Conferenza tenuta da S. E. mons. Kurt Krenn, vescovo ausiliare di Vienna, il 26 settembre 1988, in occasione del conferimento di un’onorificenza intitolata a S. E. il card. Opilio Rossi, a Klosterneuburg. Il testo — in una traduzione redazionale, e pubblicato con l’autorizzazione dell’autore — è comparso in AKV Informationen, n. 4/88, pp. 6-25, con il titolo Erziehung aus katholischer Sicht.
L’uomo d’oggi nel mondo d’oggi deve mostrare di avere preoccupazioni e pensieri. Agli attuali esercizi obbligatori di preoccupazione appartiene una serie di temi che sono presenti in tutto il mondo, che superano sempre evidentemente le capacità del singolo uomo e necessitano quindi di una strategia, che però nessuno conosce esattamente. Se oggi si vuol mostrare di essere pienamente coscienti dei problemi mondiali si devono ricordare con una certa regolarità quelle preoccupazioni che oggi vengono considerate come più gravi: oggi si deve parlare di inquinamento, di distruzione e di avvelenamento dell’ambiente; si deve discorrere del pericolo atomico e della corsa agli armamenti; non si devono dimenticare il Terzo Mondo e il problema del debito estero; ci si deve indignare per la politica dell’apartheid; ci si deve mostrare esperti di politica energetica; bisogna essere informati sulla morte dei boschi e degli animali; si deve essere alla ricerca di una qualità della vita più alta; crescita e progresso economici e tecnologici necessitano del nostro commento critico; ci si deve interessare dei gruppi sociali marginali; in tutte le occasioni possibili si deve mettere tutto in relazione con la “società”; insieme a tutte le questioni si deve tener conto della “questione femminile”; ci si deve mostrare preoccupati per la droga e per l’alcool; si deve essere in grado di interpretare tutto in termini psicologici, sociologici e politici; si deve pretendere l’informazione completa.
Tutto quanto viene esposto in questo modo ha una dimensione addirittura mondiale. In passato era compito della preghiera impetrare protezione dalla guerra, dalle epidemie, dal terremoto e da altre catastrofi, preoccupandosi della propria conversione personale e della benevolenza divina. L’impotenza dell’uomo di fronte ai problemi mondiali è rimasta pressoché la stessa di prima, ma la protesta, la dimostrazione e la discussione hanno sostituito spesso la preghiera. Naturalmente oggi disponiamo di molte nuove e utili conoscenze per affrontare molti problemi mondiali. D’altra parte, però, la consapevolezza della insolubilità di molti dei problemi più importanti sembra essere maggiore che in passato. In ciascuno di questi problemi più importanti l’”uomo” è coinvolto direttamente o indirettamente. Proprio il fatto che l’uomo venga posto al centro dei problemi più importanti non consente più di riflettere su tali questioni come su questioni riguardanti solo la scienza, la ricerca, la tecnologia e l’osservazione del mondo delle cose. Diventa chiaro che l’uomo, che è il centro dei problemi, non può essere misurato dalla scienza, dalla ricerca e dalla tecnologia. Infatti l’uomo stesso rimane, in mezzo a tanta scienza e a tanta scientificità, la “spina della realtà”, che non si sa come prendere. In altri termini: proprio l’impossibilità di esaminare compiutamente l’uomo con i metodi scientifici rende manifesto un altro ordine di problemi e un’altra realtà. Infatti, a proposito dell’uomo e attraverso l’uomo si pone il problema del bene e del male, del lecito e dell’illecito; la scienza in quanto tale non è sensibile a un tale problema.
In tal modo si pone la domanda: dove l’uomo raggiunge il fondamento e anche il vertice del suo essere? È sorprendente quanto l’uomo oggi può calcolare matematicamente, quanto può osservare e collegare, quanto può pensare e fare. Qualcuno osa già proporre l’equivalenza: quanto è immaginabile è anche fattibile; tutto è fattibile, basta che sia elaborato scientificamente in modo adeguato. L’uomo ha quindi raggiunto il massimo quando ha ridotto il suo mondo ai giusti schemi mentali, così che può fare quanto ha pensato? I comandamenti e i divieti, l’obbligo di fare o di non fare qualcosa, indicano così solamente che qualcosa non è stato ancora adeguatamente elaborato in modo scientifico? È immaginabile quindi la condizione che un giorno per l’uomo non saranno più necessarie né leggi, né comandamenti, né divieti, in quanto tutto viene pensato e conosciuto nel modo giusto? Il centro del mondo è quindi il pensiero, la conoscenza, il calcolo e la fattibilità?
