Louis Salleron, Cristianità n. 1 (1973)
Traduzione dell’articolo Qui fait les frais de l’inflation, comparso su Itinéraires, Parigi, dicembre 1972, n. 168, pp. 1-9.
Un “fatto” economico che cambia la struttura della società
L’inflazione, dalla fine della guerra, è diventata un fenomeno tanto generale che la sola difficoltà che sembra sollevare è quella del suo tasso. Al 6% di aumento dei prezzi all’anno ci si comincia a preoccupare. Ma un 2 o 3% sembra un tasso normale.
Cosa vuol dire un tasso “normale”? Sarebbe quello che corrisponde alla salute? O semplicemente quello che la società può sopportare senza danno?
* * *
Questi semplici problemi lasciano smarriti gli economisti. Nel secolo XIX non si concepiva che una economia sana potesse esistere senza moneta sana. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, i disordini legati all’inflazione la condannavano ancora nell’opinione degli esperti come nell’opinione pubblica. Si ammetteva che essa fosse un male necessario dopo la distruzione di un capitale immenso, ma rimaneva un male ed era importante che fosse transitorio e che se ne guarisse.
Da venticinque anni, l’inflazione “strisciante” (come viene chiamata) si è accompagnata a un tale aumento della prosperità che molti tendono a pensare che essa ne sia la condizione.
Una volta si vedeva nell’inflazione la trascrizione monetaria di un profondo squilibrio economico (dovuto alla guerra). Il problema era di ritrovare l’equilibrio, economico e monetario.
Oggi ci si domanda se l’inflazione non sia una nuova forma di equilibrio – l’equilibrio dinamico della prosperità moderna. Il tasso normale di inflazione sarebbe quello che corrisponde alla maggiore creazione di ricchezza in un tempo lungo – cinquant’anni per esempio.
* * *
Questi problemi sono difficili. La prima condizione per chiarirli, se non per risolverli, sta nel comprendere che il carattere essenziale dell’inflazione è quello di essere un “trasferimento”. Un trasferimento di che cosa? Prima di tutto un trasferimento di ricchezza; poi, di conseguenza, un trasferimento di proprietà, un trasferimento di struttura sociale, un trasferimento di tutto il “materiale” della società.
Il problema è il seguente (nel suo primo grado). L’inflazione, trasferendo la ricchezza da un gruppo A a un gruppo B, non fa che “ripartire” diversamente la ricchezza esistente; o “diminuisce” questa ricchezza globale; oppure l’”aumenta”? Tutto dipende dalle capacità produttive del paese. Se non vi è alcuna capacità produttiva (caso puramente teorico), l’inflazione non fa che ripartire diversamente la ricchezza. Se le capacità produttive esistono, essa riparte diversamente la ricchezza esistente, ma permette anche di destinarne una parte alla produzione. Diciamo che essa si risolve in una imposta sul capitale – la sola forma di imposta sul capitale che sia possibile aldilà di una molto debole frazione del reddito globalmente disponibile. In altre parole essa “mobilizza” il capitale, rendendolo disponibile a fini produttivi – cioè permettendo di convertire un capitale dormiente o poco produttivo in un capitale più produttivo che, ricostituendo ricchezza, permetterà di ricostituire l’equilibrio distrutto.
È quanto si è prodotto, in una immensa confusione, dopo la prima guerra mondiale.
È anche quanto si è prodotto dopo la seconda, ma con la differenza che il fenomeno è proseguito e prosegue ancora, perché non si è visto il modo di fermarlo e perchè a poco a poco lo si è trovato eccellente, dal momento che si rivelava generatore di una prosperità permanente e perché, in fondo, tutti avevano l’aria di esserne perfettamente soddisfatti.
Si diceva una volta (nei corpi di guardia) che un certo supplizio orientale cominciava bene e finiva male. Ora lo si trova indefinitamente delizioso.
* * *
Tuttavia, buona o cattiva, l’inflazione rimane un trasferimento. Un trasferimento da chi a chi? Da che cosa a che cosa?
