Costruita sulla base della lezione cilena
IL PC LANCIA UNA NUOVA FORMULA
Mentre le agenzie di stampa trasmettevano notizie sul quarto scontro mediorientale, qualcuno vegliava e meditava su quanto era successo in Cile nello scorso mese di settembre. E veglianti e meditanti non erano cultori di storia – gli storici possono aspettare! – ma uomini politici che i fatti incalzano come la carità di Cristo urgeva san Paolo.
Il risultato della veglia e della meditazione è stato il lancio di una nuova formula politica da parte del Partito Comunista italiano. La formula è stata ampiamente illustrata in una serie di articoli di Enrico Berlinguer, segretario generale del partito (1); in una relazione di Gerardo Chiaromonte, direttore di Rinascita, il settimanale fondato da Palmiro Togliatti, a una riunione del comitato centrale del Partito Comunista (2); e in una tavola rotonda promossa da Rinascita e che ha avuto come protagonisti Fernando Di Giulio, Pietro Ingrao e Gian Carlo Pajetta (3). Come si può notare, si tratta dei massimi responsabili della politica comunista in Italia, in Europa e forse anche nel mondo, cui vanno aggiunti Luigi Longo, presidente del partito, e Giorgio Amendola, quest’ultimo ospitato dal Corriere della Sera (4).
La non abitudine a pensare la politica, ma piuttosto a viverla in un modo che si potrebbe definire sportivo, da tifosi, ha fatto sì che, in generale, la mossa costituita dal lancio della nuova formula, con le eco che a essa hanno fatto seguito, abbia colpito soltanto la fantasia e i sentimenti e arricchito – per così dire – il gergo dei politicanti del nuovo termine “grande compromesso storico”, senza che vi sia stata, almeno all’apparenza, la necessaria contro-veglia e contro-meditazione.
Si è semplicemente recepito il risultato, lo slogan, la formula più o meno felice, ma poco o nulla è stato fatto per comprenderne la gestazione e il significato autentico. Si è subito lasciato cadere, ad esempio, il fatto che la mossa sia stata studiata alla luce dei fatti cileni, come tra l’altro indica inequivocabilmente l’occhiello dei tre articoli di Berlinguer, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. E la carenza – o l’assenza – di una diagnosi adeguata testimonia ancora una volta, ad abundantiam, il carattere velleitario di ogni eventuale terapia, così come, più in generale, l’ignoranza del comunismo o una sua rozza comprensione costituisce la tara e la tomba dell’anticomunismo.
“VIA CILENA” E “VIA ITALIANA AL SOCIALISMO”
Dunque, mentre sul Sinai e sulle alture di Golan arabi e israeliani si scontravano, i massimi esponenti del PC meditavano sui fatti cileni, oltre gli aspetti plateali. E alla base della meditazione – certo non condotta per ragioni accademiche, ma per concrete necessità – era l’analogia profonda – accanto a diversità pure evidenti – tra il Cile e l’Italia, tra la situazione cilena e quella italiana, tra le intenzioni del comunismo in questa e in quella nazione.
“Gli avvenimenti cileni – confessa Enrico Berlinguer – ci sollecitano ad una riflessione attenta che non riguarda soltanto il quadro internazionale ed i problemi della politica estera, ma anche quelli relativi alla lotta e alla prospettiva della trasformazione democratica e socialista del nostro paese” (5). Il segretario del PC ricorda quindi che “non devono sfuggire […] le profonde differenze tra la situazione del Cile e quella italiana“; ma, dopo averle elencate in abbondanza – area geografica, assetto sociale, struttura economica, grado di sviluppo delle forze produttive, sistema istituzionale, tradizioni e orientamenti delle forze politiche, ecc. – conclude ugualmente che “insieme alle differenze vi sono anche delle analogie, e in particolare quella che i comunisti e i socialisti cileni si erano proposti anch’essi di perseguire una via democratica al socialismo” (6).
