Di Fausta Speranza da L’Osservatore Romano del 05/03/2019. Foto da articolo.
Un’assolutizzazione del relativismo: non è un ossimoro, ma è il risultato di un processo culturale che, attraverso la declinazione linguistica, si è imposto come critica distruttiva di un’idea di società in positivo. Parliamo dell’ideologia riassumibile nell’espressione politically correct. Apparentemente si tratta di una sollecitazione sempre più pressante a modificare il linguaggio perché sia più rispettoso delle diverse sensibilità possibili, ma in realtà è il tentativo sottile di alterare la lingua per modellare la mentalità, imponendo lo sgretolamento di un’idea di convivenza basata su principi condivisi. L’assioma ribadito è che tutto è relativo e, dunque, nulla è dato per certo e condivisibile. Vacilla l’idea di un patrimonio di valori certi. Il paradosso, però, è che nella presunta sdoganata libertà di definire volta per volta tutto e tutti, si è andata assolutizzando una certezza: la contrapposizione tra l’oscurantismo di chi resiste a queste logiche e l’illuminazione dei seguaci più zelanti del politically correct. La contrapposizione che emerge è a dir poco dogmatica: il relativismo si fa assoluto.
In tanti, a diverso titolo, accademici o intellettuali, hanno cercato di approfondire i concetti chiave cui fa riferimento questa ideologia. Mancava una ricostruzione storica del percorso e dell’evoluzione fatta negli ultimi cinquant’anni. Ha colmato la lacuna il volume dello storico Eugenio Capozzi, edito da Marsilio Editore, intitolato proprio Politically correct, con sottotitolo Storia di un’ideologia (Venezia, 2018, pagine 206, euro 17).
Secondo la retorica sempre più dominante nel discorso pubblico delle società occidentali da qualche decennio — sostenuta da élites intellettuali, politiche, mediatiche — è “politicamente corretto” tutto ciò che fa riferimento a un ideale di progresso che si afferma nel secondo dopoguerra, ed in particolare con la frattura portata dalla grande ribellione giovanile degli anni Sessanta. Si tratta di un ideale che non teorizza l’uguaglianza economica e sociale attraverso il collettivismo, come nel modello comunista sovietico o in quello socialista in generale, ma esprime un’aspirazione radicale: amplia il campo delle prospettive rivoluzionarie fino a formulare una critica di fondo alla cultura occidentale in quanto tale, che viene progressivamente condannata come strutturalmente imperialista, colonialista, sfruttatrice, produttrice di discriminazioni. Ed è estremamente interessante seguire, nelle pagine di Capozzi, l’evoluzione di quella che in fondo è una sola ideologia ma dalle molte sfaccettature, che, nel corso degli ultimi decenni, si sono rivelate come per un effetto domino. Si è parlato man mano di “neo-progressismo”, “culturalismo” o “ideologia diversitaria” e soprattutto sono stati toccati diversi ambiti: dal sapere alla convivenza sociale, come ricostruisce, da storico, Capozzi.
Si tratta, come dicevamo, di una generale critica distruttiva che non è ispirata da una visione del mondo unitaria, da un’interpretazione della storia, da un’idea di società in positivo. È piuttosto fondata sostanzialmente sul principio che l’unica possibile base della convivenza tra gli uomini sia proprio l’assenza di princìpi condivisi. Ne deriva la libertà per individui e gruppi di definire arbitrariamente la propria natura, la propria essenza, i propri fini. Da qui nasce l’invadenza di quello che lo storico definisce il “catechismo politicalcorrettista”, i cui risvolti vengono sistematicamente evidenziati da intellettuali critici. Tra i mille esempi possibili, ricordiamo l’assunto secondo il quale il Moro di Venezia nell’Otello di Shakespeare non deve essere per forza “moro”, che diventa la convinzione che , anzi, debba non essere “moro”: la scelta, dunque, di un attore scuro di pelle o truccato in modo che appaia tale viene bollata come politically uncorrect: non si devono segnare differenze. Scelte tipo questa, avvenute per rappresentazioni di vario genere negli Stati Uniti o in Europa, vengono spesso rubricate come un fenomeno pittoresco, una pedante bizzarria. Capozzi parla di un «tic delle classi dirigenti». E poi spiega che rappresentano invece qualcosa di molto più serio e grave: «La logica espressione di una vera e propria ideologia, cresciuta nell’ultimo mezzo secolo fino a conquistare una quasi indiscussa egemonia nelle democrazie dei paesi industrializzati, mentre le grandi dottrine otto-novecentesche morivano o declinavano».
