Da “La bianca torre di Echtelion” del 25 agosto 2017. Foto da articolo
Negli Stati Uniti la “guerra delle statue” ha pure una seconda faccia. Meno strombazzata dai mediaperché un po’ meno glamour, ma certo non meno inquietante. È la faccia anticattolica e anticlericale, quella che vellica le voglie di “crucifige, crucifige!” sempre vorticanti giusto un pelo sotto la superficie del sinistrismo blasé, demandate per l’implementazione alla manovalanza sanculotta e piazzaiola.
Lunedì 21 agosto ignoti hanno vandalizzato, per l’ennesima volta, una statua di san Junípero Serra Ferrer (nato Miguel José, 1713-1784), canonizzato il 23 settembre 2015 da Papa Francesco durante il suo viaggio ‒ memorabile ‒ negli Stati Uniti. Frate minore francescano, Junípero è stato un impavido, coraggioso e grandioso apostolo di Cristo presso gl’indiani d’America. Per loro si fece in quattro; sopportò privazioni, difficoltà e sofferenze fisiche; fu per di più una grande civilizzatore e persino un cartografo eccelso; quando morì gl’indiani lo venerarono immediatamente come un santo, ma per l’ideologismo contemporaneo è stato praticamente solo un precursore di Adolf Hitler, nonostante gli storici abbiano appurato la verità oltre ogni ragionevole dubbio.
Come riporta The Los Angeles Times, qualche giorno fa le mani e il volto della statua del santo eretta di fronte alla Mission San Fernando Rey de España, fondata nel 1797 in quello che oggi è chiamato “Mission Hills District” di Los Angeles (e da non confondere con la Mission San Fernando Rey de España de Velicatá, fondata nel 1769 dallo stesso san Junípero in Bassa California) sono stati imbrattati di vernice rossa e il busto ingiuriato con la scritta, in bianco, «murderer», ovvero “assassino”. Forse sulla statua è persino stato disegnato uno svastica.
Già a fine settembre 2015 la statua del santo eretta nella Mission San Carlos Borromeo del río Carmelo era stata vilipesae ora del mese di novembre gli attacchi vandalici erano diventati addirittura quattro. Il santo missionario spagnolo è infatti il cavallo di battaglia di tutta la pseudocultura che equipara, senza arte né parte, l’evangelizzazione all’oppressione, persino al genocidio. Contro di lui si moltiplicano gli strali e le contumelie. Qualcuno vorrebbe persino sostituirne la statua che dal 1831 si trova nel Campidoglio di Washington ‒ l’edificio che ospita il Congresso federale, l’assemblea legislativa degli Stati Uniti ‒ in rappresentanza dello Stato della California. Ricardo Lara, senatore californiano del Partito Democratico, figlio d’immigrati messicani illegali e dichiaratamente omosessuale, ha infatti proposto da tempo di sostituirla con quella di Sally Ride (1951-2012), la prima astronauta donna degli Stati Uniti, lesbica (o forse bisessuale). Ma il semplice studio laico, laicissimo della storia dovrebbe invece portare a innalzare 10, 100, 1000 monumenti a un uomo, un frate, un santo che ha completamente trasformato la vita d’intere popolazioni americane, dando grande impulso alla storia della civiltà ed enorme slancio alla storia del cristianesimo.
L’accusa di razzismo è del resto incapacitante. È come la lebbra, anzi la peste. Chi ne viene colpito non ha scampo; viene scansato e additato, sparisce dalle foto di gruppo e dai libri dei ricordi, sprofonda nel fango e meglio sarebbe per lui nemmeno essere nato. Arma migliore per annientare un avversario non esiste. Nessuno prenderebbe infatti le parti di un razzista: sarebbe come difendere pubblicamente un pedofilo. Per questo da decenni, ma esponenzialmente oggi, l’accusa proditoria e temeraria di razzismo è l’arma preferita dal pensiero liberal, progressista e di sinistra per epurare dal consesso umano chi non è d’accordo con loro. Di fronte a un’accusa così, infatti, nessuno ha più il coraggio di andare a vedere come sul serio sono andate le cose, di obiettare, di contestare. Perché un tale che difendesse un tizio accusati di razzismo cos’altro sarebbe se non un razzista anche lui? Così oggi negli Stati Uniti la nobile tradizione “sudista” viene maliziosamente schiacciata sulle follie indifendibili dei suprematisti bianchi e la gloriosa opera di evangelizzazione di eroi della fede e della civiltà come san Junípero Serra calpestata da qualche cialtrone la cui cultura ammonta al massimo alle canzoni rap o a qualche video su YouTube. Scherzi a parte, però, la mostruosa opera di censura della storia, portata avanti dalle avanguardie pop del nichilismo contemporaneo attraverso l’intimidazione infamante di chiunque osi eccepire, assomiglia tanto a una versione postmoderna 2.0 della vecchia mascalzonata maoista della “rivoluzione culturale”. Finirà allo stesso modo?
Marco Respinti