Oggi una tale domanda può sembrare ancora utopistica; ma la risposta che si dà a essa ha già da molto tempo un aspetto molto pratico. La risposta a questa domanda ci dice di cosa ha bisogno l’uomo. Se l’intimo della realtà, infatti, è costituito dalla razionalità della conoscenza e del calcolo, allora l’uomo, che deve maturare all’interno del proprio mondo, ha bisogno di conoscenza e di addestramento; con una “istruzione” così intesa l’uomo sarebbe adatto alla vita e al mondo nel senso più lato del termine. Ma l’uomo non ha bisogno oltre a questa “istruzione” di quello che noi chiamiamo “educazione”? Non è sufficiente che l’uomo con la sua “istruzione” abbia l’”immagine” corretta della realtà? L’uomo non si comporta in modo profondamente razionale già solo con l’istruzione, di modo che decide rettamente, agisce correttamente, vive pacificamente, sa appianare i conflitti e risolvere gli enigmi? A che pro, dunque, l’educazione, se tutto spetta propriamente all’istruzione e all’abilità?
L’educazione si fonda sul fatto che l’uomo è dotato di libertà; nella sua libertà l’uomo può fare quanto non viene calcolato; egli può decidersi per questo o per quello, può agire o non agire.
Nella storia della cultura l’uomo è stato spesso tormentato dal quesito se libertà e ragionevolezza in ultima analisi non siano la stessa cosa. Si potrebbe arrivare facilmente alla convinzione che la libertà è solo arbitrio, che la libertà è solo uno stadio rudimentale e imperfetto della ragionevolezza. Si potrebbe essere tentati di pensare, che la libertà dell’uomo dovrà, un giorno, cedere alla ragionevolezza. Ma allora l’educazione è proprio la via giusta, se tutto deve sfociare nella pace per ragionevolezza?
Tali questioni di principio suonano molto lontane dalla realtà, se si pensa ai problemi concreti dei genitori e degli educatori. Non sarebbe meglio e più semplice aggiungere un paio di buoni e sani consigli? Ma perché l’educazione si trova in una crisi di dimensioni mondiali e in uno stato di disorientamento? Perché anche l’istruzione ha perso attrattiva ed efficacia? Perché l’istruzione si cimenta con tutti i contenuti possibili e ammette poi sempre la propria lontananza dalla vita? È tipico delle lamentazioni inevitabili che vengono intonate al giorno d’oggi, denunciare la difficoltà di definire i temi dell’istruzione, che devono essere trattati soprattutto nell’insegnamento scolastico. In mezzo a un mondo pieno di cose da conoscere e che val la pena di imparare risulta molto difficile e discussa la scelta dei contenuti dell’istruzione fondamentali e che devono formare la vita. Quasi nessuno osa prescrivere concretamente l’istruzione generale o addirittura l’istruzione umanistica.
Difficoltà ancora maggiori presenta la questione dell’”educazione”, dei suoi fondamenti e dei suoi criteri. La qualità dell’”istruzione” può essere controllata e misurata esaminando le conoscenze e le capacità delle persone che sono state istruite. Ma se uno ha avuto educatori, è stato educato o ha avuto addirittura un’educazione secondo un determinato programma? “Educazione” non è evidente come “istruzione”; educazione non ha necessariamente a che fare con il sapere; educazione dà nell’occhio, quando assomiglia piuttosto ad addestramento. Ma l’educazione sembra essere riuscita meglio quando meno si nota nella persona educata. L’educazione è riuscita se ha prodotto un uomo, che in tutte le situazioni presenta una disposizione al bene. Numerosi attributi esigono quanto deve produrre un’educazione riuscita: fidato, onesto, resistente, giusto, veritiero, fedele, ottimista, responsabile, benevolo, altruista, gentile, aperto, pieno di spirito, rispettoso dei valori, controllato, attento, franco, coraggioso, perseverante, coscienzioso, desideroso d’imparare, umano, realista, obbiettivo, imparziale, socievole, consapevole delle responsabilità sociali, lieto, dotato, con un atteggiamento positivo nei confronti della vita, intrepido ma timorato di Dio, recettivo, pio e molti altri aggettivi sono i termini che colleghiamo a un’educazione riuscita e cristiana. E deve essere la stessa persona a realizzare tutto questo in sé e a vivere conformemente. Il sapere e l’istruzione possono essere ripartiti tra diverse persone di modo che, in molti casi, una persona può aiutare e completare l’altra. Invece l’educazione riuscita è qualcosa di indivisibile perché deve realizzarsi nello stessa persona tutto quanto rende l’uomo educato disposto al bene in ogni situazione: uno non può essere fedele e un altro obbiettivo, uno onesto e un altro coraggioso, uno timorato di Dio e un altro gentile. Per l’educazione tutto l’uomo e il singolo uomo è la sfida, che non è possibile dividere e ripartire.
