di Stefano Chiappalone, del 24 febbraio 2018
Tra le tante scissioni che segnano il nostro tempo – cioè noi stessi, poiché lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, non si crea certo da sé – ce n’è una particolarmente curiosa, forse meno elevata di quella tra fede e ragione, ma non slegata da essa, plasticamente rappresentata da una delle tante cattedrali della nostra Europa senescente.
Generalmente vi troviamo due percorsi distinti: quello più ampio, per i turisti che vi si recano ad ammirare le bellezze del tempo che fu, e poi un ingresso più ridotto, che introduce nella navata laterale o in una cappella dedicata con i confessionali e il Santissimo Sacramento per chi volesse ancora utilizzare l’edificio sacro per gli scopi per cui fu costruito. Anche la proporzione tra i due spazi la dice lunga: pur non essendo sconsacrata, solo la minima parte è di fatto destinata alla preghiera; la superficie restante è praticamente musealizzata, salvo per le Messe domenicali che, almeno in Italia, continuano a generare afflusso. Ricordo le visite al Santissimo nella splendida cattedrale della città in cui ho studiato. Ingresso secondario, con i custodi pronti a richiamare l’orante che, terminata la preghiera, si guardasse troppo intorno rischiando di contemplare la navata centrale: il devoto non può trasformarsi in turista senza aver pagato il biglietto d’ingresso! Ricordo un’altra splendida città in cui ho soggiornato alcuni mesi. Per le ragioni logistiche ricordate, durante le Messe domenicali l’edificio ritornava a essere adibito al culto, per cui niente visite. «Non si può entrare per le visite, c’è la Messa»: «Ma infatti vorrei entrare per la Messa», replicai. Evidentemente entrare in cattedrale per santificare la festa non era la prima opzione venuta alla mente del solerte custode.
Bene inteso, non ce l’ho con i custodi, né voglio rinfocolare la polemica annosa sull’ingresso a pagamento nelle chiese: di per sé sarei contrario, ma – qualcuno obietta – il denaro serve per mantenere e restaurare gli edifici. Hanno ragione, ma io non ho torto… Pagato o meno il prezzo, vale la pena di soffermarsi su una differenza curiosa. Da un lato (è proprio il caso di dirlo, visto il percorso secondario), la preghiera si svolge in una dimensione esteticamente parallela alla maestosa cornice che appare ridotta a scenografia di un rito celebrato spesso su un altare mobile o sull’opera di qualche artista contemporaneo che, con il beneplacito della committenza, si pone in perfetta discontinuità con le auliche navate. Eppure l’apparato estetico non sarebbe un mero rivestimento intercambiabile, considerando che l’arte sacra è parte integrante del culto, nella misura in cui dà forma visiva alla Scrittura proclamata e ai Misteri celebrati. A propria volta, il turista si guarda intorno estasiato, ansioso di fotografare per “rubare” qualcuna delle scene dipinte sul muro o sulla tela, dei giochi angelici plasmati nello stucco o dei colossi scolpiti nel marmo, ma ai quali… è incapace di dare un nome. Il turista contempla ciò che il devoto pare ignorare e al contempo ignora il significato di ciò che va fotografando. Entrambi si trovano così a condividere, a pochi metri l’uno dall’altro, un potenziale di evangelizzazione che nutrirebbe tanto l’uno quanto l’altro. L’audioguida o le etichette possono fornire qualche dato o qualche data, ma se il turista si farà un po’ devoto potrà scoprire la mistica che si cela dietro l’estetica; e il devoto, spalancando gli occhi, potrà percepire tra le pietre e i colori lo splendore occultato da una fede routinaria, per rendere ragione – parafrasando la Scrittura (cfr. 1Pt 3, 15) – dello stupore che è in noi.