Al di là delle particolari scelte, i “progressisti diversitari” si propongono, innanzitutto, di rimodellare la mentalità e la cultura. Si dicono convinti di voler estirpare le radici di violenza, da cui derivano i conflitti con cui l’Occidente avrebbe «avvelenato» il mondo, per ripristinare quella che, a loro avviso, è una naturale condizione di armonia e convivenza pacifica tra gli esseri umani e le civiltà. In questa ottica, diventano condannabili tutte le tradizioni, i costumi, le norme etico-religiose, persino i criteri estetici sedimentati nella storia della cultura di origine europea. Al contrario, vengono proposti come preferibili, benvenuti, giustificati tutti gli elementi culturali provenienti da civiltà non occidentali, e tutti i modelli di vita alternativi a quelli prevalenti nelle società che in quella civiltà si sono sviluppate. Si avverte l’impegno su più fronti per una «rieducazione» alla civiltà, che dovrebbe produrre assoluta libertà ed uguaglianza, mai raggiunte dalle dottrine ideologiche classiche. E, soprattutto, si dilata a dismisura lo spazio dei diritti, a scapito dei doveri e del senso del dovere.
Capozzi fotografa non solo l’impianto di fondo, ma anche le singole derive, sottolineando quelli che definisce i «quattro dogmi principali». Il primo è, come dicevamo, il relativismo culturale, per cui — mentre si attacca la tradizione di pensiero occidentale — si teorizza la convinzione che tutte le culture, tutti i costumi e tutte le religioni abbiano uguale valore e che debbano essere considerati sullo stesso piano. Il secondo è il libertarismo “biopolitico”, ossia l’idea dell’equivalenza tra desideri e diritti, per cui ogni tipo di repressione è sbagliata (vietato vietare), e il soggetto umano viene ridotto alla pura pulsione, ad una funzione desiderante. Il terzo è quello secondo il quale l’umanità non gode di uno statuto gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente, ed anzi, al contrario, la civilizzazione rappresenta in primo luogo una “colpa” e una minaccia per l’equilibrio ambientale, da “espiare” attraverso la riduzione della “impronta” umana sul pianeta. Ne deriva un “animalismo” che più che promuovere il rispetto per tutti gli esseri viventi tende a cancellare la superiorità spirituale dell’essere umano. A ben guardare ritroviamo in tanti prodotti mediatici a carattere scientifico il segno di questa impostazione mentale. Il quarto punto è rappresentato dall’identificazione totale tra identità e autodeterminazione soggettiva, per cui ogni individuo o gruppo dovrebbe essere in grado di definire la propria natura indipendentemente da condizionamenti storici, culturali e persino biologici, come nel caso dell’identità “di genere” presentata come un’opzione da scegliere.
Tratto comune a tutte queste letture ideologiche, che sfociano nella precettistica politicamente corretta, è il rifiuto totale della dialettica, del pluralismo, che paradossalmente va di pari passo proprio con il relativismo filosofico ed etico. Se il progresso viene identificato con l’affermazione del più radicale soggettivismo, con l’assenza di ogni principio condiviso nella definizione della vita e della società, allora non ci può essere dubbio, per i politicalcorrettisti, che ogni posizione conservatrice, tradizionalista, o di continuità con l’eredità culturale euro-occidentale, sia soltanto un residuo del passato da eliminare. Senza spazio per il confronto. A saltare agli occhi, dunque, è la forma di intolleranza, di tendenza alla censura che si registra nel discorso politicalcorrettista.
Emerge una visione del mondo in cui tutto dipende dalla propria scelta di definizione. Eppure, se non si accettano per dogma alcune verità del politicamente corretto, senza alcuna attenuante si viene tacciati di oscurantismo. L’arbitrio e il senso critico dovrebbero funzionare per demolire tutto e tutti ma non per sollevare dubbi e critiche sul politically correct. Il libro di Capozzi ha il merito di lasciare bene aperto il margine di questi doverosi dubbi.