Da La bianca Torre di Ecthelion del 19/10/2018. Foto da articolo
Cento anni fa, il 19 ottobre 1918, nasceva a Plymouth, un sobborgo di Detroit, in Michigan, Russell Kirk, il padre della rinascita conservatrice statunitense nella seconda metà del Novecento.
La Plymouth americana è un calco della Plymouth inglese e nel suo nome riecheggia la storia delle origini stesse degli Stati Uniti d’America; o, meglio, della componente anglosassone delle origini del Paese, che certamente non è l’unica componente, come – anche solo a voler suggerire qualche nome emblematico – hanno sottolineato storici di vaglia quali l’italiano Raimondo Luraghi (1921-2012), il francese Bernard Lugan e lo spagnolo David Arias Pérez, agostiniano recolletto, già vescovo ausiliare di Newark, nel New Jersey, ora a riposo. Curioso, o, meglio, simbolico, visto che gran parte dell’opera di Kirk si è occupata di riscoprire le origini autentiche degli Stati Uniti, interrogandosi profondamente su di esse e in questo stabilendo un magistero culturale unico.
Eppure la Plymouth di Kirk è solo un luogo dignitosamente modesto, anche se affatto dimesso. La sua casa natale negli anni è diventata un negozio (di fiori e piante quello che visitai io anni fa), ma anche così ha sempre rispecchiato quella che è stata l’infanzia e l’adolescenza del suo illustre ex inquilino. Sobria, se non a tratti spartana; essenziale, più che asciutta; morigerata senza mai essere bacchettona. Infanzia e adolescenza, certo, ma così anche maturità e vecchiaia. Kirk è stato un gigante del pensiero proprio per questo. Non è mai stato attratto dalle cronache e dalle luci della ribalta anche se ha avuto occasione di spingersi sino ai piani alti della politica del suo Paese, consigliere di Barry M. Goldwater (1909-1998), Richard M. Nixon (1913-1994), Gerald Ford (1916-2003) e Ronald Reagan (1911-2004). Per molti aspetti ha infatti vissuto la vita del recluso, fra gli alberi che personalmente piantava attorno alla casa avita in un paesino sperduto del Michigan centrale, Mecosta (finché la casa non è bruciata e quindi lui l’ha ricostruita in uno stile “italianesco” che però per certi versi ricorda il fantasy), e le centinaia di libri cui aveva trovato posto nella vecchia fabbrica di giocattoli in legno che aveva ereditato dai nonni e che ha ricondizionato.
In questo modo si è goduto un privilegio, oggi sempre più raro. Quello di poter osservare con distacco il mondo e la sua umanità varia, talora avariata. Distacco che però non è mai stato estraniazione. Più che altro ha avuto a che fare con la contemplazione. Campione del conservatorismo Kirk lo è diventato così.
Una frase esprime bene il fulcro del suo conservatorismo. «The unbought grace of life». È del suo maestro, il pensatore e uomo politico irlandese Edmund Burke (1729-1797), di cui è diventato uno degli interpreti migliori, in Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, del 1790. Tradurre bene in italiano quella frase è davvero arduo. Qualcosa che si avvicina potrebbe essere “la naturale grazia del vivere”, ma l’unbought inglese si porta dentro un cuore unico: la gratuità. L’immagine, più che il concetto, che quella frase burkeana-kirkiana propone è quella della vita vissuta come occasione storica per sperimentare una grazia imprevista e sovrabbondante capace di ricolmare tutto e di dare senso alle cose o se non altro di suggerirne la possibilità, nella certezza che, pur con i limiti dell’umano comprendere, il senso esiste, eccome. L’esistenza, insomma, come possibilità non richiesta e quindi “miracolosa”, addirittura come chance. Chance, ovviamente, di prenderla seriamente, la vita, tra le mani e farne qualcosa di grande, pur se piccola. Tutti gli sproloqui accademici e parrucconi sul necessario coniungo fra libertà e responsabilità non riescono nemmeno a scalfire la superficie di quel che significa trovarsi inondati dalla grazia gratuita di una vita che non ci siamo scelti e che però indossiamo come un’armatura, a volte smoccolando, ma almeno una volta dicendo, fieri, lucidi, con lo sguardo retto «adsum».
