Card. Giacomo Biffi, Cristianità, 315 (2003)
Articolo trascritto da L’Osservatore Romano, Città del Vaticano 17-1-2003, e presente in <www.vatican.va>. Titolo originale.
“La fede in Gesù Cristo che ha definito se stesso “la via, la verità e la vita” (Gv. 14, 6) chiede ai cristiani lo sforzo per inoltrarsi con maggior impegno nella costruzione di una cultura che, ispirata al Vangelo, riproponga il patrimonio di valori e contenuti della Tradizione cattolica” (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 7).
Ci chiediamo: come si rapporta l’identità sostanziale e ovviamente irrinunciabile dei credenti (che non ammette opinabilità e diversificazioni) con “[…] la legittima libertà dei cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche […], quella che secondo il proprio criterio meglio si adegua alle esigenze del bene comune” (id., n. 3) (libertà che fatalmente poi conduce a un pluralismo comportamentale e di schieramenti tra i fratelli di fede nella loro azione pubblica)?
La questione è concreta, è ineludibile, e non è di agevole soluzione. La Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel passo citato, ricerca la corretta determinazione del problema utilizzando, tra l’altro, l’idea di “cultura”.
“Cultura” nel mondo moderno è vocabolo usatissimo e quasi mitico, anche se non gli si assegna sempre e da tutti lo stesso contenuto concettuale. Sicché una previa chiarificazione — una explicatio terminorum — normalmente si impone.
Ai fini del nostro discorso, diciamo però subito che, quale che sia il senso che di volta in volta viene preso in considerazione (almeno tra quelli più comunemente accolti e adoperati), l’esistenza nonché la legittimità semantica e non solo semantica di una “cultura cattolica” è incontestabile. E anzi proprio nel dovere di salvaguardare la “cultura cattolica” sta la risposta all’interrogativo che qui ci intrattiene. Si vuol dire che non basta a garantire l’obbligante identità del cristiano impegnato in politica che egli custodisca una convinta adesione agli articoli del Credo, rispetti la vita sacramentale, non contesti il carattere vincolante dei comandamenti di Dio. Occorre anche che resti fermamente e operosamente fedele a quella “cultura” che in ultima analisi è in modo omogeneo derivata, entro la vicenda ecclesiale, da Cristo e dal suo Vangelo; alla “cultura cattolica”, appunto.
Anzi — ammonisce la Nota — “la necessità di presentare in termini culturali moderni il frutto dell’eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo appare oggi carica di un’ugenza non procrastinabile, anche per evitare il rischio di una diaspora culturale dei cattolici” (n. 7).
A dare consistenza a queste affermazioni di principio e qualche utile articolazione al discorso, possiamo brevemente rilevare come le principali accezioni di “cultura” nell’idea di “cultura cattolica” trovino rispondenza e plausibilità.
Il significato originario (ma ancor oggi vivo) proviene da un’immagine presa dal mondo agricolo: “cultura” viene a indicare la “coltivazione dell’uomo” segnatamente nella sua realtà interiore. Già Cicerone parla di un “cultus animi”.
Dal canto loro i discepoli di Gesù non hanno mai dimenticato che, secondo il suo insegnamento, il primo e più vero “coltivatore dell’uomo” è il Padre (cfr. Gv. 15, 1) sicché ogni antropologia è autentica e davvero illuminante a misura che — almeno oggettivamente, pur se non sempre intenzionalmente — si rifà al suo disegno, nel quale l’”archetipo” di ogni umanità è stabilito nell’Unigenito fatto uomo, crocifisso e risorto. Perciò il Concilio Vaticano II ha potuto icasticamente asserire che “[…] solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes, n. 22).
In questa prospettiva si capisce come mai proprio nell’ambito del cristianesimo si sia configurato l’umanesimo più alto e meglio motivato. Già l’antichità classica era arrivata a proclamare: “Molte cose sono mirabili al mondo, ma l’uomo le supera tutte” (Sofocle, Antigone, coro del primo stasimo). Il cristianesimo accoglie e assimila l’umanesimo greco, e trasfigurandolo lo trascende sino a farne il senso, anzi la prima e immediata finalità di tutte le cose visibili, come si evince da quanto scrive sant’Ambrogio: “L’uomo è il culmine e quasi il compendio dell’universo, e la suprema bellezza dell’intera creazione” (Exameron IX, 75).
È dunque parte eminente e caratterizzante della “cultura cattolica” una antropologia tipica e inconfondibile. È un’antropologia che certo potrà anche almeno parzialmente convenire con ogni altra attenzione umanistica, purché questa sia sana e fondata sui reali valori — dovunque si trovino — di verità, di giustizia, di bellezza, dei quali l’animo umano si nutre e si adorna: coi quali, possiamo dire, “si coltiva” (come già aveva intuito il mondo classico). Ma non potrà mai identificarsi o anche solo assimilarsi a nessuna visione dell’uomo che effettivamente contraddica o si distacchi dall’ “archetipo” di ogni umanità, che è “l’uomo Cristo Gesù” (cfr. 1 Tm. 2, 5).
