La ricerca del divino non è solo un fatto interiore, manifestandosi anche in determinati luoghi e spazi che continuano ad attrarre persino nell’epoca del livellamento e dei “non luoghi”.
di Stefano Chiappalone
Da sempre l’uomo ha identificato specifici luoghi quale dimora della divinità o li ha considerati particolarmente propizi all’incontro con il divino. Senza scomodare gli dei dell’Olimpo o le mitiche origini di Roma sul colle Palatino, torno con la memoria in Abruzzo, alla natia Marsica, in provincia de L’Aquila – una memoria che mi trascende, facendo riferimento a eventi remoti, per non dire ancestrali – in particolare a un bosco e a un monte. Nel toponimo di Luco de’ Marsi sopravvive il ricordo di quel «bosco sacro» (lucus, appunto) in cui gli antichi abitatori della zona prestavano culto alla dea Angizia: Lucus Angitiae. Sul monte Salviano, invece, nei dintorni di Avezzano, si coltiva tuttora la devozione alla Madonna di Pietraquaria, di cui la tradizione orale tramanda da secoli l’apparizione a un pastorello sordomuto. Sono due tra i tanti esempi di “boschi sacri” e “sacri monti” che testimoniano l’intreccio tra lo spazio naturale e la dimensione cultuale.
L’uomo ha un corpo fisico, ha dei sensi, pertanto la sua ricerca non può rimanere chiusa interiormente, ma cerca le tracce del divino anche nell’ambiente fisico in cui gli è dato di vivere. Una volta trovate se ne “appropria”, le sigilla con l’edificazione di un recinto, di un altare, di qualcosa che identifichi e consacri quella porzione, separandola dal profano, perché ormai divenuta santuario – «separare» è appunto l’etimologia del latino sanctus come del greco άγιος [aghios]. Archetipo di ogni spazio sacro è quell’area del Medio Oriente non a caso universalmente definita Terra Santa, che culmina nel Monte per eccellenza, il Calvario. Dal modello gerosolimitano sono poi stati edificati innumerevoli sacri monti (Varallo, in provincia di Vercelli, Varese o quello fiorentino di San Vivaldo a Montaione, per non citare che i più noti) che nel corso dei secoli hanno permesso ai pellegrini di “visitare” idealmente – ma non virtualmente! – i Luoghi Santi.
Lo spazio non è indifferente neanche all’interno dello stesso santuario, ulteriormente articolato – e orientato – in funzione di una presenza che rende un’area specifica ancora più santa dell’ambiente circostante. Nei templi antichi, pur senza generalizzare, era fondamentale la suddivisione tra il pronao e la cella, dimora della divinità. Nel tempio di Gerusalemme soltanto il sommo sacerdote del culto ebraico – e solo una volta l’anno – poteva accedere al Santo dei Santi, che custodiva l’arca dell’alleanza. Il cuore delle chiese cattoliche è l’abside, circondato (o almeno lo sarebbe) dalla balaustra, insieme recinto e soglia che separa e conduce al luogo del Sacrificio e della Presenza Reale di Cristo. Lo stesso altare, di per sé, sopraelevato di alcuni gradini, costituisce un piccolo “sacro monte”, implicando un movimento ascensionale plasticamente sottolineato dai riti iniziali della Messa in rito antico, quando il sacerdote, ancora ai piedi dell’altare, pronuncia la celebre antifona del Salmo 43[42]: «Introibo ad altare Dei», «Verrò all’altare di Dio» («Salirò», secondo alcune traduzioni non ufficiali). Un’ascesa destinata a compiersi, secondo l’anelito espresso dai versetti successivi, «in montem sanctum tuum et in tabernacula tua», «alla tua santa montagna, alla tua dimora».
Sembrano simbologie superate per l’uomo contemporaneo che ha fagocitato lo spazio senza essere più in grado di leggerlo e riscoprirne il senso. L’appiattimento urbanistico spesso ci priva della stessa vista di montagne cui volgere lo sguardo, oscurata dal caotico moltiplicarsi di efficienti e asettici “non luoghi”, e molti edifici di culto moderni, ridefiniti “aule liturgiche”, finiscono piuttosto per somigliare a degli open space del sacro, ben più che a sacri monti. Eppure, questi ultimi continuano – restrizioni permettendo – ad attrarre gente che, più o meno consapevolmente, «respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre»1.
[1 Cfr. Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), In margine a un testo implicito, trad. it., a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 138: «Respiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre».]
Sabato, 13 marzo 2021