Relazione svolta da S.E. il Signor Cardinale Giacomo Biffi il 24 marzo 2000 in occasione del Terzo Forum del Progetto Culturale della Chiesa Italiana, organizzato dalla CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, il 24 e il 25 marzo 2000 a Pieve di Cento, in provincia di Bologna, sul tema Momenti culturali, fede cristiana e crescita della libertà. Testo trascritto da L’Osservatore Romano, 26-3-2000, dov’è comparso con il titolo I rapporti tra la cultura italiana e il “fatto cristiano”. Titolo redazionale.
Card. Giacomo Biffi, Cristianità n. 298 (2000)
Quando il cardinal Giovanni Colombo [1902-1992, arcivescovo di Milano dal 1963 al 1979], più di venticinque anni fa, mi propose di diventare vicario episcopale per la cultura, una delle mie obiezioni è stata: “Ma io non so che cosa sia la cultura”. “Non preoccuparti — mi rispose — perché non lo sanno neanche gli altri”.
Non so se le cose stiano ancora così. È innegabile però che quanti oggi parlano di “cultura” dànno quanto meno l’impressione che non assegnino sempre al termine lo stesso valore. I significati sono diversi, a seconda di chi parla o scrive; talvolta sono diversi addirittura entro lo stesso discorso, la stessa pagina, la stessa frase. E così si può dialogare e discutere anche a lungo sui programmi culturali senza intendersi nemmeno sull’argomento del discorso; e perciò senza probabilità di arrivare a qualche conclusione plausibile.
Sono decine e decine le definizioni di cultura che sono state date, ciascuna con qualche particolarità sua e con qualche elemento proprio. Non si può ovviamente passarle qui tutte in rassegna; e tuttavia un minimo di chiarificazione si impone, se si vuol affrontare senza candidarsi alla disperazione il tema dei rapporti tra cultura e fede, anzi tra cultura e “fatto cristiano”.
A questo fine mi affido, per cavarmela, all’ipotesi che siano tre i sensi fondamentali in grado di mettere un po’ d’ordine e di orientarci (o almeno di preservarci dallo smarrirci) nella foresta lussureggiante delle innumerevoli accezioni.
La ragione precipua di questa pluralità si può ravvisare nella circostanza che la parola “cultura” da un paio di secoli è andata assumendo via via nuovi contenuti, che si sono aggiunti a quelli precedenti senza metterli però mai fuori uso. Così alla concezione originaria, che abbiamo ereditato dall’antichità classica, se ne è aggiunta nel secolo scorso un’altra, mutuata dalle discipline antropologiche ed etnologiche, e lungo il secolo ventesimo una terza che privilegia la dimensione ideologica, normativa, comportamentale.
Cercheremo in primo luogo di tracciare per ciascuna delle tre concezioni un’immagine essenziale; così potremo tentare, in secondo luogo, di capire quale spazio e quale compito specifico possa e debba avere il cristianesimo in tutte e tre le forme di cultura che saranno state descritte.
I. I significati fondamentali di cultura
1. La “coltivazione dell’uomo”
All’origine c’è una figura di derivazione agricola: “cultura” è coltivazione dell’uomo nella sua vita interiore. In questo senso già Cicerone e Orazio parlavano di una cultura animi e di una cultura hominis.
Il concetto è più vasto di quello di paideia, che si riferisce alla prima età e all’età evolutiva. Qui si tratta dell’intera esistenza: l’uomo può e deve essere continuamente arricchito in ogni sua stagione. Si tratta, per così dire, di una progressiva “umanizzazione”: l’uomo diventa uomo in una misura sempre più ampia e in un’attuazione sempre più compiuta.
Questa “coltivazione” si realizza mediante l’assimilazione dei “valori assoluti”; vale a dire, il vero, il bene o il giusto, il bello. Solo la verità, la giustizia, la bellezza sanno nutrire l’uomo, l’aiutano a crescere e ne fanno sbocciare tutte le virtualità.
Sempre restando in questa prospettiva, si passa poi a indicare con lo stesso vocabolo non solo l’azione del “coltivare”, ma anche il suo risultato. “Cultura” di un uomo è il suo patrimonio spirituale acquisito: i suoi “guadagni” intellettuali, morali ed estetici.
A cominciare dalla metà del Settecento, con la progressiva esaltazione dell’idea di “popolo” e di “nazione”, il termine “cultura” acquista una dimensione, per così dire, spiccatamente sociale. E si principiò a parlare della “cultura” di un paese, di una gente, di una comunità, identificandola nei mezzi “sociali” e nei risultati “sociali” di questa attività: prima di tutto le scuole, gli istituti di ricerca, le forme di comunicazione delle idee; poi la produzione filosofica, letteraria, artistica, musicale.
2. La somma delle “elaborazioni” di un popolo
Dalla seconda metà del secolo scorso avviene un vero e proprio capovolgimento. Si delinea un nuovo concetto nel quale l’uomo non è più il destinatario e il termine di un’azione (come nella visione “classica”), bensì il soggetto e il principio, e non individualisticamente ma secondo una dimensione, per così dire, corale. Il vocabolo comincia a significare tutto ciò che, provenendo comunque da un insieme di uomini, ne diventa possesso comune, proprio e caratterizzante.
