di Michele Brambilla
Il Concilio di Trento (1545-63), che rispose all’eresia protestante, ribadì il numero e la teologia dei sacramenti della Chiesa. La teologia sacramentaria aveva già ricevuto un forte impulso ai tempi della scolastica, nel secolo XIII, che aveva ispirato ai pittori le prime raffigurazioni sinottiche (cioè sulla medesima tavola) dei riti sacramentali. Il desiderio di veder rappresentati i sette sacramenti in un ciclo unitario si diffuse poi con maggiore ampiezza proprio in seguito all’assise tridentina e all’espandersi della catechesi parrocchiale, gestita come una vera e propria “scuola” in base ai criteri fissati per decreto da san Carlo Borromeo (1538-84) nell’arcidiocesi di Milano.
Il ciclo più famoso dedicato al Settenario sacramentale in epoca controriformista è quello dipinto nel 1636 dal pittore francese Nicholas Poussin (1594-1665). L’artista volle ritrarre i sacramenti nel momento in cui vengono istituiti, oppure immaginare come potessero essere vissuti nelle prime comunità cristiane. Poiché la vita terrena di Gesù e la predicazione apostolica si erano svolte agli inizi dell’impero romano, Poussin riempì le proprie tele di riferimenti quasi ossessivi alla classicità, ma, al di là dell’ostentazione di pepli, toghe e colonne corinzie, nelle sue produzioni si avverte molta grandeur e poca teologia.
Nel 1712 Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), nato a Bologna ma influenzato dagli ambienti pittorici lombardi, scelse la via opposta a quella del collega francese. Volle infatti illustrare la ricezione dei sacramenti nell’umiltà di una semplice parrocchia di campagna. La distanza siderale, sia stilistica sia teologica, tra i due cicli si tocca nel Matrimonio. Mentre Poussin, poco esperto di Sacra Scrittura, aveva rappresentato il matrimonio tra la Madonna e san Giuseppe in maniera molto fantasiosa, Crespi mette lo spettatore davanti a due poveri sposi lombardi (la donna indossa abiti neri, probabilmente si tratta delle seconde nozze di una vedova) che pronunciano le promesse inginocchiati di fronte a un giovane parroco.
Il sacerdote con una mano sorregge il Benedizionale Romano, con l’altra traccia un segno di benedizione sugli sposi novelli. Lo sfondo è volutamente monocromo, anticipando una caratteristica tipica dei ritratti di Francesco Hayez (1791-1882). Il pesante inginocchiatoio e gli abiti liturgici del sacerdote fanno intuire l’ambiente chiesastico, ma la luce, caravaggesca, si concentra sui volti, che esprimono con intensità composta la gioia interiore di quel momento. Dietro il prete si intravedono i due testimoni, uno dei quali invita l’altro al silenzio ponendo l’indice sulle labbra, “sst!”.
È una liturgia reale posta in un contesto concreto, nel quale si intravedono pure le imperfezioni umane degli astanti, ma in cui si tocca con mano anche la forza rigenerante della Grazia.
Sabato, 6 luglio 2019