Nota del 1° aprile 2020
In questo drammatico momento in cui la sanità è messa in grande difficoltà riproponiamo un illuminante studio del prof. Ermanno Pavesi pubblicato su Cristianità 14 anni fa.
Ermanno Pavesi, Cristianità n. 333 (2006)
Concezione della malattia e assistenza sanitaria in Occidente in prospettiva storica
1. Crisi della medicina moderna
La medicina e l’assistenza sanitaria hanno fatto grandi progressi negli ultimi secoli, ottenendo risultati sorprendenti nella prevenzione e nella cura di molte malattie. Non mancano però elementi di crisi, dalla comparsa di nuove patologie, che sembrano vanificare i successi ottenuti, al problema dei costi, e non ultimo alle questioni etiche. La concezione della medicina e dell’assistenza sanitaria nella società occidentale rivela ancora le sue origini legate al cristianesimo, ma manifesta pure contraddizioni dovute all’avanzare del processo di secolarizzazione.
L’originalità della concezione cristiana della malattia e dell’assistenza è dimostrata, per esempio, dall’importanza attribuita all’assistenza sanitaria nell’ambito dell’attività missionaria, con l’organizzazione di ambulatori medici o di ospedali non solo a contatto con civiltà cosiddette primitive, ma anche in quelle con una grande tradizione. Basti pensare alle differenze nella concezione della morte e dell’assistenza ai moribondi esistente fra una cultura, per altri aspetti così sviluppata, come quella indiana e quella cristiana, il che consente di capire la novità costituita a Calcutta, in India, dall’opera di Madre Teresa, la suora albanese Gonxha Agnes Bojaxhiu (1910-1997) beatificata il 19 ottobre 2003. Il raffronto fra l’azione assistenziale della religiosa e certe campagne di sterilizzazione della popolazione condotte in India consente di apprezzare come anche paesi non occidentali sono diventati teatro del confronto e dello scontro fra concezioni completamente diverse dell’uomo, della malattia e dell’intervento sanitario.
La descrizione dell’influenza del cristianesimo sullo sviluppo della concezione medica in Occidente può contribuire a mettere meglio a fuoco questi problemi.
2. La concezione della malattia nell’antichità
La portata del contributo del cristianesimo diventa più evidente se si esamina come esso ha modificato concezioni anteriori.
Non mancano reperti preistorici che in certi casi forniscono indicazioni interessanti su malattie e su terapie del tempo, ma questi documenti non sono tali da consentire la ricostruzione completa delle concezioni mediche preistoriche.
Per quanto riguarda la nostra area culturale le concezioni mediche più antiche, a noi sufficientemente note, sono l’ebraica, la greca e la romana.
La concezione ebraica antica interpreta la malattia come manifestazione visibile di una trasgressione della Legge ed è strettamente legata alla concezione del peccato (1). “Nel vocabolario dell’Antico Testamento il rapporto fra sofferenza e male si pone in evidenza come identità. Quel vocabolario, infatti, non possedeva una parola specifica per indicare la “sofferenza”; perciò, definiva come “male” tutto ciò che era sofferenza” (2). La sofferenza viene intesa come pena inflitta da Dio all’uomo per i suoi peccati e il suo significato è legato all’ordine morale e alla giustizia: “Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: “Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo” [2 Mach. 6, 12]“ (3).
Questa concezione porta a una valutazione morale della malattia, soprattutto di quella grave e cronica: se la malattia viene intesa come un segnale dell’infrazione della Legge, chi ne è colpito deve modificare il proprio comportamento. Gravità e cronicità di una malattia testimonierebbero che il malato è un peccatore impenitente, che non ha reagito a questi segnali, e che continua a vivere in una condizione di conflitto con il Signore. L’episodio biblico di Giobbe è molto istruttivo al riguardo: Giobbe non riesce a darsi ragione delle sofferenze che affliggono proprio lui, rispettoso della legge del Signore.
La cultura della Grecia antica ha prestato una grande attenzione alla natura, in cui ha cercato di riconoscere un ordine armonico, considerando l’universo come cosmo. Scopo della vita umana è quello di vivere in armonia con le leggi del cosmo, cosa non sempre facile in quanto è difficile superare le divergenze fra la natura, physis, da una parte, e la cultura, le abitudini e le leggi umane, nomoi, dall’altra. Tale contrapposizione influenza anche il pensiero medico. Negli scritti attribuiti al medico greco Ippocrate di Cos (460 ca.-370 ca. a.C.) si legge: “L’uso degli uomini [nomos] infatti e la natura in base ai quali tutto noi facciamo non concordano pur concordando; l’uso l’hanno stabilito gli uomini per loro stessi senza conoscere ciò che esso riguardava, mentre sono stati gli dèi a ordinare la natura di ogni cosa. Pertanto ciò che gli uomini hanno stabilito non è mai duraturo, né in bene né in male, mentre quanto stabilirono gli dèi è sempre bene” (4). Tanto nella natura quanto nell’uomo è insito un ordine: “Tutte le cose, l’anima dell’uomo e, come l’anima, il corpo posseggono un dato ordine” (5). La salute dell’uomo dipende da una condotta di vita in sintonia con la natura: “Se infatti fosse possibile stabilire […] un rapporto tra alimentazione ed esercizi che fosse numericamente proporzionato alla natura di ognuno senza eccedere né in più né in meno, si sarebbe individuata con estrema precisione la salute per gli uomini” (6). Ma anche se l’uomo non è in grado di conoscere fino in fondo la natura delle cose, in quanto non sa “[…] osservare le cose invisibili partendo dalle visibili” (7), è necessario cercare di elaborare una sana condotta di vita, in armonia con l’ordine naturale e con il cosmo. Secondo una massima di Ippocrate “[…] la medicina si articolerebbe sostanzialmente in dietetica (diaetetica), farmacologia (pharmaceutica) e chirurgia (chirurgia). La dietetica si occupa dei sani e serve a impostare un regime di vita. Suo compito è quello di preservare la salute del corpo e garantire l’osservanza delle leggi vitali attraverso una vita regolata” (8). Al primo posto viene quindi la dietetica, termine che nella medicina classica ha un’accezione più ampia che nell’uso moderno: essa indica non solo una limitazione nel regime alimentare, ma tutta la condotta di vita, che — almeno a partire dal medico e filosofo greco Claudio Galeno (129-200 ca.) di Pergamo — viene distinta in sei ambiti, le cosiddette res non naturales (9): 1. luce e aria; 2. cibi e bevande; 3. moto e quiete; 4. sonno e veglia; 5. escrezioni e secrezioni; e 6. accidenti d’animo.
