di Michele Canali
Era il 1945 quando il Giappone fu vittima del più terribile attacco militare della storia. Su Hiroshima e Nagasaki gli Stati Uniti sganciarono due bombe nucleari che rasero al suolo le città. Il mondo, liberato dalla guerra, si accorse presto che quello era l’inizio di una nuova era in cui il terrore atomico avrebbe aleggiato per sempre sui delicati rapporti di potere. E mentre la psicoanalisi e la filosofia avevano aperto possibilità infinite all’autodeterminazione dell’io, l’uomo si accorgeva di avere tra le mani una potenza tecnico-scientifica senza precedenti. Dio sparì dall’orizzonte e l’uomo ripiegò le aspirazioni su se stesso e sulla propria esistenza, perdendo il senso della fede, della gratuità e della speranza. L’arte che ne scaturì è stata espressione di questo senso di abbandono e di vertigine, rompendo ogni riferimento con il passato. L’artista, ormai deluso dalla realtà, si sottrasse dal figurativo e dall’interesse verso le vicende umane per esprimere un’arte informale, incapace di trasmettere messaggi.
Diverso fu invece l’approccio del pittore di Figueres, in Spagna, Salvador Dalì, cioè Salvador Domènec Felip Jacint Dalí i Domènech (1904- 1989), che durante la Seconda guerra mondiale (1939-1945) aveva trovato riparo a New York. Era già un artista famoso e rinomato quando nel 1946 concluse Le tentazioni di sant’Antonio. Anche lui rimase colpito dall’immane tragedia della bomba sul Giappone, ma il legame mai reciso con il passato e con la tradizione lo portarono a maturare un’opera piena di speranza.
Nel quadro, il senso di smarrimento e di angoscia lasciato dall’atomica è reso dal paesaggio desertico e post-nucleare in cui è immerso il santo. Antonio visse nel secolo III e si avvicinò a Dio attraverso la scoperta di una vita solitaria e contemplativa. Di famiglia agiata, abbandonò la città e le ricchezze per una esistenza totalmente spirituale. Una scelta, o meglio una chiamata, che si rivelò decisiva per il futuro dell’Europa. Nei secoli successivi, il suo esempio ispirò le varie forme del monachesimo la cui spiritualità è la radice su cui è cresciuta l’Europa cristiana. Dalì trovò nella vita di questo eremita l’esempio per rispondere alle angosce dei contemporanei. Il suo sant’Antonio è nudo di fronte alle enormi tentazioni che gli si presentano minacciose. Come non scorgere nell’immagine del cavallo bianco imbizzarrito la spaventosa potenza tecnica, devastante e incontrollabile, raggiunta dall’uomo? In più, dietro al cavallo, dei pesanti pachidermi trasportano lentamente le tentazioni, soprattutto la lussuria e la gloria.
Ma Antonio non si scoraggia e, nonostante la sua piccolezza, appare tutt’altro che inerme. Si aggrappa con fermezza e fiducia a una croce raccolta e raffazzonata al momento, spoglia e povera, dietro la quale non dimostra paura. È l’immagine di una fede vera e umile che per fronteggiare le minacce si rifugia nel gesto più elementare. Non grida alla battaglia, non si erge con spavalderia di fronte al pericolo e non predica rimproveri. Il pittore accentua poi la forza della fiducia umile in Cristo, spogliando il santo di ogni veste. In questo atto essenziale e tipico del cristianesimo dei primi secoli, l’artista spagnolo ritrova la speranza di guardare il futuro. Le zampe dei terribili animali si rivelano lunghe e fragili, prossime a spezzarsi. Dalle nubi, in alto a destra, s’intravvede il monastero-residenza del re cattolico Filippo II (1527- 1598), l’Escorial, capolavoro monumentale dell’architettura tardorinascimentale. Si scorge in lontananza la meta da raggiungere che è una città della fede in cui l’uomo riconosce la regalità di Cristo e manifesta pubblicamente l’amore al Creatore. Ma il cammino è indicato nella testimonianza povera e spoglia del Vangelo, senza il rigido ricorso alla legge.