Da Tempi del 27/04/2020. Foto da bottegadinazareth.com
«Per essere cristiani, gli uomini hanno bisogno di un ambiente che li aiuti. Non esiste un cristianesimo di massa senza cristianità». Così scriveva il cardinale Jean Daniélou (1905-1974) in un libro che mi è venuto spontaneo riprendere in mano in queste giornate lente e difficili, solitarie e silenziose a causa del coronavirus. Che cosa c’entra l’ambiente e addirittura la cristianità con la diffusione del virus che da mesi ormai ci sta complicando la vita? Il libro di Daniélou si intitola L’orazione, problema politico (Arkeios, 1993) e oggi l’orazione sembra veramente essere diventata un problema politico. Se avevamo bisogno di conferme sul fatto che la religione è stata espulsa dalla vita politica e dal dibattito pubblico di una società ormai completamente scristianizzata, in questi giorni la abbiamo avuta. La religione sembra non esistere. Addirittura sembra pericolosa per le istituzioni, altrimenti non si spiegherebbe il Decreto legge n. 19/2020 che all’art. 1 co. 2 lett. h) dispone la «sospensione delle cerimonie civili e religiose» e la «limitazione dell’ingresso nei luoghi destinati al culto». Niente Messe con la presenza dei fedeli e addirittura il rischio della chiusura totale delle chiese. Qui la sicurezza non c’entra perché i fedeli che andavano alla Messa feriale e che oggi entrano nelle chiese sono talmente pochi che stanno a distanza fra loro di dieci metri almeno, non di un metro come prevede l’ordinanza governativa. Qui c’entra la dimensione pubblica della fede, la preghiera come gesto pubblico di una comunità, anche minoritaria, ma che ha il diritto di professare pubblicamente non solo il culto ma ogni espressione della propria religione. Ecco perché sono andato a rileggere Daniélou. Perché il cardinale ci dice che sono i poveri ad avere bisogno della dimensione pubblica della fede, sono gli “ultimi” ad avere la necessità di una cristianità che li aiuti, li incoraggi e li favorisca, a volte che li sproni se necessario. I santi, gli eroi della fede se la cavano anche nei gulag (vedi Aleksandr Solzenicyn, 1918-2008), ma noi poveri umani non siamo così. Ecco allora che questi giorni difficili e drammatici ci insegnano due cose. Primo, che non siamo più una cristianità, ma lo sapevamo. Secondo, che i cristiani sono una minoranza antipatica a chi governa, e i governanti trattano le chiese molto peggio dei supermercati, considerandole come i cinema, le palestre, forse neppure come i tabaccai (che possono rimanere aperti). Forse sarebbe un bene se qualcuno che nella Chiesa italiana esercita un ruolo pubblico e importante facesse notare il rischio che stiamo correndo. Sono perfettamente consapevole del dramma sanitario in corso, soprattutto in alcune regioni e province, e sarebbe un peccato grave sottovalutarlo. Sono altrettanto convinto della necessità di rispettare le regole, se sono l’unico modo realistico per fermare il diffondersi del virus. Ma tenere fuori Dio dalla vita pubblica di una nazione in un momento in cui soltanto la Chiesa può rispondere con un po’ di senso alle domande e alle inquietudini che nascono in questi giorni nel cuore di ogni uomo, mi pare offensivo del buon senso, anche di quello di chi non crede.
E alla fine si estingue
E allora che fare? leggere Daniélou intanto e comprendere che il problema è sempre quello della cristianità, oggi come cento anni fa. Essa non è un privilegio per pochi intellettuali, ma è necessaria per i poveri. Non c’è oggi, ma va desiderata e insegnata, al contrario di quello che avviene normalmente all’interno del mondo cattolico. Va spiegato che non si tratta di un regime confessionale, ma di un mondo che prende sul serio il Vangelo e la dottrina sociale e quindi non esclude nessuno, né i singoli né le comunità. Può diventare una cristianità “grande” come le tante che ci sono state, ma può essere anche “di minoranza”, come la presentava il cardinale Giacomo Biffi, che fra l’altro ricordava che «ciò che non è socializzabile, e non diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella consapevolezza delle persone semplici e comuni; e alla fine si estingue». Una società che anche in una condizione drammatica come quella attuale non riesce ad aiutare le persone ad alzare gli occhi al Cielo, che non si preoccupa dell’aspetto religioso della vita pubblica, che riduce la fede a fatto rigorosamente privato o addirittura la ignora, è una “malasocietà”. E rischia di finire male.
Marco Invernizzi