Questa è la chiave di volta e il punto di partenza del discorso. Berlinguer ci dice che la via democratica al socialismo, la “via cilena”, è analoga alla via italiana al socialismo, e questa analogia profonda giustifica l’interesse dei maggiori esponenti comunisti per fatti che, diversamente, sarebbero unicamente preda dei cronisti, in attesa di cadere sotto la giurisdizione degli storici. La lettura dei fatti cileni e l’inventario degli errori operativi di Allende – errori che sono anche dottrinali, per la coincidenza di teoria e di prassi nel pensiero marxista-leninista – può fornire ai dirigenti comunisti italiani, in pendenza di questa analogia, gli elementi per ripensare l’azione nel nostro paese.
ANALISI DEL FALLIMENTO DELLA “VIA CILENA”
Cos’è, dunque, successo in Cile? “I comunisti e i socialisti cileni si erano proposti […] di perseguire una via democratica al socialismo“, cioè di conquistare il potere nella legalità. Ottenuta una irrisoria vittoria elettorale, che solo l’appoggio della Democrazia Cristiana permetteva di utilizzare, erano andati al governo offrendo alla DC stessa insignificanti “garanzie costituzionali”, cioè promesse di rispetto della legalità costituzionale, e quindi compiendo i passi dal governo al potere con infantile precipitazione e con lo stile di un qualsiasi “fronte popolare”, che possa contare su un apparato repressivo invincibile appena oltre le proprie frontiere.
La fretta si è però rivelata cattiva consigliera. L’esigua superiorità elettorale non si è trasformata neppure in parte in consenso popolare, ha piuttosto dimostrato di non coincidere assolutamente con esso, sì che i votanti non sono diventati sic et simpliciter militanti. I grandi corpi dello Stato – magistratura, forze armate, pubblica amministrazione – si sono rivelati non sufficientemente “dialettizzati”, cioè internamente divisi dalla dialettica comunista. Il mondo imprenditoriale, sia industriale che rurale, non è stato rassicurato da una precisa delimitazione della realtà economica in “area pubblica”, “area mista” e “area privata”, e quindi la minaccia di statalizzazione incombente su tutti indistintamente non ha favorito la divisione e la rottura del fronte padronale, ma piuttosto un suo consolidamento. Il crollo economico e l’inflazione vertiginosa e astronomica hanno generalizzato la insoddisfazione. Infine, il legame con la Democrazia Cristiana – le “garanzie costituzionali” – si è rivelato troppo tenue e insufficiente a comprometterla nello sforzo di resistere alla marea montante dell’opposizione popolare, che ha coinvolto senza distinzione tutte le categorie, e nel tentativo di tacitarla e soffocarla. Né era possibile che il Cile fosse “mantenuto” dal blocco socialista, come Cuba, perché tale blocco versa in non floride condizioni e compera il grano, a credito, dai paesi capitalisti!
Questa – senza troppi interventi demiurgici della CIA e della ITT, che vanno bene per la base, insieme alla patetici prigionia di Corvalan, che riceve i giornalisti! – la diagnosi del fallimento cileno svolta dai dirigenti maggiori del PC italiano.
Questa la base “di fatto” per studiare le mosse da compiere in Italia, per concretizzare la “via democratica al socialismo” anche nel nostro paese.
LA “VIA ITALIANA” RIVEDUTA E CORRETTA SULLA BASE DEL FALLIMENTO CILENO
Imparando dagli “errori commessi”, che hanno costretto élites abbondantemente inquinate a stare al gioco della reazione popolare e a decidere infine di capeggiarla per tentare di contenerla, emerge implicitamente – ma non troppo! – una linea politica che va cercata tra gli “errori da non commettere”, che costituiscono le coordinate della nuova formula “grande compromesso storico”, il nome attuale del “che fare” di leniniana memoria.
