di Stefano Chiappalone
C’era una volta. Oppure: once upon a time… Era questa la “formula magica” con cui generazioni di bambini finalmente dimenticavano i capricci serali e si disponevano, buoni buoni, sotto le coperte ad ascoltare la mamma o il papà che leggevano la fiaba tanto implorata. Non so se il dilagare di smartphone e tablet in mani sempre più piccole abbia sostituito del tutto questa usanza, ma di certo non potrà spegnere quei desideri umani primordiali che albergano nel cuore dei bambini… e degli adulti. Lo scrittore e filologo inglese John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), in un saggio intitolato appunto Sulle Fiabe (in Idem, Albero e Foglia, trad. it., Rusconi, Milano 1998, pp 11-106), spiega che «[…] in effetti, la connessione istituita tra bambini e fiabe non è che un accidente della nostra storia» (p. 50). Lo stesso Tolkien confessa un gusto per le fiabe sviluppatosi in età adulta, più che infantile.
Una certa leziosità negli “adattamenti”, riducendo la fiaba al solo elemento grazioso e piccino, confondendo l’innocenza con l’acriticità, ha finito per relegare questo patrimonio letterario sotto una campana di vetro che conterrebbe soltanto primule e fatine. E se queste ultime hanno poco a che fare con la vera accezione del termine “fatato” (fairy), che va inteso nel senso più “elfico” possibile, non si può comunque tradurre l’espressione fairy-tale con “storia di fate” (o di elfi). «È un reame che contiene molte altre cose accanto a elfi e fate, oltre a gnomi, streghe, trolls, giganti e draghi: racchiude i mari, il sole, la luna, il cielo e la terra e tutte le cose che sono in essa, alberi e uccelli, acque e sassi, pane e vino, e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo» (p. 21). Questo incantesimo richiede senza dubbio di tornare bambini, ma nel senso dell’innocenza, non in quello di una pretesa credulità che del resto mal si attanaglia all’infanzia, età costellata semmai da una sete di conoscenza che porta a chiedere ripetutamente, talora fino allo sfinimento del genitore: «Perché?» oppure: «È vero?».
La meraviglia suscitata dagli abitanti del mondo secondario delle fiabe – il mondo «subcreato», per riprendere il linguaggio tolkieniano – di riflesso ci conduce a spalancare lo sguardo sul mondo primario in cui viviamo, distinguendo in esso ciò che realmente è durevole da ciò che è transitorio, abbattendo i nostri castelli di carta che ci fanno considerare reale e stabile ciò che invece è semplicemente quotidiano e fugace. Difficilmente la fiaba parlerà del lampione («I lampioni possono essere esclusi dal racconto, per la semplice ragione che sono brutte lampade; ed è possibile che una delle lezioni che si ricavano dalla vicenda, sia la presa di coscienza di questa realtà», p. 83), con la lodevole eccezione del lampione di Narnia descritto dal “fraterno rivale” di Tolkien, lo scrittore anglo-irlandese Clive Staples Lewis (1898-1963). Più facilmente parlerà del lampo, o del fuoco, della pietra, dell’eroismo, della gioia e del dolore. «In Feeria si può concepire un orco proprietario di un castello da incubo (perché tale lo esige la cattiveria dell’orco), non però un edificio costruito a buon fine – una locanda, un ostello, il palazzo di un virtuoso e nobile re – che sia di repellente bruttezza» (pp. 87-88). Che sia pertanto popolata da elfi e uomini, draghi e streghe, fanciulle incantevoli che dimorano in splendidi castelli o mostri terrificanti rinchiusi in fetidi antri, ogni fiaba è evangelium, annuncio di un mondo fondamentalmente buono in cui il male è sempre in agguato, ma non giunge mai a trionfare sul vero, il bene e il bello.
Leggere fiabe sarebbe dunque pura evasione? Di fatto lo è, nel senso più nobile: non evasione dalla realtà, bensì dall’effimero.
Sabato, 28 aprile 2018