Questi problemi possono essere considerati oziosi: siccome, dirà qualcuno, l’aumento della prosperità è tale da giovare a tutti, poco importa che alcuni ne profittino più di altri; i meno favoriti li sono sempre di più che rispetto a una situazione senza inflazione. Addirittura!
La “causa” profonda dell’inflazione è il carattere nuovo del progresso tecnico, il quale sembra illimitato e alla fine sempre vantaggioso. Si distrugge senza vergogna del capitale perché si possa creare così un capitale nuovo, talmente più produttivo del vecchio che l’operazione è sempre conveniente. Ancora una volta, addirittura!
Ammettiamo che, in termini contabili, il ragionamento sia esatto. Ammettiamo che, attraverso l’inflazione, ciò che è distrutto sia, in ogni momento, inferiore a ciò che è prodotto; che cosa è distrutto, o, se si preferisce, consumato? È necessariamente ciò che è “più debole”.
L’imposta realizza il trasferimento “dei redditi”. L’inflazione (vale a dire l’imposta sul capitale) realizza il trasferimento del capitale. Queste due forme di imposta giocano in senso contrario. Il trasferimento dei redditi (attraverso l’imposta) ha per oggetto il temperare l’inuguaglianza economica ridistribuendo ai più deboli una parte del reddito nazionale. Il trasferimento del capitale (attraverso l’inflazione) ha per oggetto l’accentuare l’inuguaglianza economica favorendo i più forti. Il che fa sì che più c’è inflazione più c’è imposta e più, nelle imposte, c’è trasferimento sociale.
Questo circolo è chiuso? Può durare sempre? Evidentemente no – come vedremo.
Essendo l’analisi da fare molto complicata, procederemo a piccoli passi, cioè con osservazioni semplici la cui somma e convergenza permetteranno di percepirne il valore dimostrativo.
CHI È DISTRUTTO?
Prendiamo un’inflazione del 6% all’anno. Chiunque non vede il suo reddito aumentare, in valore nominale, di almeno il 6% all’anno, s’impoverisce.
Chi sono questi? I più deboli.
E chi sono i più deboli? Essi cambiano secondo le epoche con la variazione dei rapporti di forza, nella società, dei diversi strati sociali.
Ipoteticamente, se i redditi fissi perdono il 6% del loro valore ogni anno, tutti quelli che hanno un reddito fisso sono colpiti. Alfred Sauvy valutava, nel 1963, in 1200 miliardi di vecchi franchi la perdita subita (nell’anno) dai “possessori di titoli, di buoni, di denaro liquido, di libretti di risparmio ecc..” (1). Oggi si tratta certamente di molto di più.
Quelli che posseggono questi crediti, senza interesse (biglietti di banca) o a interesse fisso, sono diversi; ma nell’insieme sono i più deboli. Chiamiamoli, se si vuole, i risparmiatori.
Anche quando a possedere e sottoscrivere titoli a interesse fisso sono istituzioni, alla fine sono gli individui che fanno le spese del deprezzamento, per ragioni abbastanza complicate ma nel complesso facili a comprendersi: infatti se non vi fosse perdita per nessuno non vi sarebbe inflazione. Una “scala mobile” monetaria è una contraddizione in termini. Essa non può che identificarsi con la stabilità della moneta. Venuta meno questa stabilità qualcuno deve fare le spese della perdita. Costoro saranno forzatamente gli individui, poiché le istituzioni sono in grado di difendersi, essendo più forti degli individui.
Al di fuori della vastissima categoria dei creditori (pensionati ecc.), i più deboli sono oggi molto variamente distribuiti. Un tempo l’insieme dei produttori costituiva il settore forte della società. Oggi vi sono produttori forti e produttori deboli. Le piccole e medie imprese non beneficiano più, molto spesso, dell’inflazione che ne fa delle prede per le grandi. I salariati subiscono, anche loro, sorti molto diverse. I grandi favoriti sono quelli dei grandi settori industriali. Potentemente organizzati o, semplicemente, disponendo di mezzi di pressione considerevoli, essi migliorano i loro salari in proporzioni spesso superiori all’inflazione.