La malattia viene quindi considerata come manifestazione di una vita sregolata, e lo storico della medicina spagnolo Pedro Laín Entralgo (1908-2001) ha sottolineato che anche i termini “puro” e “impuro” venivano utilizzati tanto nel linguaggio medico quanto in quello religioso (10). La malattia è una forma d’impurità, prodotta da un comportamento innaturale, che non ha rispettato la natura delle cose, data dagli dèi.
Nonostante le chiare differenze, le concezioni greca ed ebraica presentano elementi comuni: per esempio, ambedue considerano la malattia come conseguenza della trasgressione di un ordine o di una legge. Mentre la cultura greca interpreta quest’ordine in modo naturalistico, la cultura ebraica considera la legge come dettata da un Dio personale, il che comporta una relazione personale dell’uomo, e del malato, con Dio. Entrambe queste concezioni possono portare a una valutazione morale della malattia in quanto il malato viene considerato colpevole della trasgressione di una legge.
Si deve ricordare che il mondo antico precristiano non ha conosciuto istituzioni paragonabili all’ospedale. Questo è tanto più sorprendente se si tiene conto, per esempio, dello sviluppo e del livello dei servizi pubblici in alcune metropoli dell’antichità. “Gli sforzi appassionati degli studiosi della civiltà ellenica e gli approfonditi studi degli umanisti con formazione classica non sono riusciti a portare alla luce, nonostante tutti i loro sforzi, qualche cosa che possa essere paragonato propriamente a un ospedale. Non vi erano ospedali né a Sparta né ad Atene. E anche in grandi città come Alessandria o Roma non furono mai fondati ospedali” (11).
Nel mondo greco alcuni santuari dedicati a divinità taumaturghe erano luoghi di pellegrinaggio per ammalati e nelle loro adiacenze esistevano alloggi per i pellegrini, ma non si trattava di stabilimenti sanitari. Negli accampamenti delle legioni romane esisteva il cosiddetto valetudinarium, un’infermeria militare. Un valetudinarium si trovava, per esempio, a Vindonissa — l’attuale Windisch, nel cantone elvetico di Argovia —, inserito in un accampamento in cui, nel corso del tempo, stazionarono la XIII, la XXI e la XI legione (12). Nonostante alcune caratteristiche comuni, il valetudinarium svolgeva una funzione particolare, diversa da quella dell’ospedale attuale, in quanto serviva all’assistenza di soldati ammalati e feriti, che si trovavano lontano dalle loro case e che, quindi, non potevano neppure essere rimpatriati.
3. La svolta cristiana
Il cristianesimo ha modificato profondamente l’atteggiamento antico nei confronti della malattia. Questo cambiamento è espresso chiaramente in alcuni passi del Nuovo Testamento, soprattutto nell’episodio che narra la guarigione dell’uomo nato cieco: “Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”” (Gv. 9, 1-3).
La domanda posta dai discepoli è tipica della mentalità dell’Antico Testamento: se vi è una malattia grave è chiaro che questa è la conseguenza di una colpa e si deve solo stabilire se si tratta di una colpa dell’interessato o dei suoi genitori. La risposta di Gesù modifica questa prospettiva: la malattia non è sempre dovuta a una colpa umana individuale. Ciò ha portato, con il tempo, anche a un cambiamento dell’atteggiamento nei confronti dell’ammalato. La malattia non è stata più considerata come una colpa, che poteva portare a un giudizio morale sull’ammalato e quindi anche al suo isolamento e alla sua esclusione, ma essa diventa un elemento costitutivo dell’esistenza umana, espressione della sua fragilità nella condizione terrena, un evento che può toccare chiunque indipendentemente dal suo comportamento e che, quindi, deve suscitare non esclusione dalla comunità, ma un atteggiamento di carità e di solidarietà da parte di quanti hanno avuto la ventura di esserne risparmiati.
4. La nascita dell’ospedale
Fin dalle origini il cristianesimo è stato caratterizzato da una particolare attenzione per le opere di carità e per l’assistenza agli ammalati, a cui erano chiamati tutti i fedeli, ma che era pure istituzionalizzata nella figura del diacono.
Proprio la pratica della carità ha dato caratteri nuovi all’assistenza agli ammalati. “Il cristianesimo trasforma la medicina classica, ma non nella dottrina e nella sua applicazione pratica, che rispetta e conserva indisturbata, ma nello spirito caritativo dal quale la medicina, arte diretta al bene del prossimo, deve essere animata.