Anzitutto è sicuramente nel bambino e nel giovane che si manifesta l’impellente esigenza di educazione. Certamente può sembrare che l’oggetto preferito dell’educazione sia soprattutto l’uomo giovane e inesperto. Ma la vera realtà dell’uomo è tale da poter ripartire i “ruoli” dell’educazione? Vi può essere veramente antitesi tra educando e l’educatore non-educando? Si può ripartire l’educazione in tali ruoli, se si tratta dell’uomo intero? Vi è qualcosa di completo e di comune, che può superare questa contrapposizione di ruoli o che addirittura fa dell’educando un educato e dell’educato un educando?
L’espressione “crisi dell’autorità” nell’educazione è diventata da molto tempo un abusatissimo luogo comune. La crisi dell’autorità è generata da quella valutazione erronea dell’educazione, che vede nell’educazione qualcosa di divisibile e di graduale. Senza dubbio possiamo osservare crescita e maturazione nel processo educativo; un tale processo può essere diretto, ottimizzato e stabilizzato con i metodi scientifici più disparati. Ciononostante anche i metodi e le strategie educativi più differenti, sviluppati proprio nel nostro tempo, hanno potuto modificare solo in piccola parte quanto si cela sotto il nome di crisi dell’autorità. La vecchia immagine del padrone e del servo ricompare di continuo, quando gli educatori educano e gli educandi vengono educati. Questo fa scaturire dall’educazione ribellione, rifiuto, indifferenza, rassegnazione, disprezzo per l’uomo, addestramento, adattamento, soggezione, disamore, fanatismo, parzialità, egoismo e crudeltà. E quanto più sottili e raffinate diventano le strategie con cui vengono separati l’educare e l’essere educati, tanto più, spesso, crescono la rabbia e il rifiuto degli interessati. L’educatore diventa sempre più l’”esperto” del suo ruolo e l’educato diventa sempre più il caso clinico.
Contro questa contrapposizione dei ruoli, che spesso si accentua anche senza volerlo e che fa diventare in tutto il mondo l’educazione sempre più una preoccupazione e un problema, fede e dottrina della Chiesa possono proporre una visione dell’uomo completamente differente. Si tratta della concezione della verità sull’uomo, che vi può essere solo in una concezione che vede l’uomo nel suo rapporto con Dio. Questa concezione dell’uomo non si propone, come una “nuova pedagogia”, di mettere da parte tutto quanto esperienza di vita, scienza e la simpatia verso l’uomo hanno faticosamente riconosciuto e hanno reso praticabile. Quest’altra concezione dell’uomo può però mostrare che l’uomo è una realtà che trascende tutti i metodi, i ruoli e le strategie dell’educazione. Questa concezione dell’uomo sostiene che egli non dimostra la propria identità di uomo solo con l’educazione. L’educazione costituisce certamente la realizzazione necessaria della natura umana, ma essa è fatta per l’uomo, non l’uomo per l’educazione. L’educazione si deve regolare sull’uomo prima di stabilire le proprie regole.
Per le persone concrete si possono dare differenze: vi sono uomini e donne, vi sono numerose professioni, vi sono diverse età e gradi di maturità, vi sono differenti qualificazioni, vi sono differenti situazioni ambientali e compiti nella vita. Nonostante tutte queste differenze ogni singolo uomo mantiene una totalità e una indivisibilità, che è già da sempre presente nella natura umana. Come l’uomo, anche se volesse, non potrebbe rinunciare a essere uomo, così l’uomo si pone davanti a tutti i fini dell’educazione come qualcosa di intero, di indivisibile e di attuale. La filosofia cristiana e la teologia possono esprimere questa concezione completamente diversa dell’uomo con un’unica parola: l’uomo è “persona”.
Vi è una lunga tradizione filosofica che ritiene che l’uomo nasca e venga al mondo come una tabula rasa, come un essere completamente inesperto e ignorante. Quindi il bambino e il giovane sembrano essere un vivente a cui gli altri devono insegnare tutto, dalla conoscenza al comportamento. A questo modo il mondo sembra articolarsi sempre nella stessa contrapposizione dei ruoli: da una parte gli insegnanti e gli educatori, dall’altra quanti vengono istruiti ed educati. Quindi educazione e istruzione sembrano essere solamente il risultato dell’influenza di fattori umani e ambientali; la conclusione che se ne potrebbe trarre sarebbe quindi che educazione e istruzione vengono fatte da altri, educazione e istruzione sono solamente l’espressione di quanto è “fattibile”, sono quanto è stato fatto. Così appare chiaramente che l’uomo nella sua globalità è soltanto quanto di lui è stato fatto da parte di altri. Volendo prendere in considerazione l’uomo senza tener conto della storia della sua esperienza concreta, si dovrebbe parlare di una “x” totalmente incognita, il cui valore sarebbero l’educazione e l’istruzione ricevute.
Si può accettare tranquillamente una tale concezione dell’uomo quando si prende in considerazione l’influsso nell’educazione e nell’istruzione delle altre persone e dell’ambiente. Ma si deve respingere categoricamente un’equiparazione completa; questa equiparazione erronea potrebbe voler dire che l’uomo è quanto può essere fatto e quanto è stato fatto non è solamente quanto può essere fatto ed è stato fatto. Questa equiparazione contraddice la verità cristiana sull’uomo.
