Intervento a un incontro pubblico sulla riforma della scuola dal titolo Per la libertà nella scuola e nell’educazione, promosso da più organismi, cattolici e non, interessati alla problematica educativa e scolastica, svoltosi nella Sala Estense, a Ferrara, il 15-3-1997. Testo diffuso dalla segreteria dell’arcidiocesi.
Cristianità, 265-266 (1997)
Penso che sia importante, anzi necessario, chiarire subito la ragione della mia presenza a un dibattito come questo, e quindi l’ambito preciso della mia competenza dentro di esso. La chiarificazione è necessaria in quanto in questo incontro si discuterà anche di leggi civili, di circolari ministeriali, di programmi di governo: cose tutte queste sulle quali in una certa misura il Vescovo deve tacere. Ho detto “in una certa misura”: quale? La necessaria chiarificazione della ragione e competenza della mia presenza s’impone. E questo sarà il primo punto della mia riflessione.
1. Il problema di fondo che ci vede oggi qui riuniti è il problema dell’educazione della persona umana. Più precisamente è il problema dell’educazione in quanto genera, per così dire, due domande fondamentali: che cosa significa educare? Chi ha il diritto di educare e quindi deve possedere la libertà di farlo?
Prima di rispondere a queste due domande, vorrei mostrare che esse dimorano a pieno diritto nel cuore stesso della Chiesa, poiché dimorano a pieno diritto nel cuore stesso dell’esperienza di fede dei credenti. E ciò risulta da due punti di vista.
Il primo e più importante. Nel problema dell’educazione è coinvolta al massimo grado la sollecitudine, la preoccupazione per l’uomo: è il problema della costruzione dell’umano, della genesi dell’umano che è qui in questione. Ora la fede cristiana si definisce come incontro con una Persona, il Figlio di Dio morto e risorto, che ricostruisce l’uomo nella sua interezza. Non sono mancati Padri della Chiesa che anziché dire fede cristiana usavano dire, in modo perfettamente sinonimico, paideia — cioè “educazione” — cristiana. Dunque impedire alla fede cristiana d’implicarsi nel problema educativo equivale semplicemente a impedire alla fede cristiana di esistere.
Il secondo punto di vista è una conferma del primo. La Chiesa è stata una grande “inventrice” di luoghi educativi. L’università è stata una sua invenzione: la più grande, credo. La scuola, così come ora è strutturata, è stata inventata da san Giuseppe Calasanzio. Tutto ciò non è accaduto per caso. Senza questa profonda consapevolezza della reciproca incidenza di fede ed educazione, non avrebbe senso la profonda passione che la Chiesa deve avere per il problema educativo.
Ma qui non stiamo parlando di esso in modo generico. Siamo qui per discutere su un progetto o progetti di interventi da parte dello Stato nell’ambito educativo-scolastico: la preoccupazione della Chiesa dovrebbe fermarsi di fronte ad essi?
Ci troviamo oggi di fronte ad una singolare concezione di pluralismo in forza della quale si tende, di fatto non in teoria, a chiedere ai soli cattolici di mettere fra parentesi, quando entrano nella vita pubblica, la loro visione della persona umana, di prescindere da questa visione. A dire il vero non mancano giustificazioni anche teoriche di questa richiesta. Esse si fondano tutte sul supposto vincolo indissolubile fra democrazia e relativismo morale. Credo che questo sia uno degli errori più gravidi di conseguenze negative per il nostro popolo (cfr. Centesimus Annus 46 e Veritatis Splendor 101).
Se, infatti, la distinzione fra “giusto” e “ingiusto” dipende solo da ciò che stabilisce la maggioranza o la convenienza sociale, viene tolta alla nostra convivenza ogni sicuro punto di riferimento e si rischia di cadere in un totalitarismo non meno grave perché più nascosto e subdolo.
Dunque, la preoccupazione della Chiesa per l’educazione dell’uomo non deve fermarsi ai confini dell’intervento statuale nell’ambito dell’educazione stessa.
Ma la Chiesa è una realtà concreta, storicamente situata, fatta di persone con “funzioni” diverse. Perciò il discorso sull’intervento della Chiesa deve articolarsi con grande precisione, sulla base di due presupposti.
a. È la Chiesa come tale, in quanto soggetto storico, che ha la responsabilità d’intervenire nell’ambito educativo.
b. Nella Chiesa diversa è la missione — il modo di partecipare alla missione della Chiesa — dei Pastori e dei laici. La missione dei laici è di “[…] risanare le istituzioni e le condizioni del mondo […] così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia” (Lumen Gentium 36): in questo modo la società sarà sempre più a misura della verità della persona. La Chiesa sta o cade nella sua efficacia salvifica a seconda che i laici vivano o no questa loro missione.