“La medicina classica non possedeva affatto questo spirito che solo il cristianesimo potè infonderle. Con il monito evangelico della parabola del “Buon samaritano” essa diventa un mezzo per mettere in pratica una delle virtù caratteristiche della nuova religione: la carità e l’amore del prossimo. Si ha così il sorgere della “medicina sociale” con la istituzione di ospedali, ospizi, e di soccorsi per chiunque ne avesse necessità” (13).
Anche Laín Entralgo considera questa disponibilità ad assistere chiunque e a trattare tutti come “prossimo” la novità cristiana: “Riguardo all’assistenza medica non vi è differenza fra greci e barbari, né fra liberi e schiavi. Per esemplificare questa novità, nulla è più eloquente delle parole con cui Giuliano l’Apostata [331-363] elogia la maniera cristiana di assistere i malati e cerca d’incorporarla nel suo progetto di neopaganesimo: “Guardiamo quello che fa così forte i nemici degli dèi: la loro filantropia verso gli stranieri e i poveri… è vergognoso (per noialtri) che i galilei non esercitino la loro misericordia soltanto con i propri eguali nella fede, ma anche con i servitori degli dèi”” (14).
Nel secolo IV l’assistenza agli ammalati assume una forma più complessa; non è più solo il diacono ad assistere gli ammalati e i bisognosi in genere della sua comunità, ma è il vescovo che, nella sua diocesi, assume l’onere dell’assistenza.
Il primo ospedale di cui si abbia notizia certa è quello fondato nel 370 da san Basilio il Grande (330 ca.-379), vescovo di Cesarea, in Cappadocia, oggi Kayseri in Turchia. Negli anni seguenti, sempre in Turchia, vengono fondati altri ospedali a Sebaste, a Edessa, nel 375, ad Antiochia, prima del 398, e più tardi a Efeso, nel 451 (15). Nei secoli successivi nascono istituti analoghi anche in Occidente: i vescovi fondano istituzioni per assistere infermi, bisognosi e stranieri, chiamate xenodochion, “ospizio per gli stranieri”, e domus dei, “casa di Dio”, denominazione che si è conservata nel termine francese Hôtel-Dieu, che in alcune città designa ancor oggi l’ospedale principale. Queste istituzioni sorgevano, a seconda dei casi, fuori città, in vicinanza delle principali vie di comunicazione, per consentire il controllo sanitario di chi voleva entrare in città, oppure nella città stessa. Quando il ricovero si trovava in città, questo poteva essere integrato in un complesso costituito dalla cattedrale e dall’abitazione del vescovo e dei canonici. Questo fatto rende ancor più evidente la svolta radicale nella concezione della malattia operata dal cristianesimo: la malattia non è più motivo di esclusione, ma il malato viene ospitato nella domus dei e talvolta viene addirittura accolto dal vescovo sotto il proprio tetto. E l’ospedale, in quanto tale, infonde rispetto: “Dalle sue origini l’ospedale fu anche un “luogo venerabile” dal punto di vista morale e un “luogo religioso” e quindi sacralizzato sul piano sociale e istituzionale” (16).
Un testo ha avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo dell’assistenza sanitaria in Occidente: si tratta del capitolo XXXVI della Regola di san Benedetto da Norcia (480 ca.-547 ca.), dedicato all’assistenza da prestare ai fratelli infermi. “L’assistenza agli infermi va posta prima e sopra ogni cosa; essi vanno serviti veramente come se fossero Cristo in persona, poiché egli ha detto di sé: “Ero malato e mi avete visitato” [Mt. 25, 36], e “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” [Mt. 25, 40]. Da parte sua chi è ammalato consideri che viene servito per onore a Dio, e non spazientisca con pretese eccessive i confratelli che lo assistono; gli infermi, tuttavia, devono essere sopportati pazientemente, poiché per mezzo loro si acquista una più grande ricompensa. L’abate presti dunque la più grande attenzione perché gli infermi non siano in alcun modo trascurati.
“Ai fratelli malati venga riservato un locale a parte e assegnato un inserviente timorato di Dio che sia diligente e premuroso. Sia loro concesso di prendere un bagno tutte le volte che sarà necessario; ai sani, invece, e specialmente ai giovani, lo si conceda più raramente. Ai più debilitati si conceda inoltre di mangiare carne, perché possano riprendersi; ma una volta ristabiliti, tutti, come al solito, si astengano dalle carni. L’abate presti la più grande attenzione perché gli ammalati non vengano trascurati dai cellari o dagli inservienti. Ogni negligenza commessa dai suoi discepoli ricadrà su di lui” (17).
Si tratta di poche frasi, ma che stanno alla base dello sviluppo della medicina monastica, che per secoli ha rappresentato la forma più completa di assistenza sanitaria. La regola prevede infatti monaci adibiti all’assistenza, locali speciali per la degenza e una dieta particolare. Per assolvere questi compiti i monaci non solo si dedicano alla copiatura e allo studio degli antichi trattati di medicina, ma coltivano erbe medicinali, organizzano erboristerie e farmacie nei monasteri. Si può ricordare, per esempio, come nel progetto dell’abbazia benedettina di San Gallo, nell’omonimo cantone elvetico, che non è mai stata completamente realizzata, ma che è servita da modello per altre abbazie, siano previsti alcuni edifici per ospitare ammalati da curare e tutte le infrastrutture necessarie: la biblioteca, l’orto con le piante medicinali, la farmacia, la cucina separata dalla cucina principale dell’abbazia.
Non è possibile seguire nei dettagli gli ulteriori sviluppi storici della medicina nell’Occidente cristiano; infatti, per secoli la storia della medicina è strettamente legata a quella del cristianesimo: Concili prendono importanti decisioni in campo sanitario, per esempio il Concilio di Orléans del 549 prescrive ai vescovi di prendere a proprio carico i lebbrosi (18).
