Dal Corriere della Sera del 27/04/2020. Foto da articolo
Scrive il New York Times, uno dei quotidiani più ostili a Trump dell’intero pianeta, che la Commissione europea avrebbe attenuato, su pressione dell’autorità di Pechino, un rapporto ufficiale sulle mistificazioni cinesi in tema di diffusione del Coronavirus. In questo rapporto si scriveva che «la Cina continua a condurre una campagna di disinformazione globale per sviare le accuse legate allo scoppio della pandemia».
Termini che sarebbero stati modificati con espressioni meno perentorie: «c’è la prova di una pressione coordinata da fonti ufficiali cinesi per sviare le accuse legate allo scoppio della pandemia», recita la versione finale. Parole alle quali, per compensazione, ne sarebbero state aggiunte altre utili a valorizzare le prospettive di buon rapporto tra Cina e Ue. È molto probabile che questo cambio in corsa ci sia davvero stato. Resta comunque il fatto che l’Europa, tramite la piattaforma online preposta alla caccia di fake news (EuVsDisinfo), ha deciso di compiere un passo di grande rilievo per attirare l’attenzione sul caso asiatico.
Per la prima volta dopo molti anni il fronte dei Paesi occidentali si è ricomposto nella richiesta alla Cina di chiarimenti su come è nato e si è poi diffuso il Covid-19. Alcuni come Donald Trump — che peraltro in gennaio aveva pubblicamente apprezzato la correttezza dei cinesi — lo hanno fatto in modo più aggressivo (il procuratore generale del Missouri, Eric Schmitt, ha addirittura avviato un’improbabile azione legale contro Xi Jinping). Altri, come il governo australiano, con modalità più contenute. In Europa, per qualche ora, si è addirittura tornati ai tempi pre-Brexit con Gran Bretagna e continente schierati dalla stessa parte nella richiesta alla Cina di dar prova di onestà. Persino Francia e Germania — pur divise sui metodi da adottare per far fronte alla crisi economica lasciataci in eredità dalla pandemia — hanno ritrovato, nei confronti di Pechino, lo spirito d’intesa che un tempo fu detto renano . Emmanuel Macron, in un’intervista al Financial Times , ha esortato la Cina alla «trasparenza» e al «senso di responsabilità». Angela Merkel gli ha fatto eco con un analogo monito che ha provocato una reazione scortese e stizzita di un portavoce del ministero degli Esteri cinese.
All’origine di queste più o meno velate accuse è il fatto che le autorità cinesi hanno iniziato, non senza una qualche disinvoltura, ad «adattare» all’evolversi dei tempi le cifre dei contagiati nel loro Paese. Passando dal dato «definitivo» di 55.000 a oltre 80.000 che una fonte di Hong Kong accreditata da Lancet eleva a 232.000. Come è possibile che un Paese, preso sul serio dall’Organizzazione mondiale della Sanità che per voce del suo direttore generale ne ha lodato il «rigore», faccia ballare i numeri in questo modo? Più passa il tempo, inoltre, più cresce i l numero di coloro che, in merito alle origini del virus, ripropongono il dubbio che nei laboratori di Wuhan sia accaduto qualcosa di sospetto. E non giova a rasserenare il clima la reazione del portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian secondo il quale «potrebbe essere stato l’esercito Usa ad aver portato l’epidemia a Wuhan». Il portavoce ha poi addirittura puntato l’indice contro Trump nel goffo tentativo di ribaltare le accuse: «L’America ci deve una spiegazione».
Un tabloid tedesco, la Bild , si è spinto ad avanzare l’ipotesi che possa essere chiesto a Pechino un risarcimento di 162 miliardi di dollari per i danni provocati (nella sola Germania) dalla pandemia. Un’idea stravagante che induce però a riflettere sul fatto che l’Italia sia l’unico Paese del mondo occidentale ad aver accolto con un tripudio davvero eccessivo mezzo milione di mascherine inviateci (a pagamento) dalla Cina. Paragonabile, tale manifestazione di gioia, solo a quella del filippino Rodrigo Duterte il quale, sia detto per inciso, approfittando del Covid sta conducendo nel suo Paese una personalissima battaglia contro la malavita con metodi da lui stesso definiti «hitleriani». L’acquisto di quelle mascherine (a compensazione peraltro delle tonnellate di materiale sanitario da noi inviato in Cina nel mese di febbraio, le quali hanno lasciato parzialmente sguarnite le nostre strutture ospedaliere che di lì a breve ne avrebbero avuto un disperato bisogno) era in realtà un segnale di particolare amicizia nei confronti di Pechino. Un modo per dimostrare come il nostro Paese avesse silenziosamente fatto propria la linea politica esplicitata da Alessandro Di Battista, quella cioè di dar per scontato che il mondo occidentale soccomberà («La Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo») e che di conseguenza convenga all’Italia farsi amico fin d’ora il Paese di Xi Jinping. Grazie, ha sottolineato Di Battista, a «un rapporto privilegiato con Pechino che, piaccia o non piaccia, è anche merito del lavoro di Luigi Di Maio». Di Battista ha dato per implicito che compagni e simpatizzanti del suo movimento gradiscano questa abilità diplomatica del ministro degli Esteri italiano. E ha esortato il nostro presidente del Consiglio nonché il ministro dell’Economia a presentarsi al tavolo della contrattazione europea forte delle relazioni con la Cina costruite da Di Maio e da Beppe Grillo.
Qui da noi si è scelto di non dare peso a queste sortite, di lasciarle cadere e di trattarle, semmai, alla stregua di guasconate. Può darsi che siano tali. Marta Dassù, esperta di politica internazionale, si è però allarmata (sulla Stampa ) per un sondaggio Swg in cui la grande maggioranza degli intervistati indicava la Cina come la «migliore amica» dell’Italia. E la Germania come la «peggiore nemica». Dassù esortava a riflettere sulle implicazioni politiche di queste opinioni che si vanno diffondendo, anzi si sono già diffuse, in Italia. Mettendoci in guardia: «In Europa la Cina sta giocando una sua partita opportunistica per l’influenza internazionale; offrirle una sponda non ci conviene per niente». E ha spiegato perché. Cosa ne pensano gli alleati di governo del M5S?
Il sindaco di Milano Beppe Sala, quello di Firenze Dario Nardella, il segretario del Pd Nicola Zingaretti in febbraio presero parte a una meritoria campagna contro le discriminazioni a danno dei cinesi (a loro si unirono innumerevoli personaggi della tv). Forse adesso quegli esponenti politici — forti anche delle loro performances di tre mesi fa — farebbero bene a unirsi alla richiesta europea di chiarimenti. Senza sentirsi in obbligo — e perché mai? — di rinnegare lo spirito antirazzista che ai tempi ispirò le loro manifestazioni di solidarietà. Soltanto per rendere esplicito che quella campagna non aveva sottintesi. E far intendere fin d’ora ai nostri cugini europei che, quando verrà il momento di premere su Pechino per far definitivamente luce sulle origini del virus, l’Italia non si tirerà indietro cercando rifugio nelle consuete e ben note ambiguità.
Paolo Mieli