L’approfondimento dell’articolo “Scacco matto” di Valter Maccantelli
La paternità dottrinale del progetto politico globale per la Turchia del futuro non è di Erdogan. Il testo fondativo, che risale al 2001, è un libro del Prof. Ahmet Davutoglu significativamente intitolato “Profondità Strategica”. Davutoglu, al tempo docente universitario ad Istanbul, diventa negli anni successivi una figura importante nell’AKP e nel governo: nel 2009 è Ministro degli Esteri del governo Erdogan e nel 2014, quando quest’ultimo diventa Presidente della Repubblica, gli succede come Primo Ministro. Si è dimesso nel maggio 2016 per divergenze con il Presidente, ma ha lasciato un’impronta destinata a durare a lungo nella politica estera turca.
La tesi di Davutoglu, che rifiuta la definizione di “neo-ottomanesimo”,è che la Turchia deve uscire dal ruolo di servizio come base avanzata della NATO, tipico del periodo della Guerra Fredda, e diventare – grazie alla sua posizione storica, geografica e strategica – un attore primario del quadro regionale e globale. “La Turchia soddisfa molte identità regionali e ha la capacità, e quindi la responsabilità, di sviluppare una politica estera integrata e multidimensionale. La combinazione unica della nostra storia e della nostra geografia porta con sé un senso di responsabilità. Contribuire alla risoluzione dei conflitti, alla pace internazionale e alla sicurezza in tutta l’area è un obbligo che ci deriva dal profondo della storia multidimensionale della Turchia”. Davutoglu pensava probabilmente ad una egemonia diplomatico-culturale su basi identitarie ma è facile immaginare come queste tesi, prese in carico dall’islamo-nazionalismo dell’AKP di Erdogan, si siano facilmente tramutate in un progetto geopolitico espansionistico.
La chiave interpretativa è tutta in quel termine “multidimensionale” che Davutoglu indica come caratteristica unica della storia e della geografia turca. Per comprenderne il significato occorre riflettere su tre aspetti (dimensioni) che sono peculiari e ben presenti nella Turchia attuale ma che si sono formati nel corso degli ultimi due secoli: un aspetto etnico-storico, un aspetto religioso e, infine, un aspetto politico. Meritano un approfondimento perché “girano” in un senso diverso da quello che ci ostiniamo ad applicare alla politica turca.
Partiamo da quello etnico-storico. Nella società turca la storia è importante, specialmente a livello popolare: molti turchi di oggi si sentono effettivamente portatori di un’eredità che risale alle grandi vittorie di Timur e al suo dominio sugli altri popoli della regione. Non bisogna esagerare nella stima dell’effettiva consapevolezza di questa identità, ma non si può ignorare che ne derivi un sentimento, questo si reale, di un’unicità di vocazione storica al dominio di un mondo ben più ampio degli attuali angusti confini della Turchia.
Questo passato/sentimentoè stato costantemente coltivato nella liturgia politico-militare: dall’Ataturk ad Erdogan non si è mai persa un’occasione per rievocare una battaglia, di indipendenza o di conquista, o di celebrare un eroe. Su questa base Mustafa Kemal Ataturk ha tentato di costruire l’identità unitaria di un popolo che di suo unito non sarebbe. Erdoganha ereditato questa narrazione, e – dopo averla “convertita” all’islam- la usa alla bisogna: basterebbe considerare i toni messi in campo nella recente diatriba con Olanda e Germania sui comizi di esponenti turchi in quei paesi.
La prima operazione ufficiale di guerra della Turchia in territorio siriano è avvenuta il 21-22 febbraio 2015. Una colonna di una ventina di mezzi corazzati è penetrata in Siria per 35 Km,ha occupato un mausoleo di Sarrin, a nord di Aleppo, per riprendersi le spoglie di Suleyman Shah, nonno di Osman I il fondatore della dinastia ottomana, e riportarle in pompamagna in territorio turco. Per questa tomba la Turchia, pur sconfitta nella I Guerra Mondiale, aveva preteso dalla Francia una clausola speciale del trattato di Ankara del 1921 che ne garantisse la proprietà turca nei confronti di chiunque avesse dovuto possederne il territorio circostante.
L’operazione più importante ad oggi, “Scudo dell’Eufrate” – ufficialmente chiusa pochi giorni or sono -,è stata lanciata, con tanto di dichiarazione pubblica, il 24 agosto 2016, cinquecentesimo anniversario della battaglia di Marj Dabiq nella quale il Sultano Selim I sconfisse i Mamelucchi aprendosi la porta alla conquista della Siria.
Quando Erdogan e i suoi ministri evocano il ritorno ai fasti ottomani sanno di toccare una corda che giunge al cuore di una significativa fetta di cittadini turchi.
