Di Eugenio Capozzi da l’Occidentale del 29/08/2019. Foto da articolo
Nessun progetto comune, nemmeno un “contratto” degno di questo nome, nessuna idea forte condivisa per affrontare i principali problemi del paese. Ora che si avvia a nascere, dopo la travagliata fase della crisi governativa di agosto, il governo “giallorosso” Conte-bis chiunque conservi un minimo di onestà intellettuale e non sia accecato dall’ideologia non può non riconoscere che siamo di fronte non ad una coalizione minimamente coerente, ma soltanto ad un patto raffazzonato approssimativamente all’ultimo momento da due formazioni politiche in crisi, fino ad ora fortemente conflittuali al limite dell’incompatibilità, nella speranza di evitare elezioni che le avrebbero viste quasi sicuramente perdenti, e di tagliare fuori dal potere Matteo Salvini, decisamente favorito in eventuali nuove consultazioni, e con il quale una delle due formazioni in questione era stato alleato sotto la guida dello stesso presidente del consiglio fino a pochi giorni prima).
L’unico collante della nuova compagine governativa, a parte appunto la conservazione dei seggi e di alcuni nodi di potere (le molte imminenti nomine in enti pubblici), appare essere il suo essere conforme alle forti pressioni provenienti dalle alte sfere dell’Unione europea, e in particolare da Parigi e Berlino, ansiosi di riportare l’Italia sotto il loro controllo e scacciare dal governo un partito sovranista tra i più votati nel continente, da loro visto come il fumo negli occhi. Il che certo non depone a favore della sua pretesa di essere espressione della sovranità popolare.
Si tratta di un’operazione politicamente ingiustificabile agli occhi degli elettori di entrambi i partiti della nuova coalizione, e soprattutto a quelli del movimento 5 Stelle, costretti ad assistere impotenti ad una svolta funambolica della sua dirigenza che porterà i suoi rappresentanti nel governo a un cambio radicale di linea su molte questioni fondamentali.
Tuttavia, al di là del giudizio politico di contenuto, nella quasi totalità gli osservatori e commentatori politici italiani – compresi quelli meno simpatetici con la nuova coalizione – hanno affermato che questo cambiamento radicale di maggioranza debba essere considerato almeno formalmente legittimo nella logica di un sistema politico parlamentare, e nello spirito della Costituzione repubblicana italiana.
Ma è veramente così? A mio avviso no. Certo, apparentemente, formalmente nulla nella Costituzione e nelle leggi italiane vieta un passaggio tra due maggioranze diverse ed anzi opposte nella stessa legislatura. Ma tale passaggio non risponderebbe ai princìpi fondamentali del parlamentarismo. E anche rispetto alla storia della democrazia parlamentare italiana del dopoguerra rappresenta una eccezione.
Fin dalla loro origine, infatti, i regimi rappresentativi incentrati sul parlamento hanno avuto come obiettivo principale quello di rispecchiare nella forma più completa, nel dibattito tra i rappresentanti, l’opinione prevalente tra gli elettori, esprimendone nella maggioranza la sua sintesi più coerente. Ma, appunto, proprio la formazione e la coesione della maggioranza nelle aule parlamentari costituiscono il loro problema centrale. Non a caso nel più antico e radicato tra essi – quello britannico – aggregazione e coesione vengono infatti assicurate da un lato da una legge elettorale rigorosamente maggioritaria che riduce la proliferazione dei gruppi parlamentari, dall’altro dalla facoltà – assegnata per consuetudine al premier, di sciogliere la camera elettiva quando lo ritenga opportuno ottenendo elezioni anticipate, per scoraggiare spericolate manovre trasformistiche da parte dei deputati con la spada di Damocle della possibile perdita dei loro seggi.
Parlamentarismo non significa quindi illimitata possibilità di variare alleanze e coalizioni. L’assemblearismo e il trasformismo sono da sempre patologie, non la fisiologia dei sistemi parlamentari: fenomeni da circoscrivere e limitare, che in democrazia peraltro contraddicono clamorosamente tanto il principio della sovranità popolare quanto quello secondo cui ogni parlamentare è rappresentante dell’intera nazione.
Venendo specificamente alla storia politica italiana, è noto che nel regime parlamentare del nostro paese, dall’unificazione all’epoca repubblicana, la tendenza all’assemblearismo e al trasformismo è sempre stata molto elevata, e ha rappresentato una fonte costante di disordine e instabilità. Caratteristiche che nel primo dopoguerra contribuirono in misura considerevole, per reazione, all’affermarsi della dittatura fascista.
Ma va sottolineato che persino nel nostro paese, sia in epoca liberale prefascista sia in epoca repubblicana, questa tendenza non si è mai spinta funo al punto di produrre, nella stessa legislatura, un cambiamento radicale di alleanze e programmi da parte dello stesso raggruppamento e dello stesso presidente del consiglio.