Proprio l’esistenza di questo “archetipo” consente e impone di difendere l’uomo da ogni manipolazione e da ogni asservimento, e arruola ogni credente a combattere ogni attentato all’immagine viva di quel Signore dell’universo, nel quale siamo stati progettati. Ovviamente la “coltivazione cristiana dell’uomo”, se non vuol restare soltanto un’astratta affermazione di principio, deve avere anche i mezzi per il raggiungimento dei propri compiti, e particolarmente per la formazione delle nuove generazioni. Il cattolico impegnato in politica non lo dovrà dimenticare.
Lungo il secolo ventesimo si è diffusa e si è imposta un’altra e ben diversa accezione di “cultura”. In essa “cultura” viene a indicare un sistema collettivo di valutazione delle idee, degli atti, degli accadimenti, e quindi anche un complesso di “modelli” comportamentali. Ogni “cultura” intesa così suppone anche una “scala di valori” proposta e accettata entro un determinato raggruppamento umano. Così si è potuto e si può parlare, per esempio, di una “cultura positivista”, di una “cultura idealista”, di una “cultura marxista”, di una “cultura radicale”.
Che esista, tra le altre, anche una “cultura cristiana” secondo questo significato, e sia per il credente necessaria e irrinunciabile, potrebbe essere negato solo da chi volesse ridurre il cristianesimo a esteriorità folkloristica o quanto meno a un puro fatto di coscienza senza alcuna risonanza nella testimonianza esteriore e nella vita.
In questo campo il discepolo di Gesù potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese con i non credenti, nella difesa di qualche principio etico o in qualche scelta operativa. Egli anzi ascolterà con rispetto e con sincero interesse le opinioni di tutti perché non dimentica che, come ripete più volte san Tommaso, “omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est” (I-II, q. 109, a. 1, ad 1: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo”).
Ma più frequentemente dovrà registrare — e in special modo quando si tratta di problemi sostanziali che toccano la natura e la dignità dell’uomo — dissonanze e incompatibilità. È molto difficile che convergano sulla stessa scala di valori coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare. Il credente dedito alla vita pubblica dovrà affrontare a occhi aperti, con serenità e con fermezza di convinzioni, le inevitabili tensioni tra le diverse “culture” che di fatto coesistono in una società pluralistica.
Senza dubbio, vivendo in un’umanità culturalmente multiforme e dovendosi comportare nell’attività pubblica secondo i dettami irrinunciabili del metodo democratico, il credente sarà spesso indotto a una volontà di mediazione e alla ricerca di posizioni pratiche condivisibili anche dagli altri; addirittura condivise dalla maggioranza, auspicabilmente, in modo da consentire un’effettiva attuazione. La politica, si usa dire, è l’arte del compromesso. La Nota della Congregazione offre opportune indicazioni perché tali “compromessi” possano essere ritenuti accettabili da una retta coscienza.
In ogni caso, bisogna far attenzione a non estendere — nell’ansia di arrivare più facilmente e più presto a conclusioni operative — l’atteggiamento di mediazione (che può essere ammissibile nel “momento politico”) anche al “momento culturale”, a scapito di una identità che non deve mai essere messa in pericolo.
C’è un terzo significato di “cultura” che, dal linguaggio delle discipline etnologiche, si diffonde a partire dalla metà del secolo XIX. “Cultura” è tutto ciò che è espresso da una determinata gente e da essa riconosciuto come proprio: la mentalità, le istituzioni, le forme di esistenza e di lavoro, le consuetudini, i prodotti dell’ingegno e dell’abilità manuale. In questo senso si può parlare di “cultura africana”, “cultura contadina”, eccetera.
Esiste una “cultura cattolica” intesa così? Esiste, perché esiste e deve esistere un popolo cattolico, con buona pace di chi ritiene che una cristianità non ci sia più e non ci debba essere. La cristianità odierna potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno inequivocabilmente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come realtà priva di continuità nel tempo, senza premesse e senza radici; né come qualcosa di puramente intellettuale, senza manifestazioni socialmente rilevabili. Ciò che non è socializzabile, e non diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella consapevolezza delle persone semplici e comuni; e alla fine si estingue.
Del resto, anche l’atto di fede — per intrinseco dinamismo — chiede di investire e trasformare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni: non solo personali e familiari, ma anche sociali.
Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati all’elevazione dell’uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (filosofia, letteratura, arti figurative, musica, diritto, eccetera) portano evidenti in sé i segni della visione cristiana.
Tra i compiti del cattolico politicamente impegnato c’è anche quello di tutelare, far conoscere, far apprezzare — anche al servizio di un vero umanesimo — questo nostro impareggiabile “tesoro di famiglia”.
+ Card. Giacomo Biffi
Arcivescovo di Bologna