La missione dei Pastori è di indicare gli orientamenti fondamentali e i criteri di giudizio delle soluzioni o proposte in cui si trovano coinvolti i laici credenti.
Ho così risposto alla prima domanda: la Chiesa deve intervenire nel dibattito attuale sul problema scolastico-educativo. Nella persona del Vescovo, offrendo criteri fondamentali di giudizio che orientino i fedeli laici, ai quali spetta in proprio giudicare e realizzare una vera politica dell’educazione.
2. Nel secondo e ultimo punto della mia relazione vorrei indicarvi quei criteri fondamentali di giudizio di cui vi parlavo o, se volete, gli obiettivi che devono essere perseguiti da una vera “politica dell’educazione”.
Il primo fondamentale obiettivo è il riconoscimento formale e pratico che l’educazione della persona umana compete originariamente alla famiglia. Originariamente significa che la famiglia è in questo ambito insostituibile. Questo riconoscimento implica necessariamente almeno tre esigenze: necessariamente significa che se esse non sono rispettate, il riconoscimento della priorità della famiglia è puramente verbale.
— Deve esistere una vera e propria libertà di educazione, che significa la concreta possibilità di ogni famiglia di educare secondo quella visione della vita che ritiene essere vera, e quindi di poter effettivamente scegliere.
— Perché esista questa libertà, è necessario il riconoscimento pieno dell’autonomia e della parità scolastica: senza questo riconoscimento, parlare di libertà di educazione ha il solo significato… di far prendere aria ai denti.
— È necessario che la famiglia sia di fatto ritenuta la vera e propria interlocutrice diretta della scuola.
Il secondo fondamentale obiettivo per una vera politica dell’educazione è una corretta presenza dello Stato nell’ambito dell’educazione medesima. È fuori dubbio che esiste un dovere-diritto dello Stato di creare le condizioni migliori perché il diritto fondamentale della famiglia di educare e di ogni persona a essere educata sia difeso e realizzato. Il problema più delicato è precisare il contenuto di questo dovere-diritto dello Stato.
— Il primo dovere dello Stato è di difendere e promuovere il diritto nativo della famiglia a educare.
— Si deve negare un diritto dello Stato a formulare, avanzare proposte educative: suo compito non è educare, ma far sì che tutti i cittadini possano essere educati. La posizione dello Stato e della famiglia nei confronti dell’educazione è essenzialmente diversa: mentre la famiglia vi è originariamente e internamente coinvolta, lo Stato vi è coinvolto in un ruolo puramente suppletivo ed esterno, cioè non ha fra i suoi compiti specifici quello di educare.
— Il mezzo fondamentale perché lo Stato compia questo suo dovere è l’istituzione di un sistema scolastico proprio. Non avendo lo Stato una sua propria “proposta educativa” — e non la deve avere —, nella scuola deve essere riconosciuta una piena autonomia e libertà educativa. È necessario far emergere chiaramente la dimensione educativa della scuola, incentrata sulla persona nel riconoscimento — di cui già ho parlato — della famiglia come interlocutrice diretta della scuola.
E siamo al terzo fondamentale obiettivo che di fatto assicura la realizzazione dei due precedenti: realizzare un vero sistema formativo integrato. Mi spiego.
Esiste uno “stile architettonico” cristiano nella costruzione del sociale umano. Cristiano non nel senso di pertinenza esclusiva del credente, ma perché di fatto esso è stato inventato dalla fede cristiana, ed è condivisibile da ogni retta ragione. Esso si definisce con due affermazioni: primato della persona, principio di sussidiarietà. In forza di essi, lo Stato ha un ruolo suppletivo. Non in senso negativo: essere il meno presente possibile nella vita associata, ma in senso positivo: riconoscere e promuovere quelle strutture antropologiche fondamentali — matrimonio e famiglia in primo luogo —, che sono la “casa” dell’uomo.
Tocchiamo qui un punto nodale della crisi non solo dell’educazione, ma dell’intero assetto sociale del nostro popolo. Nei progetti di riforma del cosiddetto “Stato sociale”, la scelta più efficace, meno dispendiosa e soprattutto più vera, per far fronte alle difficoltà del momento, è il riconoscimento pieno e sostanziale della famiglia. Nella sua soggettività e nei compiti che le appartengono nativamente. Primo fra questi, quello di educare. Ecco che cosa intendo per sistema educativo integrato. Penso che questa sia la vera sfida del domani.
Conclusione
Ciò che ho detto, chiede di essere attuato in precise decisioni pratiche sia giuridiche, sia istituzionali. Ma, a questo punto, devo tacere. Ora il compito, il più difficile, compete a voi: nella luce di quelle esigenze originarie che ogni retta ragione, che non voglia asservirsi a nessun potere, riconosce.
+ Carlo Caffarra
arcivescovo
di Ferrara-Comacchio