Domenica 7 gennaio 1990, sulla collina di Torino, all’Oasi Maria Consolata di Cavoretto, si è svolto un incontro di formazione spirituale, promosso dall’arcivescovo del capoluogo piemontese, S. E. mons. Giovanni Saldarini, e tenuto da S. E. mons. Attilio Nicora, vescovo titolare di Fornos minore, già ausiliare di Milano e attualmente a disposizione della presidenza della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana. L’avvenimento potrebbe essere considerato espressione di consueta routine pastorale se destinatari della meditazione — seguita dalla celebrazione della Messa e poi dal pranzo — non fossero stati circa duecento politici e amministratori — dal ministro al sindaco, dal consigliere di Circoscrizione a quello dell’Unità Sanitaria Locale e del Consiglio comunale della cintura torinese — della più diversa appartenenza partitica. E questo ha attirato l’attenzione dei mass media.
Dopo una presentazione da parte di mons. Giovanni Saldarini — che aveva annunciato l’iniziativa in occasione di un incontro con la Segreteria del Comitato di Coordinamento di Cattolici il 10 ottobre 1989 —, mons. Attilio Nicora ha esordito affermando di aver scelto, come testo su cui svolgere una meditazione su “quella sfera dell’esperienza umana che è il rapporto con le istituzioni sociali e politiche”, “un brano della lettera di Paolo a Tito perché tratta espressamente del nostro tema”. Infatti, la lettera a Tito è una delle lettere pastorali di san Paolo, dirette dall’Apostolo a suoi collaboratori qualificati in vista dell’ordinamento delle nascenti comunità cristiane, da lui stesso fondate e, quindi, affidate ad altri; e Tito è responsabile delle giovani comunità di Creta e l’Apostolo delle Genti gli scrive, probabilmente dalla Macedonia e nel 65, poco prima del martirio, databile nel 67.
Oggetto della meditazione sono stati i versetti 11-15 del secondo capitolo e 1-8 del terzo: si tratta di un testo “molto significativo, perché intreccia, con alcuni temi di altissimo livello teologico, delle indicazioni operative molto precise e molto concrete”, e perché in esso vi è “un riferimento specifico, poi, al problema delle relazioni dei cristiani con le istituzioni civili e politiche”.
Quanto alla prospettiva teologica, mons. Attilio Nicora ha ricordato che “rinnegare l’empietà e i desideri mondani, vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, tenere viva l’attesa della beata speranza” “sono i tre dinamismi fondamentali dell’esistenza cristiana, che la grazia salvatrice di Dio alimenta nel cuore dei credenti”. Infatti rinnegare l’empietà significa rifiutare la “mancanza di riferimento devoto e totalizzante a Dio, come centro significativo della vita e del destino dell’uomo”, e, con essa, “i desideri mondani che sono l’effetto inesorabile di un atteggiamento che tenta di escludere il riferimento a Dio come punto centrale della vita”. Il credente, chiamato “a svincolarsi dal mondo vecchio”, è educato dalla grazia salvatrice a “vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo. Appaiono qui tre riferimenti costitutivi dell’esistenza dell’uomo: la sobrietà, che dice la relazione dell’uomo con sé stesso nella gestione della propria vita concreta; la giustizia, che dice il rapporto con gli altri uomini; la pietà, che richiama questo riferimento fondamentale e fondante a Dio come senso di tutto”. Anche la politica, che appartiene a questo mondo, “viene investita da questa grazia salvatrice che riscatta, e anch’essa è chiamata a essere vissuta, da parte dei credenti, nell’atteggiamento che l’Apostolo ha ricordato: con sobrietà, giustizia e pietà”; ma anch’essa è in attesa della beata speranza e, pertanto, anch’essa viene “relativizzata dall’attesa”. Perciò “il cristiano non potrà mai caricare sulla politica l’attesa messianica della salvezza, la pretesa di una risposta pienamente ed autenticamente appagante alle urgenze più profonde che premono nel cuore dell’uomo”.
