di Francesco Farri da In Terris del 21/10/2020
L’ultimo d.P.C.M. è stato emanato domenica 18, appena cinque giorni dopo il precedente e si pone, anche sotto il profilo formale, come correttivo a esso. Così per es., mentre il d.P.C.M. del 13 fissava l’orario di chiusura dei bar e ristoranti ma non quello di apertura, dando occasione per manovre elusive, col decreto del 18 è precisato pure l’orario di possibile riapertura. Valgono quindi, nella sostanza, considerazioni analoghe a quelle che potevano svolgersi per il decreto del 13, per le quali si rinvia a www.centrostudilivatino.it/dpcm-polizia-e-delazione-restano-fuori-dalla-porta-di-casa/
Per “entrare” nelle case degli italiani non si sono imposti divieti con sanzioni, perché sarebbe stato contro l’art. 14 Cost.; né si sono auspicate le delazioni dei vicini, come incautamente prospettato da qualche ministro. Si sono utilizzate “raccomandazioni”, tipici strumenti di soft law: gli italiani non mancheranno di seguirle, poiché corrispondono a prudenza e precauzione, e di fare anche di più, se necessario.
Si è di fronte a provvedimenti tecnicamente imperfetti, per eccesso o per difetto. Allora, al di là della lettera di essi, rilevante ai fini dell’applicazione delle sanzioni, agli italiani è richiesto di attingere il principio di fondo, che è quello di bilanciare le libertà personali con la tutela della salute, riferendosi al criterio di astenersi da quanto implica contatto con estranei, che non sia strettamente indispensabile. Se è difficile tradurre questo principio in formule giuridiche, come emerge da talune infelici formulazioni dei d.P.C.M., sembra però sensato evitare aperitivi, happy hour, partitelle tra amici, tornei di bocce, e così via.
La rinuncia a svaghi e a divertimenti non indispensabili, che questa pandemia richiede, può far riscoprire l’essenzialità e le cose semplici e quotidiane: per una società “sazia e disperata” (secondo le note parole del Card. Biffi, riprese da Benedetto XVI nel messaggio Urbi et orbi del Natale 2006), come lo è stata quella europea prima della pandemia, il non avere sempre tutto a disposizione può essere occasione di crescita. Tanti giovani, negli anni precedenti dediti alla ricerca delle mete estere più improbabili, hanno quest’anno riscoperto la bellezza dei luoghi vicino a casa.
La paura di perdere la vita per il Covid può far recuperare il rispetto per la sacralità della vita di ogni persona, vilipesa nella legislazione dell’ultimo mezzo secolo, e ancora oggi minacciata dalla banalizzazione e privatizzazione dell’aborto. Il dolore per la morte di migliaia di anziani ricoverati nelle RSA segue alla considerazione dei vecchi, fino a qualche tempo prima, come un peso per la società, da avviare velatamente verso la “scelta” eutanasica.
Per il credente, poi, “vestirsi di sacco” di fronte a un mondo lacerato dal male e dal peccato è senz’altro più costruttivo degli svaghi della movida, spesso giustamente criticati per la loro vacuità. E’ vero che la narrazione delle istituzioni e dei media – ansiogena e spesso improvvisata – non aiuta. Eppure, le limitazioni alle libertà personali comunque necessarie per limitare i contagi, se supportate da una adesione consapevole agli ideali sopra tratteggiati, possono trasformarsi in occasione di salvezza per la nostra società, oltre che per la nostra salute. Sarà così possibile trovare forza interiore per sostenere (e aiutare gli altri a sostenere) i sacrifici necessari, al di là dell’inadeguatezza della strategia governativa.
Francesco Farri – Centro Studi Livatino – Avvocato e Dottore di ricerca in diritto dell’economia e dell’impresa all’Università La Sapienza di Roma
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