Nel tardo Medioevo, quando scoppiano le grandi epidemie, vengono fondati ordini monastici particolari, come l’Ordine di San Lazzaro, impegnato nella cura dei lebbrosi, o l’Ordine Ospedaliero dei Canonici Regolari di Sant’Agostino e di Sant’Antonio Abate, detto degli Antoniani, per le persone affette dal fuoco di Sant’Antonio (19).
A partire dall’anno 1000, con il fiorire delle città, ai monasteri si affiancano nuove istituzioni: nascono scuole mediche laiche, che ben presto assurgono a dignità accademica e vengono incorporate nelle università. “Nel primo Medioevo gli istituti didattici prendono il nome di scholae (publicae) e nel ’200 di studium generale o universale. Il termine Universitas designa inizialmente soltanto la corporazione degli scolari e appena verso la fine del ’300 comprende in via definitiva il complesso delle diverse discipline o facoltà” (20). I cittadini cominciano a preoccuparsi dell’assistenza degli ammalati e sorgono così i primi, spesso molto semplici, ospedali civili.
L’immagine corrente della medicina medioevale è spesso offuscata da pregiudizi, che la identificano con pratiche superstiziose e di magia popolare sopravvissute anche in ambiente cristiano e, successivamente, all’influenza di concezioni di origine araba. Si tratta di pregiudizi che non vengono confermati dalle conoscenze sulla medicina ufficiale e sulla letteratura medica medioevale, come sostiene lo storico tedesco della medicina Heinrich Schipperges: “Contrariamente a quanto affermano i nostri manuali e libri di testo, occorre però qui sottolineare la scarsità di elementi magici, taumaturgici o demonologici all’interno della letteratura medievale. Il fatto è tanto più sorprendente se si considera l’ampio patrimonio di speculazioni numerologiche, scongiuri, sapere astrologico e alchimistico che, ereditato dal Basso Impero, rifluisce a partire dal XIII e XIV secolo nel mondo occidentale arricchito della mediazione araba” (21).
L’importanza della magia, dell’astrologia e dell’alchimia cresce durante il Rinascimento con conseguenze per la concezione dell’uomo e della malattia (22) e taluni ritengono che la conoscenza della natura — e dei suoi arcani — possa consentire di raggiungere la salute assoluta. È il mito della pietra filosofale e della panacea universale: “Il lapis philosophorum dovrebbe essere anche la grande panacea contro tutte le malattie” (23).
5. Illuminismo e Rivoluzione Francese
Una svolta nella concezione della malattia e dell’assistenza medica avviene a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, con l’affermarsi di una concezione più filosofica — in senso moderno — o più ispirata al metodo scientifico. Questa svolta è stata influenzata, per esempio, dalle concezioni del pensatore svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che sogna una società primitiva ancora immune da mali sociali e da malattie. La malattia, o più in generale la sofferenza individuale, viene considerata come prodotto di un’ingiustizia sociale, la salute diventa un problema socio-politico e compare qui, anche se in forma ancora implicita, il concetto di “diritto alla salute”, inteso in senso più radicale, cioè non solo come diritto dell’individuo al rispetto della propria integrità fisica, ma anche come diritto del singolo a vivere sano e senza malattia, come se la malattia dipendesse unicamente da un’ingiustizia sociale e come se un adeguato impegno della società e del potere politico potesse garantire buone condizioni di salute per tutti.
“Gli anni che precedono e seguono immediatamente la Rivoluzione [Francese] hanno visto nascere due grandi miti, i cui temi e le cui polarità sono opposti; il mito d’una professione medica nazionalizzata, organizzata sul modello del clero, ed investita, a livello della salute e del corpo, di poteri simili a quelli ch’esso esercita sulle anime; il mito di una totale scomparsa della malattia in una società senza turbamenti e senza passioni, restituita alla sua salute originaria” (24).
Un esponente della Gironda, François Xavier de Lanthenas (1754-1799), scriveva nel 1792: “Chi dunque dovrà denunciare al genere umano i tiranni se non i medici che fanno dell’uomo il loro unico studio e che tutti i giorni, presso il povero ed il ricco, presso il cittadino ed il potente, nella capanna e nel palazzo, contemplano le umane miserie che non hanno altra origine che la tirannia e la schiavitù?” (25).
Questo nuovo atteggiamento può essere esemplificato da un episodio riferito dallo storico francese Jean Imbert: dopo aver letto l’iscrizione “Casa destinata ad alleviare le sofferenze dell’umanità” posta all’entrata di un ospedale, un commissario rivoluzionario si sarebbe rivolto in questi termini agli amministratori dell’istituzione: “Deve forse esserci una parte qualunque dell’umanità in stato di sofferenza? … Ponete dunque al di sopra delle porte di questi asili scritte che annuncino la loro prossima scomparsa. Poiché se, finita la Rivoluzione, avremo ancora fra noi degli infelici, le nostre fatiche rivoluzionarie saranno state vane” (26).
Durante la Rivoluzione Francese si realizza una trasformazione dell’assistenza sanitaria: vi sono politici, come François-Alexandre-Frédéric, duca di La Rochefoucauld-Liancourt (1747-1827), che privilegiano l’assistenza domiciliare a scapito di quella ospedaliera (27); queste idee vengono adottate in diverse leggi, come quelle del 19 marzo e del 28 giugno 1793, che promuovono l’assistenza domiciliare (28). Il nome stesso di Hôtel-Dieu, e addirittura quello di ospedale, sono considerati offensivi, ripugnanti e avvilenti, per cui vengono sostituiti dal termine “ospizio”: per esempio, l’Hôtel-Dieu di Parigi diventa il Grand Hospice d’Humanitè (29).