Mons. Attilio Nicora ha così tracciato le coordinate teologiche nel cui ambito inscrivere la realtà e la vocazione politica. Ma l’Apostolo fornisce anche indicazioni operative molto precise e concrete, e su esse il predicatore ha organizzato la seconda parte della riflessione. Tito — raccomanda san Paolo — deve anzitutto ricordare ai suoi “di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona”: “Sono, come ben si vede, tre indicazioni che riguardano direttamente il problema della relazione con le istituzioni politiche. Poi, però, l’Apostolo va oltre e aggiunge un richiamo a quattro elementi, che potremmo chiamare le virtù sociali: non parlar male di nessuno, evitare le contese, essere mansueti, mostrare ogni dolcezza verso tutti gli uomini.
“Questi sette elementi positivi, vedremo subito, si contrappongono poi all’elencazione di sette elementi negativi, che potremmo definire i vizi antisociali: anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, viventi nella malvagità e nell’invidia, degni di odio, odiantici a vicenda”. La prima indicazione riguarda la sottomissione all’autorità: “Il primo annuncio non è mai quello della rivolta”, l’atteggiamento fondamentale del cristiano di fronte alle istituzioni politiche è quello della lealtà civica, ma “non manca nel Nuovo Testamento un’altra linea, quella della contestazione dell’istituzione politica”. Quando questa “tenta di assolutizzarsi, sostituendosi a Dio, pretendendo non l’obbedienza civile, ma la devozione parareligiosa. È la grande pagina di Apocalisse XIII, quando la bestia, immagine di Satana, che domina il mondo, pretende di mettere su ogni uomo il marchio suo”. “È lo Stato totalitario, che chiede, ormai, che gli si venda l’anima: di fronte a uno Stato così allora la risposta cristiana è la resistenza”. Queste riflessioni sono stimolo alla responsabilità dei magistrati e delle autorità perché “in tanto la sottomissione è dovuta in quanto i magistrati e le autorità” “rispettano la libertà e la dignità di tutti, e cercano nella legge la garanzia e il presidio dell’autentico bene comune, e nell’attuazione amministrativa della legge si preoccupano di realizzarne il senso, traducendola in un autentico servizio alla promozione di tutti”. Ecco le necessarie premesse a un’ubbidienza non puramente esecutiva, ma “partecipata, vissuta in termini di condivisione della ratio legis, del motivo ispiratore del comportamento che viene reso obbligatorio, vivendo non soltanto in termini di mera esecuzione, che spesso rischia di svilirsi, nel senso della deresponsabilizzazione, fino all’atteggiamento limite del “farla franca” quando si può, e diventa invece un vivere l’obbedienza alla legge in termini corresponsabili, nella ricerca costruttiva della realizzazione del fine per cui la legge è data”. In questo senso va ripensato il valore della partecipazione consapevole dei cittadini affinché, “almeno nel momento dell’applicazione e della traduzione della norma sul piano concreto”, si produca lo “sforzo di una realizzazione più costruttiva e significativa di una vita sociale ben ordinata”. Ma la prospettiva di reale partecipazione è impensabile senza un’educazione dei cittadini a vivere le proprie responsabilità morali e politiche e senza la trasparenza, la coerenza e la convinzione da parte di chi elabora le norme e i provvedimenti e poi presiede alla loro attuazione.
