quanto accaduto nel villaggio di Kibeho, nel Ruanda meridionale, tra il 28 novembre 1981 e lo stesso giorno del 1989. Si tratta delle prime apparizioni mariane riconosciute dalla Chiesa nel continente africano, nelle quali la Madonna, apparendo ad alcune studentesse di un locale collegio gestito da religiose, aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto, se non fosse stato accolto il suo reiterato invito alla conversione, alla preghiera ed alla penitenza, gli unici strumenti che permettono di arginare efficacemente la propagazione del male. L’appello rimase inascoltato e la tragedia si compì puntualmente a cinque anni di distanza. Se in questo non si possono cogliere elementi di speranza, questi li si possono invece scorgere in quello che è accaduto dopo. I frutti spirituali, infatti, si sono fatti vedere solo dopo la tragedia, nel momento in cui c’è stata una presa di coscienza di ciò che è avvenuto e dell’attenzione che si sarebbe dovuta riservare alle ammonizioni della Vergine. Questa presa di coscienza ha consentito l’attuarsi di qualcosa di umanamente insperabile: l’avvio di un percorso di reale riconciliazione; una fede risanata e vivificata nelle comunità cristiane; un processo di risveglio spirituale che oggi ha in Nostra Signora di Kibeho e nel santuario a Lei dedicato il punto di riferimento non solo per i ruandesi, ma per l’intero continente africano.
Martedì, 9 luglio 2024