Nell’agosto del 1792 viene decretata la secolarizzazione degli ordini ospedalieri, che erano stati risparmiati dalla secolarizzazione degli altri ordini religiosi, voluta da una legge dell’agosto del 1791 (30). La legge del 23 messidoro 1794 nazionalizza, poi, i beni degl’istituti ospedalieri e di beneficenza, privandoli dei mezzi necessari alla loro esistenza.
Nell’estate del 1794 il processo rivoluzionario ha ormai raggiunto il suo apice: “Quando si giunge a Termidoro, i beni degli ospedali sono nazionalizzati, le corporazioni proibite, le società ed accademie abolite; l’università, con le facoltà e le scuole di medicina, non esiste più; ma i convenzionali non hanno avuto agio di mettere in opera una politica d’assistenza di cui hanno ammesso il principio, né di stabilire dei limiti al libero esercizio della medicina, né di definire le competenze che gli sono necessarie, né di fissare infine le forme del suo insegnamento” (31).
6. Verso l’utopia della salute perfetta
Alla fine del secolo XVIII si possono identificare altre importanti correnti all’interno della medicina, per esempio quella del medico tedesco Franz Anton Mesmer (1734-1815) (32). Mesmer era convinto dell’esistenza di un fluido universale, da lui chiamato “magnetismo animale”, presente in tutto l’universo e quindi anche nel corpo umano. Proprio un disturbo della distribuzione del fluido all’interno del corpo umano sarebbe stato, per Mesmer, responsabile di tutte le malattie. Per mezzo di una particolare tecnica, la magnetizzazione, sarebbe stato possibile riequilibrare la circolazione del fluido e quindi curare ogni malattia. In una Memoria sulla scoperta del magnetismo Mesmer enuncia la sua dottrina in 27 punti: negli ultimi viene ricordata “l’utilità universale” (33) della sua scoperta, che consentirebbe al medico di “[…] trovare sicuramente l’origine, la natura e i progressi delle malattie, anche delle più complicate; ne impedirà l’aggravamento e arriverà alla loro guarigione” (34) e si sostiene che “l’arte di guarire arriverà così alla sua perfezione ultima” (35).
Anche in Mesmer, quindi, si trova la convinzione non tanto di aver trovato un nuovo rimedio, ma il rimedio, di aver portato la medicina alla sua “perfezione ultima”. Queste concezioni, tanto di Mesmer quanto di altri autori, costituiscono quella che storici della medicina hanno definito “utopia della salute perfetta”, cioè la convinzione di poter curare non solo qualche malattia, ma di eliminare definitivamente ogni malattia e quindi di risolvere una volta per tutte il problema della sofferenza. È il mito della trasformazione radicale dell’uomo, della creazione di un’umanità nuova, non più soggetta alla caducità dell’esistenza terrena, e della restaurazione della condizione primordiale dell’uomo (36).
La radicalità delle tesi sostenute durante la Rivoluzione Francese evidenzia la differenza sostanziale rispetto alla concezione cristiana. Nella visione cristiana le malattie potevano dipendere in alcuni casi dal comportamento del singolo o da fattori sociali, ma il problema della malattia in sé è intimamente legato all’esistenza umana e alla sua caducità post peccatum, perciò la malattia non può essere eliminata completamente, e richiede quindi la solidarietà di tutti, la caritas. Le ideologie moderne rifiutano la concezione cristiana, ritengono che la malattia sia il prodotto di situazioni umane che è possibile modificare. In questa prospettiva viene attribuita alla concezione cristiana della malattia addirittura una funzione negativa, in quanto giustificherebbe non solo le malattie, ma potrebbe addirittura far passare in secondo piano, se non trascurare del tutto, la ricerca e la successiva eliminazione delle condizioni che sono responsabili delle malattie.
7. Darwinismo sociale
Una delle critiche più radicali alla concezione cristiana, alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX, è rappresentata dal darwinismo sociale.
Seconda la teoria proposta dal naturalista inglese Charles Robert Darwin (1809-1882) l’evoluzione delle specie si è attuata e continua ad attuarsi per mezzo di mutazione e di selezione: per mezzo delle mutazioni la molteplicità delle specie si arricchirebbe continuamente di nuove forme e la lotta per l’esistenza consentirebbe l’affermazione dei mutanti più idonei e la scomparsa delle specie meno adatte. Un fattore importante sarebbe quindi la lotta per l’esistenza.
Diversi autori, fra i quali il biologo Ernst Heinrich Haeckel (1834-1919), che ha contribuito alla diffusione del darwinismo nei paesi di lingua tedesca, ritengono che le leggi fondamentali dell’evoluzione valgano anche per la specie umana. Questo approccio biologico non si limita a considerare l’uomo come prodotto dell’evoluzione, ma interpreta anche la storia dell’umanità come una prosecuzione della storia naturale e quindi dell’evoluzione. Le leggi dell’evoluzione non avrebbero perso la loro validità o la loro importanza nel momento dell’ominizzazione, anzi proprio tali leggi dovrebbero consentire di comprendere meglio le ragioni del fiorire o del declino delle civiltà e delle nazioni.