Quindi, si incomincia con l’essere sottomessi, si cresce ubbidendo di buon grado, per culminare in una prospettiva di generosità sociale, “civica”, veramente entusiasmante, che san Paolo esprime con le parole “essere pronti per ogni opera buona” (III, 1), nel senso dell’“oltre il dovuto”. Vengono poi elencati quattro princìpi di comportamento che formano un modello di condotta sociale virtuosa: “non bestemmiare nessuno”, “il che vuol dire evitare l’uso della comunicazione giudiziaria per scopi precisi, quali l’eliminazione dell’avversario politico”; “non essere guerreggianti”, cioè non praticare quella “conflittualità permanente” che, originata dall’invidia politica, è tesa a contrastare ogni iniziativa, anche valida, dell’avversario, al fine di sottrargli la stima e il pubblico consenso, una pratica che crea “quello stato di disagio permanente che logora, a poco a poco, la fiducia della gente nelle istituzioni e la forza stessa delle istituzioni”; “essere concilianti, cioè avere spirito di equilibrio e di conciliazione, che si sforza di cogliere nelle posizioni di tutti l’elemento di valore e di riassumerlo unitariamente, celebrando l’apporto di tutti e non invece esorcizzando l’intervento altrui” — in questo senso si può dire che “il cristiano deve essere l’uomo, il luogo della riconciliazione permanente” —; corona questo modello positivo uno stile che consiste nel “mostrare ogni dolcezza verso tutti gli uomini”, dal momento che la mansuetudine verso ogni uomo, la modestia nel tratto, la discrezione nel linguaggio, specie nelle discussioni, l’accoglienza cortese, sono elementi che costituiscono concretamente il rispetto del prossimo: “C’è anche il problema dello stile, potremmo dire, del cristiano nel vivere il servizio amministrativo e politico, uno stile che parte dal cuore trasformato, dalla coscienza liberata e deve investire anche il tratto esteriore”; per contro, “l’involgarimento dello stile, che sta avvenendo realmente, che è anche involgarimento dell’intera società, purtroppo, da questo punto di vista, si rifrange a livello istituzionale. E invece dovrebbe trovare, sulla soglia del livello istituzionale, il filtro che nasce da coscienze educate a questo tipo di valore”. Il tratto, lo stile, favorisce il rapporto, “diventa anche esemplare, diventa immagine educativa, a suo modo, nei fatti più che nelle parole”.
La riflessione sulle virtù sociali non costituisce una divagazione rispetto al tema principale. Mons. Attilio Nicora ha esplicitamente sottolineato che le “virtù sociali sono interessanti perché mostrano che, fin dalle origini, i due temi sono connessi: non basta il problema del rapporto con le istituzioni; se manca questo humus di virtù, di valori che stanno prima, e che si radicano nella coscienza della gente, l’istituzione non tiene e il rapporto del cittadino con l’istituzione va in crisi”. Da parte sua l’istituzione dovrebbe prendere provvedimenti tali da creare condizioni che promuovano una crescita di questo tipo di società: certamente, “non spetta alla politica assumersi compiti direttamente educativi, però spetta alla politica creare le condizioni perché le tensioni educative al meglio possano esprimersi e vengano sostenute, mentre vengano compresse, invece, le tendenze disgreganti e negative. Questo appartiene alla politica”.
Alle virtù sociali si oppongono vizi antisociali, di cui è preda l’uomo prima di giungere alla fede e di fruire della grazia salvatrice ed educatrice di Dio, sì che ci si può chiedere come, nelle condizioni dell’uomo dopo il peccato, sia possibile vivere le virtù sociali e gli elementi positivi di cui si è parlato, e, a maggior ragione, se abbia un senso impegnarsi su quella terribile frontiera costituita dalla politica. Così il discorso ritorna a porsi su un piano propriamente teologico: da quando si è manifestata la bontà traboccante di Dio, fino al punto da assumere la natura umana, siamo stati resi “capaci di diventare eredi nella speranza della vita eterna e intanto, quaggiù, capaci di vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, investendo di questo spirito di novità tutte le sfere dell’esperienza umana, politica compresa”: “per il cristiano vivere la politica nell’ottica che abbiamo visto, è, da un lato, esperienza e proclamazione della carità di Dio verso l’uomo”; e, d’altra parte, è impegno “a diventare a sua volta, essendo stato oggetto della bontà e della filantropia di Dio, strumento di questa bontà e di questa filantropia per gli altri anche attraverso un impegno politico corretto”.
“È qui — ha concluso mons. Attilio Nicora — che si radica il tema della carità politica”, da praticare affinché il cammino che gli uomini fanno in questo mondo “sia meno lontano dalla beata speranza di cui siamo diventati eredi”.