Dal PC italiano ci si deve quindi attendere un grande sforzo per introdurre cunei nella magistratura, portando avanti un’azione già avviata nella pubblica amministrazione e soprattutto nelle forze armate. In questo settore, però, non nei termini dei “proletari in divisa” di Lotta Continua, bensì in quelli “tricolori” del recente manifesto per il 4 novembre, inneggiante alla collaborazione tra l’esercito e le masse popolari, e che prelude all’annunciato convegno comunista sulle forze armate.
Riguardo al mondo imprenditoriale, la “comprensione” per le sue esigenze potrà manifestarsi anche nella diminuzione della pressione sindacale, ma certamente nella delimitazione precisa e legale dei settori di intervento pubblico, che rassicura chi non è vittima e lo desolidarizza dagli altri, lasciandolo vivere al momento e facendolo trovare solo quando verrà il suo turno di socializzazione. La manovra deve impedire, nella fase “democratica” di transizione al socialismo, la fuga dei capitali, nonché la disincentivazione degli investimenti, che si limita a spostare verso zone, ancora private, che di conseguenza fioriscono e mantengono a livello sopportabile il crollo economico delle zone nazionalizzate.
Infine – e questo è il nocciolo del “grande compromesso storico” – la Democrazia Cristiana non deve restare ai margini della vita politica e chiedere “democrazia” e “legalità costituzionale”, anche nel caso che le sinistre ottengano un ipotetico successo elettorale del 51%. La sua funzione non può e non deve esaurirsi in quella di preparatrice e di battistrada del socialcomunismo, ma deve essere legata a esso da una partnership in tutto il tratto che va dal governo al potere, e anche dopo, nella fase di assestamento al potere, per confondere e ritardare la reazione anticomunista e condividere la responsabilità della repressione comunista.
Solo così il comunismo può tentare di impedire che il dissenso popolare superi il livello di guardia e, anche nel caso debordasse, trovi élites da spingere sulla via di una decisa opposizione. E un popolo senza capi è un gigante cieco.
LA “TRAPPOLA” È PRONTA: ANCHE I “TOPI”?
I termini della operazione comunista sono estremamente chiari, anche se quelli esposti non la esauriscono completamente, dal momento che mancano, ad esempio, i dati relativi alla sovversione del sistema scolastico e alla mobilitazione e all’uso dei soviet costituiti dai consigli di quartiere.
C’è quanto basta, però, per affermare che la politica “partitica” è una parte soltanto, e adesso di non particolare rilievo, della politica nazionale; che la lotta è principalmente “sociale”, cioè si svolge per il dominio di quella zona trascurata e sconosciuta che si stende tra l’individuo e lo Stato, in una situazione in cui il consenso “elettorale” non traduce il consenso “reale”, di gran lunga più importante del primo.
C’è quanto basta per affermare che: il militare che si lascia attrarre dall’avvicinamento comunista; il magistrato che non difende la sua indipendenza di giudizio; il funzionario che si lega al carro dei partiti; l’imprenditore che non solidarizza con chi è colpito dalle misure economiche statali e dalla prevaricazione sindacale, e non difende il diritto di proprietà anche attraverso la franca e legittima difesa della propria proprietà; il prete che non ribadisce, opportune et importune, l’intrinseca perversità del comunismo, il suo agire insidioso e fraudolento, e non condanna chi collabora con esso o anche indirettamente lo favorisce; tutti costoro sono de facto comunisti o amici dei comunisti, lo confessino o no, lo sappiano o no.
I comunisti hanno detto cosa faranno e hanno enunciato il nuovo metodo con cui si propongono di perseguire la loro decrepita meta. Ora tocca agli altri rivelarsi.
Note:
(1) Cfr. Rinascita, 28-9-1973, anno 30, n. 38; 5-10-1973, anno 30, n. 39; 12-10-1973, anno 30, n. 40.
(2) Cfr. L’Unità, 18-10-1973.
(3) Cfr. Rinascita, 19-10-1973, anno 30, n. 41.
(4) Cfr. Corriere della Sera, 9-11-1973.
(5) Rinascita, 28-9-1973, anno 30, n. 38.
(6) Ibidem.