Si può senz’altro affermare che nell’uomo e all’uomo non succede niente che non sia stato fatto. Tuttavia la visione cristiana dell’uomo conosce quella realtà che nell’uomo non è fattibile e non è neanche stata fatta. La fede e la dottrina della Chiesa utilizzano a questo proposito espressioni e concetti della Rivelazione e della riflessione teologica: Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza; l’uomo come creatura di Dio è differente e superiore a tutte le altre creature visibili; e il Concilio Vaticano II afferma che l’uomo “in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa” (1); ogni uomo è unico e irripetibile; ogni uomo è l’espressione di un’unica intenzione di Dio a suo proposito; proprio ogni singolo uomo costituisce tutta la ragione per cui Dio ha creato il mondo e si è assunto l’opera della Redenzione; non sono le prestazioni, le ricchezze, il successo o il potere, ma solo l’”esser uomo” conferisce a ogni uomo diritti inalienabili, che nessuno può né dare né togliere, ma che ciascuno deve riconoscere e accettare. Soprattutto la dottrina sociale cattolica utilizza il concetto di “persona” per designare la realtà originaria, non fatta e indistruttibile dell’uomo e dichiara che ogni uomo è persona. Oggi si incontra spesso al posto di “persona” un termine di pari grado. Noi diciamo che con l’uomo ogni uomo è di una “dignità” indistruttibile e insuperabile.
Cosa vogliono dire l’uomo come persona e la dignità dell’uomo? Persona e dignità sono assolutamente originari, cioè essi trovano il loro fondamento nell’azione creatrice di Dio e non possono essere né fatti né distrutti. La destinazione ultima e decisiva dell’uomo è soltanto che l’uomo, per così dire, “diventi uomo” nel corso del suo sviluppo; la dimensione personale e la dignità dell’uomo mostrano che, sempre e fondamentalmente, l’”uomo è”. Anche quando educazione e istruzione hanno scritto le pagine bianche del libro della vita di un uomo, non sono state loro a “fare” quanto costituisce l’essere persona e la dignità dell’uomo. Se quindi persona e dignità sono qualcosa di originario che precede tutto quanto è fattibile, allora educazione e istruzione non possono trattare l’uomo come un semplice “essere vivente”, a cui bisogna insegnare a camminare, a parlare, a scrivere, a scegliere, a pensare, a ringraziare, a pregare, ad aiutare, e così via. Nulla di quanto possono dare l’educazione e l’istruzione produce o costruisce la dignità e l’essere persona dell’uomo; ma quando si tratta di persona e di dignità, educazione e istruzione assumono una forma diversa. Anche se può sembrare che tutti gli educatori e gli insegnanti facciano le stesse cose, vi è una differenza sostanziale se essi si orientano alla persona e alla dignità dell’uomo, o se lo considerano unicamente come un “essere vivente” da istruire o da educare.
Già all’inizio delle nostre considerazioni abbiamo precisato che l’istruzione è divisibile e può essere ripartita fra diverse persone. Al contrario l’educazione — vale la pena di ribadirlo ancora una volta — è indivisibile e tutta la pedagogia deve andare a vantaggio di ogni singolo uomo nella sua totalità. Per dimostrare che l’educazione è legata più strettamente alla verità sull’uomo può essere addotto un altro argomento, cioè che educazione non è primariamente trasmissione del sapere. L’educazione ha per centro quella realtà dell’uomo che nulla può dividere, nulla può dare, nulla può aprire, nulla può sostituire. Questo centro dell’educazione è la dignità dell’uomo, originaria e non fatta, sempre valida, che esige sempre la totalità. Per questo non vi può essere nell’educazione nulla che prima si può lasciar passare, per poi forse correggerlo in un secondo tempo. L’educazione nella dignità non conosce neanche supplenze sicché uno potrebbe fare questo e un altro quello dando come somma il comportamento giusto. Ogni uomo deve assumersi tutto, ora e non dopo, lui stesso e non un altro, tutto e non una parte. Solo se la dignità dell’uomo può far valere la propria indivisibilità vi può essere un’educazione che è più di una strategia pedagogica, più di un gioco delle parti pedagogico, più di un addestramento del comportamento, più di un’imposizione perentoria del più forte, più di una semplice socializzazione, più di un’autorealizzazione guidata dall’egoismo, più di una gentilezza ipocrita e più di un adattamento opportunistico.
