Cosa ci insegna san Giuseppe sull’etica del lavoro
di Michele Brambilla
Papa Francesco focalizza nell’udienza del 12 gennaio un particolare rilevantissimo: «Gli evangelisti Matteo e Marco definiscono Giuseppe “falegname” o “carpentiere”. Abbiamo ascoltato poco fa che la gente di Nazareth, sentendo Gesù parlare, si chiedeva: “Non è costui il figlio del falegname?” (Mt 13,55; cfr Mc 6,3). Gesù praticò il mestiere del padre» per lunghissimi anni, e questo è stato determinante nell’alimentare l’incredulità dei suoi concittadini non appena Cristo iniziò il suo ministero pubblico.
«Il termine greco tekton, usato», spiega il Papa, «per indicare il lavoro di Giuseppe, è stato tradotto in vari modi. I Padri latini della Chiesa lo hanno reso con “falegname”. Ma teniamo presente che nella Palestina dei tempi di Gesù il legno serviva, oltre che a fabbricare aratri e mobili vari, anche a costruire case, che avevano serramenti di legno e tetti a terrazza fatti di travi connesse tra loro con rami e terra», pertanto non è sbagliata la qualifica di “carpentiere”. L’importante è considerare il fatto che san Giuseppe e lo stesso Gesù sono vissuti del proprio lavoro manuale.
Il Santo Padre riflette: «Questo dato biografico di Giuseppe e di Gesù mi fa pensare a tutti i lavoratori del mondo, in modo particolare a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche; a coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero; alle vittime del lavoro – abbiamo visto che in Italia ultimamente ce ne sono state parecchie -; ai bambini che sono costretti a lavorare e a quelli che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare». Esorta: «Pensiamo alle vittime del lavoro, degli incidenti sul lavoro; ai bambini che sono costretti a lavorare: questo è terribile! I bambini nell’età del gioco devono giocare, invece sono costretti a lavorare come persone adulte. Pensiamo a quei bambini, poveretti, che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare. Tutti questi sono fratelli e sorelle nostri, che si guadagnano la vita così, con lavori che non riconoscono la loro dignità». Dignità umana che è lesa anche nei disoccupati: «Tornano a casa: “Hai trovato qualcosa?” – “No, niente … sono passato dalla Caritas e porto il pane”. Quello che ti dà dignità non è portare il pane a casa. Tu puoi prenderlo dalla Caritas: no, questo non ti dà dignità. Quello che ti dà dignità è guadagnare il pane, e se noi non diamo alla nostra gente, ai nostri uomini e alle nostre donne, la capacità di guadagnare il pane, questa è un’ingiustizia sociale in quel posto, in quella nazione, in quel continente». Si invitano, allora, i governanti a creare le condizioni per la piena occupazione, in modo che nessuno sia costretto a mendicare o sia sfruttato.
«Non si tiene abbastanza conto del fatto che il lavoro è una componente essenziale nella vita umana, e anche», dice il Pontefice, «nel cammino di santificazione. Lavorare non solo serve per procurarsi il giusto sostentamento: è anche un luogo in cui esprimiamo noi stessi, ci sentiamo utili, e impariamo la grande lezione della concretezza, che aiuta la vita spirituale a non diventare spiritualismo», ovvero a perdere l’ancoraggio alla realtà concreta. Allora «è bello pensare che Gesù stesso abbia lavorato e che abbia appreso quest’arte proprio da san Giuseppe».
Francesco ripete in proposito una preghiera molto significativa, composta nel 1969 da san Paolo VI, che la propose il 1 maggio, per la Chiesa festa di S. Giuseppe lavoratore:
«O San Giuseppe,
Patrono della Chiesa,
tu che, accanto al Verbo incarnato,
lavorasti ogni giorno per guadagnare il pane,
traendo da Lui la forza di vivere e di faticare;
tu che hai provato l’ansia del domani,
l’amarezza della povertà, la precarietà del lavoro:
tu che irradii oggi, l’esempio della tua figura,
umile davanti agli uomini
ma grandissima davanti a Dio,
proteggi i lavoratori nella loro dura esistenza quotidiana,
difendendoli dallo scoraggiamento,
dalla rivolta negatrice,
come dalle tentazioni dell’edonismo;
e custodisci la pace nel mondo,
quella pace che sola può garantire lo sviluppo dei popoli. Amen».
Espressioni come «rivolta negatrice» e «tentazioni dell’edonismo» richiamano direttamente il clima di quell’epoca, segnata dalla Rivoluzione del Sessantotto, di cui stiamo ancora raccogliendo i “cocci” morali e sociali. Se il Papa regnante porge di nuovo questa preghiera è perché ritiene che ci riguardi ancora in prima persona. E come dargli torto?
Venerdì, 14 gennaio 2022