di Valter Maccantelli
Le notizie che giungono dal meridione dell’arcipelago filippino e dalla sua isola maggiore, Mindanao, descrivono uno stato di guerra in piena regola. Da giorni la città di Marawi, una delle principali della regione, abitata da circa 200mila persone, è messa a ferro e fuoco da miliziani appartenenti a diversi gruppi del jihadismo filippino.
I fondamentalisti islamici, dopo aver occupato e saccheggiato alcuni quartieri, hanno assaltato la cattedrale prendendo in ostaggio il vicario, padre Teresio Soganub, e una quindicina di fedeli per i quali si pensa vogliano chiedere un riscatto o dei quali vogliono servirsi come scudi in caso di rappresaglia da parte delle forze di sicurezza del Paese. Per Radio Vaticana la situazione è «davvero precaria». Sabato 27 maggio, mons. Edwin de la Pena, vescovo di Marawi, ha lanciato un accorato appello attraverso un’intervista rilasciata al sito Vatican Insider del quotidiano La Stampa: «Papa Francesco, prega per noi e con noi. Chiediamo la tua preghiera e quella di tutta la Chiesa universale. Papa Francesco resta con noi mentre portiamo la nostra croce».
Mentre scrivo queste note, le agenzie riferiscono il ritrovamento di 19 cadaveri, tra i quali donne e bambini, alla periferia della città assediata, uccisi con un colpo alla testa dalle gang islamiste che imperversano da settimane nei paraggi.
Da tempo tensione e violenza sono notevolmente aumentate nel sud delle Filippine dove è concentrata la minoranza islamica (chiamata comunemente Moro) di questo Paese cattolico, il più importante dell’Asia. Al tradizionale conflitto che oppone da secoli l’irredentismo Moro al governo di Manila si è aggiunto negli ultimi decenni una componente strettamente jihadista legata prima ad al Qaeda e recentemente all’ISIS/Daesh.
Con un copione che sembra ripetere quello della Nigeria e che rischia di replicarsi anche in altri Paesi come la Birmania, su questi fenomeni a origine locale intervengono finanziamenti, aiuti, consiglieri “stranieri”, esponenti cioè del radicalismo ultra-fondamentalista provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa Settentrionale. La competizione per accaparrarsi i finanziamenti spinge quindi i gruppi locali a guadagnarsi il riconoscimento sul campo attraverso attentati, massacri e imposizioni violente di norme shariatiche di cui fa le spese la popolazione civile, in particolare le comunità cristiane che in queste zone rappresentano una minoranza piccola ma attiva.
Ciò a cui si assiste in questi giorni è insomma solo uno dei picchi di un conflitto strisciante che dura da molto tempo e che balza agli onori delle cronache solo in occasione di episodi eclatanti come quelli citati. Nell’immaginario comune, infatti, le Filippine restano il Paese cattolico dell’Estremo Oriente per antonomasia, di radicata cultura ispanica, una sensazione confermata anche dalle comunità filippine all’estero.
Il presidente Rodrigo Duterte, eletto un anno fa dopo una campagna elettorale condotta in aperta polemica con la Chiesa Cattolica filippina sui temi morali, aveva promesso di eliminare il problema del terrorismo islamico imponendo, se necessario, la legge marziale non solo nell’isola di Mindanao, bensì in tutta la nazione. Ma il problema è molto complesso: si articola su piani differenti ed è di vecchia data. Non lo si può, quindi, risolvere con una istantanea azione di forza, della quale, peraltro, soffrirebbero principalmente popolazioni civili già martoriate da decenni di violenza.
Le cronache riportano sigle di cui spesso si conosce poco più del nome: Abu Sayyaf, MAUTE, MNLF, MILF e così via. Per capire meglio le ragioni e i possibili sviluppi della tragedia dei martiri filippini contemporanei è necessario approfondire.
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