Però, finché l’educazione non è diventata un tutto incondizionato e criterio per l’educazione, si rimane alla fissazione di ruoli contrapposti, a continue prove di forza, a prepotenza o a opportunismo, all’impazienza senza pietà. Precisiamo ancora una volta che nell’educazione nessuno può rinunciare all’armamentario di molti passi faticosi, né all’alternarsi di successi e di insuccessi, né a pazienti tentativi e a ripetizioni, né al miglioramento del sapere, né a metodi migliori. La crisi dell’educazione non viene neppure da questo armamentario. La crisi dell’educazione deve comparire ovunque l’educazione non viene considerata un evento della dignità dell’uomo. L’educazione come evento della dignità: questo significa che solo in apparenza l’educazione procede da maestro ad allievo, da superiore a sottoposto, da adulto a giovane, dai genitori al figlio, dall’esperto all’inesperto, dall’educatore all’uomo che gli è stato affidato. L’educazione avviene da un uomo a un altro uomo. Certamente vi è tra gli uomini il vantaggio del sapere, l’esperienza del più anziano, la maggiore pratica e competenza: tutto questo potrebbe significare una subordinazione dell’educando rispetto all’educatore, la priorità dell’uno sull’altro. Oggi anche gli allievi partecipano alle consultazioni e alle decisioni, hanno la possibilità di controllo e di veto, la loro simpatia e il loro rifiuto possono essere organizzati; da molto vi è il sospetto costante e istituzionalizzato che solo insegnanti e genitori, ma non i giovani debbano render conto degli insuccessi. Con questi opposti in una realtà complessa l’educazione diventa sempre più un tipo di politica, per mezzo della quale vengono amministrate e ripartite esperienza, sapere, potere, visione del mondo, interessi e strutture. L’educazione come una nuova forma di politica per contrapposizioni in ultima analisi potrebbe confermare ancor più l’opinione secondo cui l’educazione è solamente un processo in cui viene fatto qualcosa.
Quando mai oggi un uomo osa affrontare un uomo semplicemente come un uomo? Si cerca piuttosto di provare la propria identità di fronte agli altri grazie a conoscenza, titolo, carica, ricchezze, prestigio, preminenza, superiorità e anche apparenze. In questo modo l’educazione potrebbe deformarsi in quella coercizione di dover sempre pretendere qualcosa dagli altri. Con un’educazione incentrata su quanto può esser fatto l’educatore potrebbe abusare della parola di Dio e affermare: facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, a misura di noi stessi. E il giovane si ribellerà a tali esempi perché non si riconosce in essi.
L’educazione in senso cristiano deve essere qualcosa d’altro. L’educazione in questo senso deve essere riflessione su Dio. Poiché propriamente ogni uomo è immagine e somiglianza di Dio semplicemente grazie al suo essere uomo. Questa immagine di Dio nell’uomo, cioé la sua dignità, non la possiamo “fare”, ma piuttosto “scoprire”, onorare, accettare e amare. Questo significa molto semplicemente che l’uomo non va fatto, ma sempre amato. Anche se nessun mezzo educativo ha avuto successo, il cristiano sa sempre chi è l’uomo, cioé immagine di Dio e massima dignità. Educatore ed educato si troverebbero allora di colpo in una nuova prospettiva: essi hanno davanti un’immagine dell’uomo che non hanno fatto e non possono fare, ma che costituisce la loro comune dignità; educazione come ricordo realizzato in comune dell’origine divina dell’uomo, perché l’uomo è immagine e somiglianza di Dio.
L’educazione cristiana, cattolica, deve fare, nel vero senso della parola, questo passo essenziale: dall’”essere vivente uomo” educabile alla dignità dell’uomo, all’uomo degno di essere amato. E nella visione di Dio creatore l’uomo è sempre e solo l’uomo intero; l’uomo non è un po’ uomo e poi più uomo; non uomo a tempo; non uomo che può rinunciare a essere uomo; non un uomo che può essere sostituito. Chi concepisce l’uomo così può apprendere dall’uomo stesso quella totalità senza la quale non vi può essere educazione degna dell’uomo. Quindi, a proposito della crisi dell’educazione, si può anche dire che gli errori e gli insuccessi dell’educazione dipendono dal fatto che l’uomo nella sua totalità viene misconosciuto, che l’uomo diventa oggetto dell’educazione, nonostante possa essere solamente soggetto dell’educazione, perché l’educazione deve essere un evento della dignità, un evento da uomo a uomo.
Dalla totalità inattesa dell’uomo dipende il tragico insuccesso anche di quella educazione, che ha certamente le migliori intenzioni nei confronti dell’uomo, ma non lo prende sul serio. In questo caso educazione è soltanto mentalità da terapeuta, ben intenzionata, ma che non vuole che l’uomo sia del tutto uomo. A volte si incontra oggi questo tipo di educazione anche in istituti ecclesiastici, dove giovani non riescono a svilupparsi adeguatamente perché sono oggetto di molta bontà e di esperienza smisurata, ma non vengono sfidati a un’esistenza umana autonoma e contemporaneamente riferita a Dio. Le decisioni necessarie e libere dei giovani vengono provate in interminabili processi di gruppo e realizzate in pratiche spesso prive di senso. In questo modo passa in secondo piano il fatto che ogni momento dell’educazione, anche l’ultimo, non è un’esercitazione, ma un caso serio. Quando educazione è realmente il ricordo dell’origine divina realizzato in comune da chi educa e da chi è educato, non si può “esercitarsi”, si tratta sempre della totalità dell’essere umano che ha il suo fondamento in Dio.