In altri termini, il darwinismo sociale ritiene che gruppi umani, non diversamente dagli altri esseri viventi, si affermano se presentano un adattamento migliore alle condizioni, il che comporta una selezione. I socialdarwinisti erano convinti che società ispirate a princìpi diversi o in contrasto con le leggi dell’evoluzione, e soprattutto con la lotta per l’esistenza, fossero destinate alla decadenza, perciò sembrava necessario, per la salvezza di una nazione, combattere princìpi come quelli rappresentati dal cristianesimo. Nasce quindi il conflitto fra la solidarietà, la carità, l’assistenza al debole e all’infermo e la selezione con l’eliminazione degl’individui meno dotati e meno adatti. I successi della medicina sembravano quindi eliminare, o almeno ridurre, la selezione prodotta dalle malattie. Per controbilanciare questi effetti viene sviluppata un’igiene razziale che cerca d’impedire la riproduzione d’individui con caratteristiche indesiderate o vengono presi provvedimenti di eugenetica oppure di eutanasia.
8. Le correnti dell’ideologia medica contemporanea: biologica, psicologica e sociale
La medicina contemporanea presenta tre approcci principali al problema della malattia:
a. una corrente biologica, che considera la malattia unicamente come un difetto o un danno biologico che dev’essere studiato con il metodo delle scienze naturali, nella convinzione che la ricerca scientifica, in un futuro piú o meno lontano, possa accertare le cause delle malattie e sviluppare terapie adeguate;
b. una corrente psicologica, che pone in primo piano l’attività psichica e che considera i disturbi psichici e psicosomatici come il prodotto di uno sviluppo psichico patologico. Secondo la psicoanalisi sarebbero certe condizioni all’interno della famiglia e i valori morali di una società a impedire uno sviluppo armonico della personalità. Una terapia psicoanalitica consentirebbe di eliminare le cause dei conflitti all’interno dell’uomo. La psicoanalisi è molto sicura delle proprie possibilità: la guarigione è garantita a patto che l’interessato s’impegni sinceramente nell’analisi. La mancata guarigione viene spiegata normalmente non con l’inadeguatezza del metodo, ma con la mancata volontà dell’interessato a guarire o con il suo interesse personale a restare ammalato;
c. una corrente sociopolitica, secondo cui la malattia sarebbe il prodotto di contraddizioni sociali. La medicina e la psichiatria dovrebbero denunciare tali condizioni patogene e aiutare a eliminarle. La malattia non sarebbe quindi un evento ineluttabile, ma dimostrerebbe solamente l’esistenza di contraddizioni sociali e la mancata volontà politica di risolverle, in quanto un adeguato impegno potrebbe eliminare tanto le contraddizioni sociali, quanto le malattie che ne derivano.
Questi tre approcci al problema della malattia sono di per sé legittimi: vi sono infatti malattie che hanno origine in una disfunzione biologica, altre che dipendono da fattori psichici, altre ancora che sono causate da problemi sociopolitici. È sbagliato però sostenere la validità assoluta di ognuna di queste teorie a scapito delle altre nella presunzione di poter eliminare definitivamente ogni malattia e di arrivare quindi a una condizione di salute perfetta. In questi casi l’approccio di un certo tipo diventa ideologia.
L’approccio biologico concentra la sua attenzione su processi patologici e perde di vista tanto l’ammalato come persona quanto il contesto sociale e familiare. La malattia viene considerata quasi come un guasto meccanico che dev’essere riparato dallo specialista. Uno dei rischi insiti in questo tipo di approccio è che l’assistenza sanitaria non prenda in considerazione le esigenze dell’uomo, che si disumanizzi, non tenendo conto che in ogni caso fattori personali sono sempre di estrema importanza. Per esempio, anche nel caso di operazioni complicate e altamente specializzate, il decorso post-operatorio, e quindi in definitiva il successo dell’operazione, non dipende unicamente dalla perizia del chirurgo, ma pure dalla motivazione del malato a impegnarsi nella riabilitazione e quindi anche dal modo in cui l’équipe terapeutica riesce a suscitare e a incoraggiare tale motivazione. Manipolazione e ingegneria genetica, così come la diagnosi genetica prenatale, possono degenerare in impostazione unicamente tecnica e biologica del problema della malattia.
L’approccio psicologico può trascurare tanto gli aspetti somatici di una malattia quanto quelli sociali, non tenendo in debito conto né le malattie organiche né la dimensione sociale dei disturbi.
L’approccio sociopolitico può portare a una relativizzazione delle altre forme di terapia. Un esempio molto illuminante degli effetti di questo approccio è stato fornito dall’applicazione della legge n. 180 del 1978, che ha riformato l’assistenza psichiatrica nella Repubblica Italiana, in cui la lettura unicamente politica della malattia mentale ha visto in altre moderne forme di terapia solo uno strumento che avrebbe consentito alla classe al potere di mantenere la condizione di sfruttamento all’origine della malattia stessa (37).
Queste concezioni hanno contribuito a dare un’accezione particolare al concetto di “diritto alla salute”. Si tratta di un concetto senz’altro legittimo se si riferisce alla richiesta che il potere pubblico eserciti una efficiente funzione di controllo sulla salute dei cittadini e intervenga per regolare fattori che possono esser fonte di malattia, dall’inquinamento ambientale alle sofisticazioni alimentari, dalle condizioni nell’ambiente di lavoro a provvedimenti nei confronti di malattie infettive, o se si riferisce alla possibilità per il cittadino di poter usufruire di un’assistenza sanitaria efficiente e non burocratizzata. Al proposito si deve tener conto che anche il sistema sanitario meglio organizzato può, al massimo, mettere a disposizione i ritrovati più moderni della medicina, ma non può garantire la guarigione. Si cade in una concezione utopistica della salute se si pretende che il “diritto alla salute” significhi che lo Stato debba garantire l’assoluta immunità da ogni malattia ed eventualmente la guarigione sicura. Perciò la mancata guarigione o un decorso sfavorevole della malattia vengono considerati come lesione di un diritto e come incapacità e inefficienza dello Stato o del sistema sanitario.