Non si può più distinguere semplicemente, come cinquant’anni fa, imprenditori, salariati, contadini, lavoratori indipendenti ecc. Se questa distinzione vale ancora parzialmente, essa si complica, più sottilmente, con una nuova distinzione: settori forti e settori deboli.
I settori forti sono… quelli che lo sono. Semplice constatazione di fatto. Enumeriamo i grandi feudi finanziari e industriali (pubblici o privati), tutte le attività che gravitano nell’orbita di questi feudi e tutte le attività che dispongono di mezzi di pressione. Forza economica, forza politica, forza dell’opinione pubblica, vi è una grande varietà di settori forti.
I settori deboli sono gli altri: tutti quelli che non possono inserirsi nel gruppo dei creatori del capitale nuovo. Sono in primo luogo, certamente, i creditori di tutti i tipi; tutti i possessori di patrimoni di cui non si può fare un capitale produttivo; tutti quelli che sono ai margini del progresso; l’insieme dei contadini, dei lavoratori indipendenti, dei “borghesi”; i “vecchi”; tutti i salariati delle imprese marginali, che costituiscono la maggioranza del mondo salariato; gli impiegati e i funzionari dei vecchi settori; in breve, tutti quelli che non dispongono, per difendersi, del numero organizzato, del sindacalismo, dei mass media. All’interno di questa vasta popolazione, le famiglie numerose (a partire da tre figli) sono le più colpite.
La popolazione dei settori forti è più o meno numerosa di quella dei settori deboli? È tanto più difficile farne una stima, in quanto la situazione generale è instabile e le situazioni particolari non sono sempre ben definite. Ci si potrebbe meravigliare che la popolazione, per ipotesi molto numerosa, dei settori deboli sia così passiva. Ma vorrebbe dire non tener conto di questi fatti: che l’aumento dei redditi nominali rimane, nel corso di lunghi anni, un fattore di soddisfazione; che il miglioramento delle condizioni di vita (elettrodomestici, televisione, automobile ecc.) è un altro elemento di soddisfazione; che le perdite di capitale sono rese invisibili da diversi aumenti di redditi diretti o indiretti (previdenza sociale); in breve, che il cambiamento della vita sociale costituisce uno straordinario “divertissement“. E poi i deboli sono i deboli. Sono inconsciamente rassegnati. Sono a volte convinti di essere ancora i privilegiati.
CHE COSA È DISTRUTTO?
Il carattere più impressionante dell’inflazione continua è il cambiamento di strutture che essa opera.
Le inflazioni tra le due guerre uccisero i deboli, ma non fecero che scalfire le strutture. Brutali, disordinate, rifiutate in linea di principio, erano, in rapporto all’inflazione continua, quello che sono le sommosse in rapporto a una rivoluzione.
Oggi c’è la rivoluzione. Il limite di resistenza della società tradizionale è stato oltrepassato. Si è passati dal regime finanziario della capitalizzazione a quello della ripartizione, dal regime economico della proprietà personale a quello della proprietà collettiva, dal regime sociale dell’attività indipendente a quello dell’attività salariata. Il tutto è avvenuto per evoluzione. Ciò che oggi esiste come regola generale esisteva precedentemente, ma a titolo eccezionale (anche se l’eccezione fu molto diffusa). Inversamente, quello che un tempo era la regola, rimane, ma a titolo di eccezione (anche se l’eccezione permane considerevole). Il corpo sociale è passato dalla prevalenza di un sistema a quella di un altro.
Questa evoluzione-rivoluzione, questa mutazione costituisce la socializzazione.
La socializzazione è l’accrescimento del numero, della complessità e della mutua dipendenza delle componenti della società.
Essa spinge alla costituzione di “centri decisionali” sempre più elevati. In altre parole, essa opera concentrazione nei due campi economico e politico. In altre parole ancora, fa del supercapitalismo e dello statalismo.