Non ha qui alcuna rilevanza il “valore” intrinseco del prodotto. “Cultura” di un popolo è la totalità dei suoi elaborati e dei suoi comportamenti. In questo senso si possono ritenere dati “culturali”, alla stessa stregua del Partenone e delle opere di Platone, le selci scheggiate dei primitivi, le fiabe dei pigmei, le consuetudini tribali di convivenza, di alimentazione, di lavoro.
Ed è naturale che prevalga l’uso plurale del termine: ci sono tante culture quanti sono i raggruppamenti umani. Si può parlare, ad esempio, di una cultura etrusca, di una cultura romagnola, di una cultura indonesiana; e si può anche allestire un museo della cultura contadina e della cultura montanara.
3. La “scala dei valori”
Da poco più di mezzo secolo si va imponendo un’altra e ben diversa accezione: con il termine “cultura” si intende una particolare interpretazione della realtà, che assurge a criterio di giudizio e di comportamento.
La parola viene così a indicare un sistema condiviso di valutazione delle idee, degli atti, degli eventi; e quindi anche un complesso di “modelli” di vita socialmente esaltati o quanto meno socialmente accolti. Ogni “cultura” intesa così comporta, come si vede, una “scala di valori” proposta e accettata entro un determinato raggruppamento.
In questo senso si può ravvisare, tra le molte, una cultura collettivistica, una cultura liberistica, una cultura radicale, eccetera.
Questa sommaria catalogazione dovrebbe ridurre i rischi delle ambiguità e dei malintesi nell’impresa di cogliere i rapporti necessari o almeno possibili tra il fatto cristiano e la sua auspicabile “inculturazione”. Torneremo dunque a esaminare successivamente i vari concetti di cultura che sono stati elencati, non più per se stessi ma all’interno di questo problema specifico.
II. Le varie inculturazioni della fede
1. La “coltivazione cristiana dell’uomo”
La Rivelazione, oltre a donarci una “teologia antropologica”, fondata sulla manifestazione dell’uomo Cristo Gesù, immagine perfetta del Padre, ci regala anche una “antropologia teologica”, che riconosce nel Figlio di Dio incarnato, morto per noi e risorto, l’archetipo di ogni autentica umanità; ed è la sola antropologia davvero esauriente: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes 22), dice mirabilmente il Concilio Vaticano II, dal momento che, aggiunge, “Cristo […] svela pienamente l’uomo all’uomo” (ib.).
Sicché è chiaro che la “coltivazione” adeguata dell’uomo è quella che nasce ed è nutrita dalla fede, cioè dalla conoscenza che partecipa a quella che Dio ha delle sue creature. D’altronde, secondo la parola di Gesù, il primo e il vero e l’unico coltivatore dell’uomo è il Padre (cfr. Gv. 15, 1): ogni altra cultura hominis, che non sia in qualche modo riverbero e attuazione nel tempo di quella del Padre, rischia sempre di essere arbitraria e manipolante.
Anche la “coltivazione cristiana” si avvarrà — come ha sapientemente intuito già il mondo antico — del vero, del giusto, del bello. Anzi, questi valori potranno e dovranno essere ricercati per se stessi, senza sacralizzazioni superflue, nella certezza che, quando sono autentici, sempre essi ci avvicinano e ci conformano a Cristo, il quale è la verità, la giustizia, la misericordia, la bellezza, divenute misteriosamente figura e realtà di uomo attingibile e viva.
2. Il “patrimonio culturale cristiano”
Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell’uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti figurative, architettura, musica, filosofia, diritto, eccetera) portano incancellabili in sé i segni della loro origine dalla fede cristiana. È il nostro “tesoro di famiglia”.
Il problema per la comunità dei credenti è quello di ridivenire consapevole — e quindi di reimpossessarsi conoscitivamente ed emotivamente — di questa immensa ricchezza.
Va poi notato — contro ogni tentazione di interiore grettezza — che dobbiamo apprezzare e avvalorare come provvidenziale nutrimento dell’anima ogni irradiazione di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque si manifesti.
Gli autori possono essere intenzionalmente lontanissimi dalla militanza ecclesiale (e noi li lasceremo rispettosamente dove vogliono stare, senza battezzarli arbitrariamente), ma i loro “valori”, se sono sul serio “valori”, sono sempre cosa nostra, perché oggettivamente sono sempre riflesso della luce di Cristo; e tutti possono confluire nella “cultura cristiana”. Come dice san Tommaso: “Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est” (I-II, q. 109, a. I, ad 1: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo”).
3. I “mezzi per la coltivazione cristiana”
La “coltivazione cristiana dell’uomo”, se non vuol restare soltanto un’astratta e vana affermazione di principio, deve avere i mezzi per assolvere i propri compiti.
