Di Marco Respinti da La bianca Torre di Ecthelion del 07/02/2019. Foto da articolo
Finalmente anche il 2019 ha avuto, il 5 febbraio, il suo Discorso sullo stato dell’Unione, rimandato più volte per l’inedito protrarsi dello shutdown del governo federale conseguente al braccio di forza tra Casa Bianca e Congresso sulle previsioni di bilancio, e in specie sullo stanziamento di 5,7 miliardi di dollari per il completamento del muro di sbarramento al confine con il Messico che la presidenza vuole e l’opposizione Democratica osteggia.
Nel discorso, Donald J. Trump ha finto di presentarsi con la mano tesa verso l’opposizione, ma in realtà ha ribadito tutti gli elementi di contrapposizione, secondo il cliché di un genere letterario peraltro tipico di ogni Amministrazione statunitense: la proposta della pacificazione nazionale attraverso il riconoscimento dei torti. Da parte, però, di chi i torti li promuove e li pratica.
Muovendosi Trump in ambito Repubblicano, il concetto portante risale al giro mentale di Ronald Reagan (1911-2004): «peace through strenght», «la pace attraverso la forza». Reagan pensava e agiva così ovviamente ben oltre i discorsi sullo stato dell’Unione, ma è solo in questo modo che si capisce anche lo stile adottato oggi da Trump. L’idea, cioè, che il presidente federale ‒ come Trump ha esplicitamente detto ‒ non sia la marionetta di questo o di quel partito, bensì il riferimento di tutti i cittadini e del Paese intero, e che pertanto suo compito primario sia la ricerca della conciliazione e del bene comune, impossibili però finché il male e l’ingiustizia saranno tollerati.
Bene inteso, Barack Obama ha sempre fatto lo stesso, proponendo una propria idea personale di pacificazione nazionale e rimarcando costantemente le differenze nette dall’opposizione allora Repubblicana. E qui finalmente si giunge al punto centrale del discorso.
Affinché la concordia di un Paese sia autentica e non semplicemente un esercizio di buonismo astratto, occorre fare quanto più possibile il bene e impedire quanto più possibile il male. Ovvero l’unità nazionale passa paradossalmente attraverso la divisione: del grano dal loglio, giacché non tutto è discutibile, barattabile e compromissibile.
L’idea di bene comune che Trump ha dunque prospettato agli Stati Uniti, in vista di una vera riconciliazione, passa cioè dalla divisione da ciò che quella pacificazione è in grado di minare pericolosamente. Non tanto la questione del muro al confine con il Messico, su cui Trump si incaponisce soprattutto per irritare i Democratici. Del resto la faccenda ha cominciato a stufare molti, anche fra i Repubblicani, non esattamente tutti convinti che sia proprio quella la madre di tutte le battaglie in cui vale la pena di immolarsi. No, la questione dirimente che Trump ha posto sul tappeto della vera pace sociale è un’altra, e duplice.
Il socialismo
Il primo aspetto è una questione solo apparentemente di politica estera e in verità riguardante la vocazione “militante” che il presidente degli Stati Uniti percepisce essere quella degli Stati Uniti: una questione che non può tollerare né scale di grigio né mezze parole, giacché evoca i princìpi primi su cui deve fondarsi la convivenza umana. «Due settimane fa», ha detto Trump, «gli Stati Uniti hanno riconosciuto ufficialmente il governo legittimo del Venezuela e il suo nuovo presidente ad interim, Juan Guaidó. Noi ci schieriamo con il popolo venezuelano nella sua nobile ricerca della libertà e condanniamo la brutalità del regime di Nicolás Maduro, le cui politiche socialiste hanno trasformato quel Paese dal più ricco dell’America Meridionale che era allo stato di povertà e di disperazione abiette in cui versa oggi». Il socialismo, appunto. Quello che nessuno osa più chiamare per nome, quello che resta una peste anzitutto dello spirito, quello che sta, in riferimento al Venezuela, ponendo l’umanità tutta di fronte a una scelta che né si può rimandare né si può annacquare. Trump lo ha preso per il bavero, il socialismo, perché il nuovo Partito Democratico americano, fatto di esponenti radicali, neo-femministe arrabbiate e attivisti LGBT, ha spostato il proprio baricentro parecchio a sinistra (con diversi soggetti che appunto si definiscono apertamente socialisti) e quel che prospetta per il futuro non è bello. «Qui, negli Stati Uniti», ha affermato Trump, «ci allarmano le uscite a favore del socialismo». Ma «gli Stati Uniti sono fondati sui princìpi di libertà e d’indipendenza, non su quelli della coercizione, del dominio e del controllo da parte dello Stato. Siamo nati liberi, e rimarremo liberi», e «stasera rinnoviamo il nostro impegno a impedire che gli Stati Uniti diventino mai un Paese socialista».
Un Trump fuori di senno, in ritardo sulla storia, un po’ “bevuto”? Niente affatto. Ciò che ha avuto in mente il 5 febbraio era infatti la seconda questione dirimente posta sul tappeto della vera pace sociale: la difesa del diritto alla vita, conseguente proprio all’impegno inderogabile a non diventare mai “di sinistra”.
L’aborto
I commentatori di tutto il mondo stanno annoverando questa uscita fra le “sparate” trumpiane. Qualcuno insinua che sia un’arma di distrazione di massa dai guai della sua Amministrazione. Altri che sia un favore alla sua base elettorale evangelicale. Sarà pure, ma quale è il problema? A migliaia di chilometri di distanza, e tra breve pure ad anni di lontananza storica come ci ricorderanno i libri, rimane e rimarrà un fatto puro e semplice. Il presidente del Paese più potente del mondo ha per la prima volta chiesto espressamente ai due rami all’assemblea legislativa riuniti per ascoltare il bilancio assieme consuntivo e programmatico della nazione di intervenire presto per fermare l’uccisione di milioni di esseri umani ancora nel grembo delle proprie madri. Quale sia stata la causa prossima di questa richiesta è di per sé pochissimo importante. Resta il fatto, clamoroso.
A dividere il Paese non sono cioè i tic personali che Trump ha portato seco alla Casa Bianca (come del resto fa qualunque cittadino degli Stati Uniti venga eletto presidente e pure qualsiasi essere umano ovunque vada), ma il fatto che la Sinistra americana di oggi, cioè i Democratici che si definiscono socialisti e che si candidano a succedergli tra due anni, ponga come pietra miliare del “bene” che vogliono offrire ai cittadini statunitensi l’aborto libero fino al nono mese di gravidanza com’è accaduto nello Stato di New York fra applausi e ovazioni, come prospettano in Virginia e come vorrebbero fare dappertutto, abbattendo ogni limite faticosamente posto da diversi “buoni” americani, tra cui Trump, alla soppressione della vita umana nascente. È di questo che Trump vuole parlare, ed è su questo, magari pure se su altro no, che i Repubblicani e i conservatori lo seguiranno di qui al 3 novembre 2020.
«Che si possa lavorare assieme», ha augurato Trump al proprio Paese parlando al mondo, «per costruire una cultura che onori la vita innocente. E riaffermiamo qui pure una verità fondamentale: tuti i bambini ‒ nati e non nati ‒ sono creati a immagine santa di Dio».