Un giudizio, in apparenza tagliente, dello scrittore Mario Praz, getta luce sull’inscindibile legame tra ciò che amiamo e ciò che esprimiamo con l’estetica.
di Stefano Chiappalone
Non conoscevo la figura e l’opera dello scrittore Mario Praz (1896-1982), saggista, anglista e critico d’arte (e secondo le malelingue persino “iettatore”, ingiusta e infondata etichetta che tuttavia il Nostro lasciava correre per fuggire gli eventi mondani), fino al giorno ormai lontano in cui Giovanni Cantoni (1938-2020) mi consigliò la lettura di Filosofia dell’arredamento. I mutamenti del gusto nella decorazione interna attraverso i secoli, Ugo Guanda Editore, Milano 2012). Un testo che già di suo è una lezione di estetica, nel fascino del volume corredato da un ricco apparato iconografico, e nel linguaggio che prolifera di meravigliosi arcaismi (tali per noi che a forza di semplificare abbiamo perso le “papille gustative” della lingua italiana).
Mi soffermo qui sullo sconcerto che lo colpì quando gli accadde di entrare in casa di un suo «venerato maestro all’Università di Firenze», che «diceva, dalla cattedra, molte cose dotte sulla poesia dei provenzali». «Pendevo dalle sue labbra», confessa Praz, «ma fu un brutto giorno quello in cui varcai la soglia della sua casa». La luminosa figura del cattedratico si spegneva alla vista di «una lampada elettrica chiusa in una gabbietta» e altre brutture («una detestabile oleografia» del tipo «che si ritrovava sovente nelle botteghe dove si vendono i pegni del Monte di Pietà»). Praz non riusciva a spiegarsi «lo squallore, il non necessario o addirittura deliberato squallore in cui vivono, o si adattano a vivere, persone che pur si professano sensibili alle belle arti». Una schizofrenia estetica possibile «soltanto se la sua anima è a compartimenti stagni e possiede zone che il senso estetico non irrora affatto».
Il giudizio di Praz può apparire eccessivo, ma in esso traspare la consapevolezza di una delle mille lacerazioni che colpiscono l’uomo. Prevengo sin da ora il lettore affetto da “sindrome di Marta” (cfr. Lc 10,40 ss.): qui non si tratta di una tavola da sparecchiare, di una giornata difficile o di qualche lavatrice arretrata. E nemmeno di carenza di mezzi (di cui verosimilmente l’accademico non difettava). Praz non parla di fisiologico disordine, ma di «squallore» e di una casa che non esprime la personalità e la cultura di chi vi dimora, anzi esprime il contrario, «come a rivoltare una di quelle figurine […] che da un lato raffigurano una bella donna e a tergo un cadavere verminoso».
Dalla dimora il paragone si può estendere ai più svariati settori, ovunque si annidino quelle zone d’ombra «che il senso estetico non irrora affatto». Per esempio, è il caso di uomini di elevato livello sociale e culturale la cui estetica è meramente funzionale, poiché giudicano il “bello” soltanto in base al criterio del “moderno”. O di religiosi di solida fede e formazione, che però reputano le più sacrali espressioni della liturgia e del proprio ministero come orpelli scomodi e inutili, buoni tutt’al più per la festa del patrono. O di politici usi a frequentare le più auliche sedi istituzionali, che sgomitano per apparire più smart e finiscono solo per sembrare più trash. L’elenco potrebbe continuare fino agli esempi più quotidiani e vicini, nei quali è preferibile non addentrarsi per non incorrere nel rischio di offendere o di ritrovarsi offeso (penserò da solo a rimediare alle “lampade in gabbietta” o ai quadri mediocri che arredano la mia casa).
Alle scissioni solitamente prese in esame dai lettori di questa rubrica (tra fede e ragione, tra ragione e sentimenti, tra libertà e autorità, e così via) potremmo aggiungere anche quella su cui è puntato l’indice di Mario Praz e chiederci se sia possibile amare il vero e il bene trascurando al contempo il bello.
Sabato, 18 febbraio 2023