Il conservatorismo di Kirk è stato questo. Non una filosofia, non un pensiero, men che meno un sistema (ideologico), bensì un atteggiamento verso la vita, un’attitudine, un modo di essere, un sì detto di continuo. La sua opera maggiore, The Conservative Mind, pubblicata in prima edizione nel 1953 e da allora un classico di riferimento per tutti i conservatori, compresi quelli che non l’hanno letta ma che non se la sentono di confessarlo e quindi in qualche modo vi fanno riferimento, lo dice acuminato e icastico proprio con il titolo. La sua traduzione non è “il pensiero conservatore”. Per tradurre bene quel mind inglese occorre infatti il latino: “la forma mentis conservatrice”, dove la forma è l’immagine che la sostanza ha e dove si concentrano, sovrapponendosi a strati e penetrando per cerchi concentrici, la mente, il cuore, l’anima.
Anche se in parte ovviamente lo ha fatto, nella trentina di libri che ha lasciato ai posteri al fianco di centinaia e centinaia di articoli e saggi, Kirk non ha cioè proposto solo un una sequenza di idee e di personaggi. Ha offerto piuttosto un ethos. L’idea kirkiana di fondo è chiara, anche se Kirk non l’ha mai messa nero su bianco in una qualche formula. Quello che chiamiamo, per assenza di definizione più piena, “essere conservatori” non è uno sforzo fuori di sé, non è l’adesione, ideologica o formalistica o volontaristica, a una seconda natura che ci è un po’ estranea, ma è l’abbracciare quel che si deve e quindi si può essere per come si è e si è stati fatti, appunto per grazia gratuita. In radice l’idea è ancora una volta burkeana; e non a caso Burke è il padre di quello che oggi s’intende, da due secoli, per “conservatorismo”. Ci sarà una ragione per cui oggi pochi capiscono Burke e il conservatorismo.
Essere conservatori significa allora imparare prima a rispettare e poi a (ri)conoscere la natura umana del proprio “io” per saperla quindi anche difendere, garantire, sviluppare. La politicizzazione del conservatorismo, che è una cosa nobile nonostante le scene cui la politica ci abitua, è il prendere sul serio questo incipit, facendo quel che gli antichi Greci della metafisica ricordavano dicendo che la polis altro non è se non l’anthropos scritto in grande.
Nel conservatorismo di oggi Kirk manca, i Kirk mancano. Forse Kirk non riconoscerebbe come conservatori alcuni che il mondo percepisce come tali, o che si pensano e presentano come tali. Magari lo sono sul serio, nonostante quel che Kirk ne direbbe, eppure finché non riscopriranno l’unbought grace of life saranno sempre zoppi pur con tutte le cose belle che possano dire o fare. Le elezioni si vincono e si perdono, il potere va e viene, i nemici si sconfiggono o si subiscono, ma quel che conta perché resta è l’anima. Se una cosa Kirk ha insegnato è questa: a che serva guadagnare anche tutto il mondo se poi si perde la propria anima? Essere conservatori vuol dire non smarrire mai l’anima, anzi riguadagnarla a ogni istante dandoci l’anima.
Kirk è diventato cattolico nel 1964, grazie soprattutto alla donna fantastica che ha sposato, cradle-catholic, Annette. Però per molti versi era cattolico in pectore pure prima. Pensava da cattolico, scriveva da cattolico, era affascinato dal cattolicesimo. Non lo si dice qui per cercare di “sistemare le cose”, ma perché Kirk non si sarebbe mai convertito se il suo animo non fosse stato predisposto a quella pienezza della verità che un giorno, per unbought grace of life, non lo ha investito. Come a dire che per essere sul serio conservatori tutti di un pezzo bisogna diventare cattolici. Nel 1964 Kirk iniziò a essere cattolico, e ha continuato a provarci fino al giorno in cui è nato al cielo, il 29 aprile 1994, malato, stanco e provato a Mecosta, rivolgendo l’ultimo proprio pensiero a Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005). La seconda cifra della sua straordinaria avventura umana è stata la bellezza, ricercata, coltivata, inseguita, spesso trovata. Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te, Signore, diceva sant’Agostino (354-430), e quella meta, ha avuto modo di sperimentare Kirk, è una sublimità che mette i brividi abbracciandoci prima proprio come pulchrum che come pensiero razionale. Non fosse che per questo, Kirk è di un’attualità sorprendente. Sia questo lo spunto per un altro round. Russell Kirk oggi compirebbe 100 anni, ma non è mai morto. Ad multos annos.
Marco Respinti