Da un lato non ci sono freni all’uso della custodia cautelare. Dall’altro, quando la condanna diventa definitiva, scatta una serie di benefici che di fatto vanifica la sanzione
Una scelta va fatta. Anzitutto del corteo. Quello natalizio dei Radicali contro il carcere o quello di qualche giorno fa contro la violenza sulle donne. Per carità, puoi pure restare a casa se non ti garba nessuno dei due, ma affrontare la questione violenza sessuale impone di recuperare qualche categoria caduta in disgrazia dopo il ’68: per esempio, che la pena prima di essere riabilitazione è anzitutto retribuzione; anzi, proprio perché è il corrispettivo che l’ordinamento stabilisce per una condotta criminosa, essa induce il reo a riflettere sulle conseguenze della propria azione e a non ripeterla in futuro.
Edgar Bianchi, arrestato qualche giorno dopo aver violentato una minorenne in un ascensore a Milano, aveva già in anni passati usato violenza a 25 donne: la violenza sessuale è un crimine vile e odioso chiunque ne sia vittima, ma la gravità di quel che lui aveva commesso era accentuata dal fatto che si trattasse di adolescenti, in età compresa fra i 12 e i 14 anni. È difficile immaginare fino in fondo che cosa significa subire un atto simile sul proprio corpo; su chi è poco più di una bambina è impossibile. Senza considerare lo sconvolgimento dell’esistenza della famiglia della piccola.
La cifra complessiva, 25, è stata trattata dai media quasi come un dato statistico, più che come la complicata sommatoria di singole dilanianti tragedie personali e familiari. La sanzione che il codice prevede per una violenza sessuale verso una persona minore va dai 6 ai 12 anni di reclusione: in presenza di 25 episodi non si fa la moltiplicazione materiale, ma si determina la pena per quello che viene ritenuto il fatto più grave, e su di esso si opera un incremento di sanzione per ciascuno degli altri fatti fino a un massimo che non può superare il triplo della pena di partenza; in gergo, è quella che si chiama “continuazione”. Nel caso specifico, quand’anche i giudici fossero partiti dal minimo, si poteva pervenire a 18 anni di reclusione. La condanna a carico di Bianchi è stata a 12 anni.
Ora, tutti conoscono la schizofrenia del nostro ordinamento: da un lato continuano a non esserci freni per l’uso della custodia cautelare, dall’altro il momento in cui la condanna diventa definitiva coincide con quello in cui scatta una combinazione di benefici penitenziari che di fatto vanifica la sanzione. Qualcuno si meraviglia che Bianchi abbia lasciato il carcere dopo 8 anni dei 12 che gli erano stati inflitti, e che già apparivano benevoli rispetto alle atrocità commesse? Dipende dall’automatismo nel riconoscimento di semilibertà, liberazione anticipata, affidamento al servizio sociale, con limiti di fruizione dilatati negli ultimi 5-6 anni, all’insegna della deflazione delle carceri. È ingenuo (eufemismo) esprimere sorpresa. Non è solo un problema di sanzioni comminate al ribasso a fronte di fatti gravissimi e di benefici à gogo. È l’insieme che merita riflessione seria, non demagogica né ideologica: non è ben chiara la dimensione quantitativa del fenomeno, poiché da un lato il dato numerico non fa emergere incrementi (al contrario il trend ufficiale parrebbe in lieve calo), dall’altro deve presumersi un “numero oscuro”, cioè violenze sessuali non denunciate dalle vittime, per varie ragioni, come vergogna, disagio per un procedimento penale che entra nell’intimo, contesti di sottomissione… Quest’area nascosta andrebbe scandagliata con una rilevazione non affrettata e con criteri scientifici, che non mancano. Se per assurdo la statistica indicasse un solo episodio consumato, sarebbe comunque necessaria un’attenzione di insieme su quel che si può fare in termini di prevenzione, in aggiunta a quanto fatto finora.
Fare meglio si può. Ma si vuole?
La legge sullo stalking c’è da anni, ma la sua applicazione, soprattutto nella fase iniziale (quella seguente alla denuncia), non appare omogenea nel territorio, troppo spesso ancora soggetta a una trattazione formalistica e burocratica; è un terreno sul quale lavorare, ma è compito del governo, non di norme che esistono e sono valide. Un po’ più di informazione mirata nelle scuole su come evitare contesti favorevoli alle esplosioni di violenza e su come individuarne i prodromi per starne lontane non guasterebbe, magari al posto di generici corsi di “educazione alla legalità”. Ci sono aree urbane dalle quali è raccomandabile non transitare in alcune ore della giornata: bonificarle e illuminarle non è compito né del parlamento né della polizia, ma dei sindaci. Fare meglio si può, ma se alla fine la sanzione è vanificata in nome dell’ideologia postsessantottina di fuga dalla responsabilità, è meglio che ti rassegni e vai al corteo dei Radicali.
Alfredo Mantovano
Da Tempi del 9/10/2017. Foto da articolo