Negli ultimi anni è stato sviluppato il modello bio-psico-sociale come integrazione dei tre approcci descritti. Pur presentando vantaggi, questo modello presenta pure limiti: in particolare non tiene conto della dimensione più importante nell’uomo, quella personale.
9. Il modello spiritualistico e le “religioni di guarigione”
Per completezza si deve ricordare, oltre ai tre approcci accennati, quello spiritualistico, secondo cui una malattia dipende da una mancanza di natura spirituale e la guarigione può essere ottenuta solamente con un progresso sulla via della realizzazione spirituale, paragonabile spesso al concetto di redenzione. Il modello spiritualistico tende a dare una valutazione negativa della medicina ufficiale, rispetto alla quale pretende di essere alternativo. Infatti, se la guarigione è possibile solo come effetto della redenzione, il ministro del culto diventa automaticamente guaritore. Per i gruppi religiosi, che attribuiscono un ruolo centrale alla guarigione e che si propongono come alternativa alla medicina ufficiale, è stata proposta la denominazione di “religioni di guarigione” (38).
Un esempio è offerto dalla Christian Science, la “Scienza cristiana”, movimento fondato nel secolo XIX dalla statunitense Mary Baker Eddy (1821-1910), che considera malattia e mali come illusioni, e si propone di “[…] dissiparli e farli svanire attraverso il potere della Verità (che è Dio) e la persuasione della loro non realtà. La cura delle malattie da parte del “practitioner” scientista cristiano “dimostra” il potere della verità e la fondamentale non realtà della materia (e quindi della stessa malattia)”” (39).
Sociologi della religione hanno messo in evidenza come il successo di questi movimenti possa essere spiegato con l’esigenza d’inquadrare la malattia e la sofferenza in una dimensione spirituale, occupando uno spazio lasciato vuoto da una medicina sempre più spersonalizzata e dalle grandi religioni occidentali.
10. Conclusione
Il cristianesimo ha superato la prospettiva antica che, collegando direttamente la malattia al problema della colpa, la interpretava inevitabilmente ed esclusivamente in senso morale.
L’atteggiamento di solidarietà ispirato dal messaggio evangelico ha dato, nel corso dei secoli, un contributo essenziale allo sviluppo dell’assistenza al malato. Ospedali e ambulatori gestiti da istituzioni e da ordini religiosi rappresentano, nel loro complesso, l’organizzazione sanitaria più importante del pianeta, che non offre solamente terapie adeguate a chi può sperare nella guarigione, ma anche a chi non ha più speranza.
La progressiva secolarizzazione ha riportato in auge la concezione precristiana, colpevolizzando talvolta in modo ingiusto il paziente, i parenti, la società o il sistema sanitario. Perseguendo obiettivi utopici la medicina può manifestare la sua hybris nell’accanimento terapeutico e contribuendo a far lievitare i costi della sanità. Ma soprattutto viene a mancare quell’atteggiamento di fondo di solidarietà nei confronti degli ammalati più bisognosi, cioè di quelli cronici e incurabili.
“Noi tutti sappiamo fin troppo bene di condividere totalmente con il malato questa realtà, diventata fatale per l’uomo malato. La sofferenza è un continuo appello a non identificarci unicamente con la componente biologica della nostra esistenza, ma a trascendere la nostra vita, a trascendere in un altro attorno a noi, in un altro di fronte a noi che soffre con noi, in un sistema di riferimento superiore e assoluto, che alla fine dà senso a ogni sofferenza” (40).
Ermanno Pavesi
Note:
* Studio, riveduto e integrato, comparso con lo stesso titolo, in Acta Medica Catholica Helvetica. Bollettino dell’Associazione Medici Cattolici Svizzeri, anno III, n. 1, Friborgo 20-4-2001, pp. 10-21 (trad. tedesca Was ist Krankheit. Geschichte des Krankenhauses. in factum. Fakten und Analysen zurm Verständnis unserer Zeit [factum. Fatti e analisi per comprendere il nostro tempo], n. 10, Berneck SG ottobre 1995, pp. 16-21; trad. croata Pogled na bolest i zdravstvenu skrb na Zapadu. Povijesni osvrt, in Glasnik Hrvatskoga katolickoga lijecnickog društva [Rivista dell’associazione medici cattolici croati], anno XIV, n. 4, Zagabria 2004, pp. 7-15).
(1) Cfr. Diego Gracia-Guillén, Diaita im frühen Christentum [La dieta nel cristianesimo antico], in Hubert Tellenbach (1914-1994) (a cura di), Psychiatrische Therapie heute. Antike Diaita und moderne Therapie [Terapia psichiatrica oggi. Dieta antica e terapia moderna], Enke, Stoccarda 1982, pp 12-30.
(2) Giovanni Paolo II (1978-2005), Lettera Apostolica “Salvifici doloris” sul senso cristiano della sofferenza umana, dell’11-2-1984, n. 7.
(3) Ibid., n. 12.
(4) Ippocrate, Il regime, in Idem, Opere, a cura di Mario Vegetti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1976, pp. 475-576 (p. 506).
(5) Ibid., p. 499.
(6) Ibid., p. 493.
(7) Ibid., p. 505.
(8) Heinrich Schipperges (1918-2003), Il giardino della salute. La medicina nel medioevo, trad. it., Garzanti, Milano 1988, p. 129.
(9) Cfr. ibid. p. 145.
(10) Cfr. Pedro Laín Entralgo, Der Sinn der Diaita in der Antike [Il senso della dieta nell’antichità], in H. Tellenbach (a cura di), op. cit., pp. 1-11.