È un argomento di eccezionale gravità, e andrebbe ampiamente trattato e vigorosamente affrontato, in particolare alla presenza di uno Stato e di altri potentati di varia natura che sempre più estesamente occupano gli spazi esistenziali e si impadroniscono degli strumenti di comunicazione, di formazione, di socializzazione, in palese contrasto col principio di sussidiarietà.
In una società che non aspiri a diventare un “regime” — comunque si denomini e si colori — chi a diverso titolo detiene di fatto il potere non deve tanto imporre una propria cultura quanto favorire le culture delle legittime aggregazioni; tra le quali la prima — sia per la sua determinante presenza nella storia della nostra nazione sia per il suo imparagonabile apporto al configurarsi di una identità italiana — è senza dubbio la realtà cattolica.
In ogni caso, anche nelle situazioni esterne più svantaggiose, le comunità cristiane devono instancabilmente adoperarsi per la sussistenza, lo sviluppo, l’affermazione della loro inconfondibile vita culturale.
4. La “cristianità”
Una “cultura” nel senso antropologico-etnologico che s’è visto — e cioè tutto il complesso degli “elaborati umani” collettivi — va riconosciuta a ogni insieme di persone individuabile come popolo. In essa trovano posto le tradizioni, le costumanze, le forme di lavoro e di vita, il folclore, i comuni prodotti dell’ingegno e dell’abilità manuale, che una data gente ben definita riconosce come propri.
Esiste un “popolo cristiano”, socialmente percepibile e identificabile come tale? O, che è lo stesso, esiste una “cristianità”?
L’indole stessa dell’avvenimento cristiano esige che la “comunione” — mistero trascendente ed eterno — aspiri continuamente a farsi “comunità”, cioè una realtà compaginata, commisurata al tempo e storicamente determinata.
La fede chiede — per intrinseco dinamismo — di investire e trasformare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare, sociale. Perciò in nessun momento della sua vicenda la Chiesa può mancare di dare vita a una “cristianità”, secondo forme che mutano col mutare delle epoche e dei luoghi ma che non possono venire meno in assoluto.
La nostra attuale “cristianità” potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa; ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come fenomeno privo di permanenza nel tempo, senza premesse e senza radici: essa sarà tanto più vitale ed efficace quanto più sarà ispirata e avvalorata non solo dai princìpi eterni del Vangelo ma anche dalla sempre desta memoria del suo passato.
Come si vede, il rilancio di una “cultura cristiana” intesa così è condizionato dalla ravvivata coscienza dell’esistenza di un “popolo cristiano”, con la sua storia, le sue consuetudini, le sue feste, le sue opere, le sue multiformi manifestazioni.
5. La “scala cristiana dei valori”
Quando un raggruppamento umano arriva a riconoscere e ad accettare comunemente quali siano i “valori” dell’esistenza e come vadano tra loro gerarchizzati, si configura una “cultura” secondo l’accezione che in questi ultimi decenni è andata sempre più imponendosi. E, a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità folcloristica o a mero fatto di coscienza individuale, sarà incontestabile che debba esistere ed essere pubblicamente proclamata una “cultura cristiana” in questo senso, cioè una “scala cristiana dei valori”.
Qui bisogna dire che le comunità cristiane devono prepararsi ad affrontare a occhi aperti, senza chiusure indebite ma anche senza irenistiche ingenuità, le tensioni e gli inevitabili contrasti tra le diverse “culture” che di fatto convivono in una società pluralistica.
Ci rallegreremo di ogni concordanza insperata e inattesa, e la onoreremo nei nostri propositi operativi e nei nostri atti. Ma più frequentemente dovremo registrare le dissonanze, facendo bene attenzione a non sacrificare mai la verità da cui siamo stati misericordiosamente raggiunti e illuminati, né a compromettere mai la nostra inalienabile identità.
È difficile e raro che convengano sulla stessa scala di valori coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena vistosa e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Cristo crocifisso e risorto, Figlio unigenito del Dio vivente, Salvatore unico e necessario dell’universo, Signore della storia e dei cuori.
Noi non imponiamo a nessuno la nostra “cultura”. Ma nemmeno possiamo tollerare che l’imposizione ideologica di una “cultura” estranea ci snaturi o ci impedisca di esistere e di crescere come popolo di Dio, redento dal sangue del Signore Gesù, secondo la visione delle cose che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell’atto di fede.
Conclusione
Come si vede, il rapporto fede-cultura non è estrinseco e occasionale: è, in qualche modo, trascendentale, anche se è variamente attuato nel succedersi delle epoche storiche e nel variare delle situazioni.
La fede, restando fede, deve farsi “cultura”: lo deve a se stessa, alla radicalità e alla totalità del rinnovamento che essa introduce nell’uomo e nell’intero universo. Essa non mortifica e non trascura nessuna delle positività autentiche che incontra nel suo dispiegarsi nel tempo e nel mondo; tutte anzi le assume, le purifica, le esalta, le trasfigura in una “cultura” originale e inequivocabile, mantenendo la sua tipicità e la sua irriducibilità: le assume, le purifica, le esalta, le trasfigura nella “cultura cristiana”.
+ Giacomo Card. Biffi
Arcivescovo di Bologna