L’inflazione non è causa essenziale della socializzazione. La causa è il progresso tecnico. Ma l’inflazione è un potente acceleratore.
La mutazione delle strutture è dunque una creazione di nuove strutture concomitante con la distruzione di vecchie strutture. Quali sono le strutture distrutte? Tutte quelle che derivano dal primato della persona, vale a dire tutte quelle che sostengono la libertà personale e la proprietà personale. Sono numerose le parole che potrebbero evocare adeguatamente le strutture molteplici in tal modo distrutte, o almeno scosse nel loro fondamento: famiglia, patrimonio, eredità, tradizione, mestiere, onore professionale, servizio dello Stato nelle sue strutture basilari: magistratura, esercito, amministrazione, ecc.
Una volta iniziato, il processo di socializzazione si sviluppa per autogenerazione. Il non-salariato è costretto a diventare salariato per non pagare per gli altri e per beneficiare della previdenza sociale e di un regime pensionistico. Al di fuori degli individui, tutte le associazioni, tutte le istituzioni sono ugualmente costrette a mettersi sotto il giogo dello Stato; diversamente è la morte a breve scadenza. Tutte le attività economiche libere, individuali o societarie, sono costrette a scomparire o a vendersi a società e a banche che ne assumono “il controllo”. In tutti i campi, senza eccettuare quello del libro, della rivista e del giornale, il fenomeno è visibile.
Assieme alle persone e alle strutture, sono le virtù e i valori che esse incarnano a scomparire o a essere colpiti. Non li passiamo in rivista. È sufficiente dare un’occhiata in giro per accorgersi di quello che possono significare oggi parole come “onore”, “indipendenza”, “fedeltà”; per comprendere cos’è la vita di milioni di contadini, di artigiani, di scrittori, di professori, di imprenditori e di capifamiglia. Il frantoio frantuma. Si chiama Denaro, Stato, Chiesa. L’inflazione ne è l’olio, quando non ne è il motore.
RIMEDI?
Diremo allora che questo Leviatano, che Pio XII denunciava e verso il quale ci conduce la socializzazione, sia la necessaria realtà di domani? No assolutamente. Una civiltà in mutazione (è il nostro caso) consuma enormi energie vitali nella sofferenza e nell’ingiustizia; ma ciò che muore non diventa necessariamente cenere. Il sacrificio è il prezzo della redenzione e il grano che marcisce produce la messe. Se quello che più colpisce nella marea odierna è l’irruzione della materia e del materialismo, le forze di resistenza spirituale sono percettibili. Nei milioni di salariati che, in seno ai feudi industriali, costituiscono una classe privilegiata, è netta l’aspirazione a una vita personale. Ad essi ripugnano tanto l’anarchismo di sinistra che il totalitarismo comunista. Essi desiderano una famiglia, un focolare, una casa, la possibilità di risparmiare e di educare normalmente i loro figli.
Se la proprietà fosse intelligentemente diffusa e i dirigenti della società si preoccupassero di favorire la restaurazione dei valori fondamentali legati alla protezione della persona, l’accordo profondo di tutto il paese permetterebbe di dar corpo a una civiltà degna di questo nome.
La Chiesa potrebbe fare molto in questa direzione. Ma per farlo bisognerebbe che ritrovasse sé stessa; ed essa è, disgraziatamente, la più colpita.
Ad ogni modo non è di rimedi che vogliamo parlare oggi, ma di mali. L’inflazione è durata troppo. Si comincia a prenderne coscienza. Per sapere ciò che occorre costruire o ricostruire bisogna prima di tutto sapere ciò che è distrutto. Ed è quello che noi abbiamo voluto brevemente ricordare.
LOUIS SALLERON
Note:
(1) Cfr. Louis SALLERON, Diffuser la propriété, Nouveles Editions Latines, Parigi 1964, p. 42.
Foto da “Banca&Mercati”