L’educazione può quindi essere una specie di scuola dell’”abitudine”? L’abitudine si lascia insegnare, solo se l’uomo viene considerato come un essere vivente che, per esempio, deve correre più velocemente, scrivere e fare i conti meglio o comportarsi più avvedutamente. La scuola dell’abitudine rimane però in balia della moda se l’educazione non è un evento radicale della “coscienza”. Agli inizi l’abitudine può essere qualcosa di assolutamente positivo perché si può abituare l’uomo, per esempio, a pensare e ad agire, ad allenarsi e a comportarsi socialmente, a vivere rispettando l’ambiente, ad adempiere a certi compiti, a vivere in modo sano e a essere puntuale. Ma quanto è solo abitudine e nient’altro che abitudine non è ancora radicato nell’uomo, viene determinato dall’ambiente e dalla situazione e viene causato da costrizioni e da scopi esteriori.
Oggi vi sono sistemi morali che confondono l’abitudine con la norma ed elevano il puro fattuale dell’azione umana a norma. Così le abitudini umane ricevono il titolo di mutevoli regole di comportamento; il comportamento di una “maggioranza” quantitativa della popolazione assurge a “morale”, in quanto avviene maggioritariamente; il comportamento morale non si giustifica più come comandamento divino o legge, ma come comportamento di una base, di una maggioranza o di un gruppo ideologizzato; infine, si contrappone la “vita” alla “dottrina” e ci si considera particolarmente umanitari se si accentua la “vita” e si dimentica la “verità della dottrina”. Si parla di morale e di etica e si intende solo l’amministrazione fattuale dell’abitudine umana. In una tale concezione della morale l’abitudine umana, con tutte le sue superficialità, soppianta la verità nelle decisioni e nelle azioni dell’uomo. Già il profeta Isaia conosce questo connubio tragico e cinico di uomini traviati e di profeti vacillanti, per i quali la verità non ha alcun valore, quando dice: “[…] questo è un popolo ribelle, sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore. Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti “[…] profetateci illusioni! Scostatevi dalla retta via, uscite dal sentiero, toglieteci dalla vista il Santo d’Israele”” (Is. 30, 9-11)
Oggi si riflette molto e si fanno molti tentativi anche nell’ambito dell’educazione. Oggi le teorie pedagogiche si sono arricchite di molti campi d’esperienza: coscienza ecologica e salute, strategie per la soluzione dei conflitti e giochi di contatto, discorso democratico, la totale verbalizzazione dei sentimenti, la competenza di esprimersi su tutto e di giudicare tutto, il sospetto sistematico contro ogni forma di dipendenza e di autorità, la liberazione dall’ansia, la trasformazione di tutto il mondo a misura dell’ego dell’esperienza soggettiva, il controllo del comportamento tramite piacere e profitto — questi sono soltanto alcuni campi nei quali viene esercitato l’essere umano educato modernamente. Vi possono essere molte ragioni perché si fa tutto questo, per esempio perché libera dall’ansia, perché rende indipendenti, o semplicemente perché è utile. Da tempo l’educazione è divisa, e talvolta addirittura contraddittoria, non solo nei suoi procedimenti, ma anche nei suoi motivi. In tal modo educazione diventa sempre più ottimizzazione dell’abitudine perseguita di volta in volta. E nessuno di tali motivi raggiunge quella profondità dell’uomo, che è la sua immagine e somiglianza di Dio, nessuno raggiunge perciò la profondità del timor di Dio.
Il bisogno, gli insuccessi e la crisi dell’educazione non sono però il problema degli esperti di pedagogia. Il problema dell’educazione rispecchia quella perdita del senso del divino che interessa tutti gli ambiti della vita, tutti i modi di pensare e tutte le motivazioni. Infatti, quale può essere il fondamento e il fine di qualcosa, se l’uomo stabilisce da sé il proprio inizio e il proprio fine? L’uomo che non riconosce niente di originario, di superiore e di prefissato, terminerà sempre a sé stesso e non saprà mai chi è veramente.
Comunque, anche nell’educazione vi è la riuscita rivelazione dell’essere uomo. Se tutto quanto l’uomo ha appreso come capacità e come abilità per mezzo dell’abitudine deve avere un fondamento, una misura e un centro ordinatore, allora nell’educazione dell’uomo si deve passare dall’abitudine che può essere prodotta alla coscienza.
