Da Tempi del 28/02/2018. Foto da articolo
Per chi voterebbe in Italia chi ha partecipato al recente World Economic Forum di Davos? Rispondiamo per esclusione. Certamente non per le forze politiche qualificate come “populiste”, e quindi Lega, Fdi e M5s. Intendiamoci: tranne il premier Gentiloni, nessuno degli ospiti di Davos ha l’elettorato attivo in Italia; più d’uno ha però sentito il dovere di partecipare al nostro dibattito pre elettorale, andando oltre la pur legittima manifestazione di opinione. Così, per gli analisti di Credit Suisse «le elezioni del 4 marzo sono viste da alcuni investitori come il rischio più rilevante in Europa quest’anno, dato il supporto relativamente alto ai partiti anti-establishment e anche alla luce del debito pubblico costantemente elevato». È per questo che un “governo del Presidente“ guidato da Gentiloni sarebbe «un’opzione sufficientemente rassicurante per i mercati». La società statunitense Citigroup si è mostrata convinta che gli investitori tifino larghe intese. Il Fmi, mentre ha elevato la stima di crescita dell’Italia, ha però aggiunto che «le incertezze politiche creano rischi nella realizzazione delle riforme».
È esagerato parlare di condizionamento del voto italiano? Si è nel recinto di quei consigli che è obbligatorio ascoltare: come quell’offerta di don Vito Corleone, che non si poteva rifiutare. Che senso politico ha demonizzare partiti marchiati come fuori sistema, se non si comprende la ragione per la quale tanti italiani li preferiscono? Quel che è di moda qualificare “populismo” è veramente il regno dell’antipolitica? Non è, al contrario, una domanda, spesso disperata, di intervento della politica? Posta in modo rozzo, non articolato, ma che esige una maggiore, non una minore assunzione di responsabilità politica. Quel voto, al di là del merito dei programmi, chiede con rabbia alle classi dirigenti di scegliere, senza limitarsi – quando va bene – alla mera gestione o all’amministrazione.
Dai partecipanti di Davos alle esternazioni di personaggi autorevoli delle istituzioni dell’Unione Europea, si ha l’impressione che la critica del populismo coincida con la critica del popolo tout court: riferirsi troppo al popolo è sbagliato, perché fa correre il rischio che il popolo non avalli quello che sta bene alle élite, finanziarie e non. D’altronde, due leader hanno dovuto lasciare la guida dei rispettivi governi per aver commesso l’“errore” di consultare il popolo: David Cameron col referendum sulla permanenza in Europa, Matteo Renzi col referendum costituzionale.
Chi nei singoli Stati ambisce a rappresentare i popoli di riferimento potrebbe fare qualche sforzo in più per venir fuori da posizioni banali e irreali. E, per esempio, volendo affrontare seriamente il rapporto con l’Europa, puntare sui meccanismi di intralcio alla assunzione delle responsabilità politiche nelle sedi che contano. Oggi l’Europa ha 28 Stati membri: con l’uscita del Regno Unito scenderanno a 27, ma l’ingresso dei Paesi candidati farà oltrepassare quota 30. Il confronto politico è impossibile, oltre che per il numero dei partner, per il criterio della unanimità, in virtù del quale Malta o Lussemburgo riescono a paralizzare l’intera Unione in caso di disaccordo. Quelle sedi non offrono né le condizioni né il tempo materiale per confrontare le rispettive posizioni e per far emergere ed elaborare le opzioni politiche di respiro, se necessario anche a seguito di uno scontro duro: col risultato che in genere vengono approvate piattaforme predefinite nelle sedi tecniche. La scelta effettiva è operata in larga parte dalle burocrazie europee, distanti dal sentire dei popoli.
Superare gli slogan
Urge uscire dalla dialettica fra “quelli che sanno” e pretendono di imporre con la minaccia delle ricadute economiche, e la plebe dei nuovi proletari che non fanno più figli ma hanno ancora il diritto di voto, e intendono esercitarlo preferendo quelle forze che dicono di voler respingere gli abusi dei primi. Papa Francesco ha ricordato che l’Europa non è «un insieme di regole da osservare, (…) un prontuario di protocolli e procedure da seguire». È invece «una famiglia di popoli e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti». Coi criteri di Davos anch’egli ricadrebbe nella categoria dei populisti. Ma chi oggi è bollato in questo modo deve assumersi la responsabilità di oltrepassare gli slogan, di togliersi l’abito caricaturale che gli viene cucito indosso, e di dimostrarsi alternativa credibile a “quelli che sanno”.
Alfredo Mantovano