(11) Dieter Jetter, Grundzüge der Hospitalgeschichte [Elementi di storia dell’ospedale], Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1973, p. 1.
(12) Cfr. Martin Hartmann, Vindonissa. Oppidum, Legionslager, Castrum [Vindonissa. Piazzaforte, accampamento militare, forte], Einwohnergemeinde Windisch, Windisch AG 1986.
(13) Adalberto Pazzini (1898-1975), Piccola storia della medicina, ERI-Edizioni RAI Radiotelevisione italiana, Torino 1962, p. 31.
(14) P. Laín Entralgo, Il medico e il paziente, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1969, pp. 56-57.
(15) Cfr. D. Jetter, op. cit., p. 7.
(16) Michel Mollat, Les premiers hôpiteaux (VIe-XIe siècles), in Jean Imbert (1919-1999) (a cura di), Histoire des Hôpitaux en France, Privat, Tolosa 1982, pp. 13-32 (p. 16).
(17) San Benedetto, La Regola, XXXVI, I confratelli malati, trad. it. con testo latino a fronte, a cura di Giuseppe Giorgio Picasso O.S.B., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1996, pp. 126-129.
(18) Cfr. M. Mollat, contributo cit., p. 17.
(19) Cfr. H. Schipperges, Il giardino della salute. La medicina nel medioevo, cit., pp. 84 e 74.
(20) Loris Premuda (1917-2005), Storia della medicina, CEDAM, Padova 1975, p. 109: le università più antiche sono quella di Bologna, fondata nel 1088, di Montpellier, del 1137, di Parigi, del 1150, e di Padova, del 1252.
(21) H. Schipperges, Il giardino della salute. La medicina nel medioevo, cit., pp. 95-96; trad. it. modificata.
(22) Cfr. Idem, Lebendige Heilkunde. Von grossen Ärzten und Philosophen aus drei Jahrhunderten [Arte sanitaria vivente. Grandi medici e filosofi di tre secoli], Walter, Olten e Friburgo in Brisgovia 1962, p. 197.
(23) Bernhard Milt (1896-1956), Chemisch-alchemistische Heilkunde und ihre Auswirkungen in Zürich [Arte sanitaria chimico-alchimistica e le sue ripercussioni a Zurigo], estratto da Vierteljahrsschrift der Naturforschenden Gesellschaft in Zürich [Rivista quadrimestrale della Società di Scienze Naturali di Zurigo], anno XCVIII, 30-9-1953, pp. 178-215 (p. 185).
(24) Michel Foucault (1926-1984), Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, trad. it., con Introduzione di Alessandro Fontana e Postfazione di Mauro Bertani, Einaudi, Torino 1998, p. 44.
(25) Cit. ibid., p. 46.
(26) J. Imbert, La tourmente révolutionnaire (1789-1795), in Idem (a cura di), Histoire des Hôpitaux en France, cit., pp. 271-289 (p. 276).
(27) Cfr. ibid., p. 275.
(28) Cfr. Idem, Le droit hospitalier de la Révoluton et de l’Empire, Sirey, Parigi 1954, pp. 76-77.
(29) Cfr. Idem, La tourmente révolutionnaire (1789-1795), cit., p. 289.
(30) Cfr. Idem, Le droit hospitalier de la Révoluton et de l’Empire, cit., pp. 63-66.
(31) M. Foucault, op. cit., p. 63.
(32) Cfr. i miei Franz Anton Mesmer e il “magnetismo animale”, in Cristianità, anno XI, n. 98-99, giugno-luglio 1983, pp. 9-13; e Alle origini dello spiritismo: Franz Anton Mesmer e il “magnetismo animale”, in Massimo Introvigne (a cura di), Lo spiritismo, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1989, pp. 97-119.
(33) Franz Anton Mesmer, Le Magnétisme Animal. Oeuvres, a cura di Robert Amadou (1924-2006), Payot, Parigi 1971, p. 78.
(34) Ibidem.
(35) Ibidem.
(36) Cfr. Oskar Köhler (1909-1996), Die Utopie der absoluten Gesundheit [L’utopia della salute perfetta], in H. Schipperges et alii (a cura di), Krankheit, Heilkunst, Heilung [Malattia, arte medica, guarigione], Alber, Friburgo in Brisgovia 1978; e Lucien Sfez, La salute perfetta. Critica di una nuova utopia, trad. it., Spirali, Milano 1999.
(37) Cfr. il mio L’antipsichiatria, in Giovanni Cantoni (a cura di), Voci per un “Dizionario del Pensiero Forte”, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 45-50.
(38) Cfr. Régis Dericquebourg, Religions de guérison. Antoinisme, Science Chrétienne, Scientologie, Cerf-Fides, Parigi-Montréal 1988; Idem, La Christian Science, trad. it., Elledici, Leumann (Torino) 1999; e M. Introvigne, Autoguarigione e autoredenzione, in Ermanno Pavesi (a cura di), Salute e salvezza. Prospettive interdisciplinari, Di Giovanni Editore, San Giuliano Milanese (Milano) 1994, pp. 9-78; cfr. pure il mio Il problema della redenzione e la psicologia del profondo, in Rivista Teologica di Lugano, anno III, numero 2, Lugano giugno 1998, pp. 191-209.
(39) M. Introvigne, Le sètte cristiane. Dai Testimoni di Geova al reverendo Moon, Mondadori, Milano 1990, p. 50.
(40) H. Schipperges, Homo patiens. Zur Geschichte des kranken Menschen [“Homo patiens”. Per una storia del malato], Piper, Monaco di Baviera-Zurigo 1985, p. 21.