Coscienza? Coscienza invece di abitudine? Coscienza come l’elemento più umano, ma non fatto dall’uomo? Vi è veramente una coscienza, e da dove viene? La coscienza è forse solo un concatenamento di abitudini e nient’altro? Senza dubbio la coscienza dell’uomo ha a che fare essenzialmente con l’anima e con lo spirito. Quindi, quando si negano anima e spirito si faranno anche affermazioni inesatte sulla coscienza e sull’azione morale determinata da essa.
Fra tutte le creature visibili del mondo, l’uomo è l’unico a distinguere e a poter distinguere il “bene” e il “male”. Gli animali e tutti gli altri esseri viventi conoscono l’”utile”, l’adeguato, quanto conserva l’individuo, quanto conserva la specie, il concorrente e il nemico; essi possono solo riferire tutto a sé stessi, alla loro specie e alla totalità della loro vita; i criteri del loro comportamento non superano questa dimensione. Invece la differenza fra “bene” e “male”, riconosciuta dalla coscienza umana, può essere addirittura in contrasto con gli interessi dell’uomo come “essere vivente” e ciononostante realizzare l’uomo come persona nella sua dignità. Come potremmo giustificare altrimenti la parola di Cristo “Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc. 8,35-36)?
La crisi dell’educazione attuale si stende nella contrapposizione fra “bene” o “utile”, “male” o “dannoso”. La decisione fra queste visioni significa l’abnegazione di sé stessi e il timor di Dio o l’egoismo tutto umano dell’uomo. Molte teorie dell’educazione moderna nascondono oggi coscientemente all’uomo la conoscenza del “bene” e del “male”. Si educa l’uomo a prendere decisioni prima di tutto basandosi solo su quanto è utile, sano, innocuo, sociale, privo di ansia, piacevole, proficuo, su quanto allarga la conoscenza e soddisfa i bisogni. Tali decisioni non sono dirette necessariamente contro la verità e contro la dignità dell’uomo; ciononostante si tratta di decisioni cieche e non veramente umane perché non pongono l’uomo di fronte alla decisione ultima e veramente umana fra quanto è moralmente buono e cattivo. Non da ultimo il mondo diventa per l’uomo contraddittorio, violento, spietato, infido, privo di senso ed empio perché viene trascurata, repressa o deformata la coscienza, il vero criterio dell’uomo riguardo al problema del bene e del male. La coscienza dell’uomo sa che si deve fare il bene ed evitare il male; solo su questo principio è possibile costruire quella esperienza di vita umana, che è anche in grado di giudicare l’”utile” e l’”adatto” nella vita di tutti i giorni.
Un esempio attuale di educazione mal riuscita ci è dato dal concetto pedagogico della “valigetta didattica” relativa all’”educazione sessuale”. Ho cercato di leggere tutto il materiale, peraltro ancora incompleto e confuso, di questo sussidio didattico. Vi si trovano non poche cose azzeccate, però il tutto è fondamentalmente un errore, che deve essere rifiutato dalla Chiesa. Per esempio, nonostante l’alibi di alcuni contributi religiosi, non vi è neanche uno spunto per affrontare sistematicamente il tema del bene e del male, del consentito e del proibito, dei comandamenti divini o dell’ordinamento della sessualità nella comunità coniugale di uomo e donna. Al contrario, il giovane viene istruito sulle pratiche sessuali come se la sessualità fosse solo il soddisfacimento di un bisogno, e ci si richiama alla responsabilità e alla libertà dell’uomo soltanto quando si tratta di conflitti interpersonali o addirittura di eliminare le conseguenze della sessualità con la contraccezione o con l’aborto. Quanto differisce dalle atrocità di anni passati quel cinismo umano che fa apparire l’aborto come un’azione “responsabile”? Un’educazione sessuale dovrebbe fornire una conoscenza riverente della dignità della vita umana e dell’amore sessuale; conoscenza riverente è conoscenza non soltanto biologica; conoscenza riverente è una conoscenza con coscienza. Sessualità è indissolubilmente legata alla dignità dell’uomo. Per questo nessuno può indurre l’uomo dapprima a praticare e a provare la sessualità, per viverla responsabilmente nell’amore soltanto in un secondo tempo. Ogni uomo, sia bambino, adolescente o adulto, si trova con la stessa serietà morale davanti al bene e al male. Quanto è moralmente cattivo non può essere mai giustificato, neanche con la strategia di una pedagogia. Non si possono consentire neanche al giovane adolescente, la menzogna, il furto, il disprezzo di Dio, la lussuria, la slealtà, la presunzione, l’invidia e l’egoismo come se fossero “esercitazioni” per educarlo poi a essere un uomo più maturo per mezzo di tale esperienza. L’uomo è sempre uomo intero; l’uomo, in quanto è, ha una coscienza; perché uomo e coscienza sono indissolubilmente legati, ogni uomo, in ogni età, si trova con la stessa serietà morale di fronte al bene da compiere e al male da evitare. Quindi, come sono problematiche le affermazioni di organizzazioni cattoliche, che considerano l’educazione sessuale come un fatto della coscienza sociale!