Per quanto riguarda le complicate combinazioni delle maggioranze parlamentari tra fine Ottocento e l’epoca giolittiana (fondate comunque su un suffragio ancora ristretto fino al 1913, e su raggruppamenti in gran parte ancora molto fluidi) le variazioni e sfumature di alleanze furono sempre graduali, e aiutate da dosate variazioni di componenti e guida degli esecutivi.
Se poi guardiamo alla storia dei governi nella stagione repubblicana, fondati più saldamente sulle alleanze tra partiti strutturati, possiamo notare, nella costante instabilità e rapida successione delle compagini, un analogo principio di bilanciamento e “autoregolazione” del passaggio tra una coalizione e un’altra. In sostanza, tutte le più importanti formule politiche alla base dei governi italiani del secondo dopoguerra hanno coinciso con periodi temporali segnati da almeno una intera legislatura.
La prima e la seconda legislatura (1948-1958) furono contrassegnate decisamente dalle coalizioni centriste, in varie combinazioni. La terza (1958-1963) vide dal 1960 un primo passaggio verso la formula del centrosinistra, ma senza l’ingresso del Partito socialista nel governo. La quarta e la quinta (1963-1968) furono caratterizzate da governi sotto il segno del centrosinistra. La sesta (1972-1976) da formule di transizione tra centrismo e centrosinistra, con oscillazioni di potere e programma spesso minime. La settima (1976-1979) dalle maggioranze di “solidarietà nazionale”, monocolori democristiani con l’appoggio esterno anche del Partito comunista. L’ottava (1979-1983) da un ritorno ad una logica centrista sviluppata nella formula di pentapartito, che avrebbe poi dominato la nona e decima legislatura (1983-1992).
In questo lungo periodo, peraltro, tutte le variazioni nelle coalizioni di maggioranza avvennero conservando sempre come baricentro del governo il blocco quantitativamente preponderante della Dc, sicché le variazioni di forze erano complessivamente minoritarie (eccetto il caso della solidarietà nazionale, in cui però l’ingresso in maggioranza del Pci fu un aggiunta alla maggioranza esistente, e non sostituì alcuna altra componente).
Nel periodo della cosiddetta “seconda Repubblica” poi (dal 1994 in avanti) come sappiamo nel parlamentarismo italiano si è inserita una tendenziale curvatura maggioritaria, con l’aspettativa costante da parte degli elettori di un’alternanza ordinata tra forze diverse al governo. Alternanza che è avvenuta regolarmente in conseguenza di elezioni politiche generali. I casi di cambiamento di coalizione non legati al voto sono stati solo due, entrambi giustificati come governi “tecnici” (l’esecutivo Dini nel 1995-1996 e quello Monti nel 2011-2013), dichiaratamente eccezionali, temporanei e in attesa di consultazione del popolo sovrano. Nella legislatura precedente a questa, infine (la diciassettesima, dal 2013 al 2018), sia pur in una situazione di incertezza e precarietà i tre esecutivi succedutisi sono stati cmplessivamente caratterizzati dalla prevalenza del Partito democratico, e da una continuità di indirizzo programmatico.
Insomma, non si è mai verificato il caso di un partito e di un presidente del consiglio che nella stessa legislatura siano rimasti al governo in due esecutivi diversicapovolgendo specularmente le alleanze e – a quanto pare allo stato delle cose – il programma. Quello del Conte-bis ore in gestazione sarebbe dunque un episodio davvero senza precedenti – e da ora in avanti un precedente pericoloso – di totale scollatura tra partiti ed elettori, tra classe politica ed opinione pubblica, paradossalmente messa in opera in primo luogo da un movimento antipolitico che si è presentato finora come voce della società civile contro il “Palazzo”. Un episodio tanto meno giustificabile in quanto la nuova maggioranza e la sua linea politica sono in deciso contrasto con la tendenza manifestata dall’elettorato italiano non solo in tutti i sondaggi, ma in tutte le elezioni amministrative – comunali e regionali – svoltesi finora nel corso della legislatura, che hanno sempre inequivocabilmente premiato la lega e le coalizioni di centrodestra.
Un così radicale rovesciamento di linea politica avrebbe dovuto passare dunque necessariamente per una verifica elettorale. In mancanza di essa, l’incarico assegnato a Giuseppe Conte dal Capo dello Stato su queste basi rappresenta il cedimento ad una forzatura insostenibile della prassi e delle consuetidini della democrazia parlamentare italiana. E il governo Conte-bis, se vedrà la luce, porterà con sé una tara di illegittimità che condizionerà pesantemente in negativo la dialettica politica nel nostro paese nei mesi e anni a venire.