Passiamo al fattore religioso. Ci troviamo certamente in presenza di una società islamica ad egemonia sunnita, pur in presenza di un significativo 30 % di “non sunniti” (sciiti e altri). Questa realtà è stata solo marginalmente toccata da 80 anni di tentativi di Kemal Ataturk e dei kemalisti di imporre la laicità come cifra pubblica dello stato. QuandoErdogan iniziò la sua ascesa presentandosi pubblicamente come politico islamico riprese semplicemente un discorso mai realmente interrotto.
L’islam ottomano-turco presenta però una sfumatura peculiare nel rapporto fra religione e stato. I fondamentali sono certamente quelli classici:‘islâm dîn wa-dunyâ wa-dawla’ (l’islam è religione, società e Stato). Il problema è quello dei rapporti non di dottrina ma di forza fra religione e politica: mentre normalmente è la narrazione religiosa della vita pubblica ad espandersi fino ad assorbire completamente la dimensione politico-amministrativa, nel mondo ottomano del XVIII e XIX secolo questa dinamica sembra invertirsi. È la dimensione politico-amministrativa imperiale a prendere sotto tutela il mondo religioso fino ad inglobarlo nella propria infrastruttura. Il risultato finale, l’identità, non cambia ma il linguaggio, e con esso la politica, si. Paradossalmente questa situazione si consolida nel periodo kemalista, anche se per ragioni opposte a quelle dei sultani ottomani. L’Ataturk e i suoi epigoni vollero porre sotto tutela la dimensione religiosa al fine di contenerla, strumentalizzarla e, probabilmente, eradicarla ma di fatto finirono con l’istituzionalizzarla come background della nuova Turchia rivoluzionaria.
Ad Erdogan ed i suoi è bastato invertire il segno – da meno a più – davanti all’operazione per ritrovarsi a rappresentare realmente la società turca. In questo ambito non è davvero strano che ad Istanbul coltivino il sogno di espandere questo modello all’intero mondo sunnita medio-orientale che dominavano fino al 1918.
Il terzo elemento, il fattore politico, non è altro che una conseguenza abbastanza logica dei due precedenti. La società turca, consapevole del proprio ruolo storico confermato dall’identità religiosa, non cerca governanti, cerca un capo in grado di incarnare questa missione: Erdogan, piaccia o no, questo bisogno lo ha capito e, convintamente o strumentalmente, lo ha assunto su di sé. In Turchia in questi anni hanno visto la luce una grande quantità di serie televisive, fumetti, canzoni (tutti strumenti “popolari”), che inneggiano alle figure dei capi militari del passato che hanno condotto i turchi alle grandi vittorie o che li hanno risollevati dopo le grandi sconfitte. Saranno anche prodotti della propaganda di regime ma l’audience è sempre molto alta.
La possiamo anche definire non-democrazia ma in Turchia non comanda chi vince le elezioni, al contrario è chi comanda che vince le elezioni. Questo “chi” negli ultimi quindici anni ha un nome e cognome: RecepTayyip Erdogan. Anche buona parte dell’opposizione, non tutta, obietta sul linguaggio, sui metodi, sulle persone ma non sul progetto politico.
Il focus di Erdogan e del suo piano è tutto puntato sul Medio Oriente e ad Est verso l’asia centrale in parte turcofona. Guarda alle grandi potenze, specialmente USA e Russia ma anche Cina, come potenziali moltiplicatori della propria forza in un pericoloso alternarsi di intese e dissensi che con Trump potrebbe rivelarsi più complicato che in passato. Una delle poche certezze è che dell’Europa, almeno in questo momento, gli importa davvero poco. Sarebbe quindi il caso di mettere da parte l’annosa minaccia di non ammettere la Turchia nell’Unione Europea: non serve a nulla. La Turchia oggi non vuole entrare in Europa, ce lo dice tutti i giorni in tutti i modi, in ultimo ce lo ha detto con l’esito di questo referendum. Sarebbe invece il caso di mettere in campo una corposa attività diplomatica che porti una serie di accordi bilaterali volti ad affrontare i tre principali problemi che potremmo avere in comune: l’immigrazione, il terrorismo e l’approvvigionamento energetico.
Erdogan non ammetterà mai di aver bisogno di amici ad Ovest ma sa benissimo che degli alleati gli servono, o almeno gli serviranno se l’economia turca continuerà a stagnare come accade da qualche anno, se dovrà continuare a mantenere i tre milioni profughi sul suo territorioe se i suoi ex-amici fondamentalisti continueranno a mettere bombe nelle sue città. Su questo fronte con un po’ di realismo e molta pazienza qualcosa si potrà ottenere, anche a noi servono alleati a Sud-Est.
Valter Maccantelli