La coscienza è il chiaro messaggio, per ciascun uomo, di possedere libertà e autodeterminazione, che non può essere fatta violenza alla sua coscienza, che si può rivoltare con la sua coscienza contro tutte le costrizioni. Nessun uomo può attribuire o concedere la coscienza a un altro, né l’uomo se la può dare da solo; la coscienza è un vero dono divino, che consente all’uomo di percepire nella propria coscienza la volontà e la legge divina. Molto giustamente il Concilio Vaticano II afferma a proposito della coscienza: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre chiaramente dice alle orecchie del cuore: fa’ questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il suo cuore; obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (2).
Proprio passi di questo testo sono stati citati spesso nel nostro tempo in modo incompleto e sono stati fraintesi teologicamente. Si parla del testo conciliare come se, almeno in caso di conflitto, l’uomo si trovasse da solo con la propria coscienza. Almeno nel caso di conflitto si dichiara la coscienza quale principio sovrano e libera nei confronti della legge e dei comandamenti. Taluni teologi e consultori non hanno letto, che il Concilio afferma che l’uomo nella propria coscienza è solo con Dio e non solo con sé stesso, che l’uomo nell’intimo della sua coscienza scopre una legge, che non è lui a darsi, ma che Dio ha scritto nel suo cuore e a cui lui deve ubbidire (3)? Comunque al testo conciliare sulla coscienza non si può richiamare nessuno che cerchi d’introdurre una nuova morale contro la dottrina della Chiesa.
Quante volte si deve ripetere che è lo stesso Dio che crea l’uomo e la sua coscienza, che si manifesta nella Scrittura, che redime e santifica l’uomo e che affida il servizio della salvezza alla Chiesa! L’uomo può apprendere cos’è la legge di Dio dall’ordine della creazione, dalla parola della Scrittura, dall’opera del Redentore e dalla dottrina della Chiesa. Come potrebbe Dio donare all’uomo una coscienza che non corrisponda alla totalità della storia della salvezza divina e che prenda decisioni e stabilisca regole in totale autonomia? Dio non fa doni senza una quantità sufficiente di grazia. Chi dunque accetta da Dio la coscienza come un dono deve cercare, in tutti questi modi, qual è la volontà di Dio che ha fatto il dono. Chi accetta la coscienza, la può accettare solo come una coscienza formata rettamente, pronta ad ascoltare la legge divina, tanto che questa si esprima nell’ordine della creazione, nella Scrittura o nel Magistero vivente della Chiesa. La formazione della retta coscienza è la vera acquisizione del dono divino. Una coscienza che si presenta semplicemente come “coscienza” non possiede ancora la propria verità. La dignità della coscienza richiede anche la verità della coscienza. La verità della coscienza consiste nella coincidenza della coscienza con la volontà di Dio, che scrive la sua legge nel cuore dell’uomo.
Che cosa deve essere dunque l’educazione dal punto di vista cattolico? L’addestramento in abitudini umane? Questo addestramento dell’abitudine può essere spesso coronato da successo, ma l’abitudine potrebbe spesso andare a vuoto nella storia della vita di un uomo e fallire i segni dei tempi. Ma l’educazione farà sempre consistere l’uomo nella coscienza formata rettamente se ha imparato a fare il bene e a fuggire il male. La sola coscienza può preservare l’umanità dell’uomo anche se l’educazione non poteva mai prevedere quali vie dell’essere uomo ogni uomo deve percorrere. In un mondo confuso sarà sempre sufficiente fare il bene e amare Dio e il prossimo. La coscienza sarà sempre più creativa di ogni addestramento, di ogni abitudine e di ogni strategia del comportamento perché la coscienza coinvolge la totalità dell’uomo. Questa totalità costituisce una sfida e garantisce umanità nel senso divino.
Abbiamo definito l’educazione come un evento della dignità dell’uomo, dell’educatore e dell’educato. Ubbidienza, rinuncia, esemplarità, altruismo, fedeltà e amore vengono richiesti a entrambi, educatore ed educato. Infatti, entrambi non “fanno” qualcosa, ma scoprono insieme la dignità dell’uomo, data da Dio. Si può scambiare dignità con dignità? No. Chi ha scoperto la dignità dell’altro e la propria dignità, ha la forza per l’”abnegazione”.
Educazione: l’alternativa si muove fra istruzione attraverso l’abitudine e coscienza rettamente formata. Con la coscienza formata rettamente l’uomo vive la sua vita al fianco di Dio.
+ Kurt Krenn
Vescovo ausiliare di Vienna
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(1) Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, n. 24.
(2) Ibid., n. 16.
(3) Cfr. ibidem.