Plinio Corrêa de Oliveira, Cristianità n. 77 (1981)
Quando si parla di dottrina sociale naturale e cristiana è ormai largamente invalso l’abuso di farvi riferimento quasi esclusivamente come a un insegnamento magisteriale radicalmente contingente, e quindi radicalmente caduco, che pare si limiti a tentare di rallentare il ritmo rivendicazionistico della lotta di classe e di allontanare l’avvento, per altro giudicato ineluttabile, di una società senza classi. Questa deformazione e questa mutilazione del Magistero tradizionale della Chiesa in materia sociale – che aspira a farne una componente dottrinale della «utopia di una società senza classi» (Giovanni Paolo II) – sono non poco favorite dalla ignoranza corrente delle sue espressioni autentiche, o almeno di alcune di esse, pregiudizialmente considerate marginali. Fra tali espressioni vanno certamente annoverati i discorsi che il Santo Padre Pio XII ha indirizzati al patriziato e alla nobiltà romana, nel corso delle udienze per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. Nel 1953, il 2 marzo, cadeva l’ottantesimo genetliaco del rimpianto Pontefice: in tale occasione il professor Plinio Corrêa de Oliveira, oggi presidente del consiglio nazionale della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade (TFP), rendeva omaggio all’allora Vicario di Cristo raccogliendo e commentando i passi principali di detti discorsi – pronunciati dal 1941 al 1952 – in tre articoli. Intitolati Um hino de amor sobe ao trono do Pontifice imortal, Missão hodierna das elites tradicionais e A importancia das elites tradicionais na solução da crise hodierna, sono comparsi rispettivamente in Catolicismo, anno VI, n. 63, marzo 1953; n. 64, aprile 1953 e n. 65, maggio 1953. Li riproduciamo integralmente e senza alcun ritocco, neppure nei loro riferimenti a eventi contingenti, con un titolo comune redazionale, a illustrazione del fatto che la dottrina sociale della Chiesa ha tra i suoi motivi di fondo, con ogni evidenza e oltre le contingenze, la tesi della naturale struttura gerarchica della società.
Un aspetto trascurato della dottrina sociale di Pio XII
Sulla funzione e sulla responsabilità delle «élite» tradizionali
1. Un inno di amore sale al trono del Pontefice immortale
Non senza qualche timore di fronte alla nozione confusa della difficoltà dell’impresa, abbiamo cominciato a raccogliere impressioni e idee per scrivere per Catolicismo un articolo sul Santo Padre Pio XII, da pubblicare in occasione del suo ottantesimo genetliaco, che cade il 2 corrente. Da subito abbiamo dovuto rinunciare a un lavoro in cui prendere in considerazione nel suo insieme l’opera del Sommo Pontefice: la sua azione a favore della pace; le sue direttive per la soluzione dei grandi problemi politici, sociali ed economici in cui si dibattono i popoli contemporanei; l’opera dottrinale realizzata attraverso encicliche e altri documenti per orientare il pensiero cattolico e per portare alla Chiesa i figli traviati; lo stimolo alla pietà, particolarmente con la definizione del dogma della Assunzione, la istituzione della festa della regalità della Madonna, e il multiforme incremento alla devozione mariana; la espansione missionaria; la chiara definizione e strutturazione della Azione Cattolica in diversi documenti, e soprattutto nella costituzione Bis saeculari; la lotta contro il comunismo; la consacrazione della Russia e del mondo al Cuore Immacolato di Maria; le canonizzazioni di una opportunità provvidenziale come quella di san Pio X; l’incitamento alla organizzazione di un Mondo Migliore, cioè secondo i documenti di Pio XII, del regno di Cristo e di Maria; il contatto personale con le folle nelle udienze quotidiane in Vaticano e a Castel Gandolfo, tutto insomma dà al presente pontificato un tale spessore che, chi voglia studiarlo in un semplice articolo, si trova nella alternativa di dire solamente cose di genere che tutti sanno, oppure di trasformare il suo lavoro in un libro! Si tratta della difficoltà che presentano allo storico le personalità poco comuni, inconfondibili e molto ricche di aspetti. I giovani che oggi frequentano il dipartimento di storia delle facoltà di Filosofia si preparino: questo Papa, con le sue innumerevoli attività, tanto originali – nel senso etimologico della parola -, con ripercussioni tanto profonde, darà loro un enorme lavoro! E il volume che a suo proposito si scriverà nella cronaca dei Romani Pontefici sarà dei più spessi… se sarà sufficiente.
Incontrando una così grande difficoltà, abbiamo pensato di scrivere un lavoro relativo solamente all’opera dottrinale del Pontefice. Ma anche qui siamo stati costretti ad arrestarci. Negli ultimi secoli almeno, nessun Papa ha svolto un’opera dottrinale così copiosa, così varia, così profonda e sottile in molti suoi aspetti.
Siamo dunque rimasti ad escogitare un mezzo per scrivere qualche cosa di adeguato su Pio XII, e mentre lo facevamo ci siamo ricordati della sua divisa: «opus justitiae pax». Il Papa della Pace prega, soffre, opera perché vi siano pace internazionale e pace sociale. Non vi sarebbe stato qualcosa di nuovo da dire su questo punto?
Lavorare per la pace sociale significa lavorare perché ogni classe comprenda la sua missione specifica, e quella delle altre.
Pio XII ha, a questo proposito, una raccolta di discorsi importantissimi, purtroppo poco conosciuti, che ha rivolto alla nobiltà e al patriziato romani. Questi discorsi indicano bene la funzione e la responsabilità delle élite nel mantenimento della pace sociale. Ci è parso interessante consultare questi documenti, per commentarli. Ma, nella misura in cui li sfogliavamo, la bellezza dei testi ci seduceva. Abbiamo capito che, invece di parlare del Papa, meglio e mille volte meglio sarebbe stato lasciare parlare il Papa. E abbiamo così finito per organizzare una raccolta di questi discorsi, ai quali pubblichiamo oggi uno studio introduttivo, riservando i testi per il nostro prossimo numero. Lo facciamo con un pensiero commosso di affetto, di gratitudine e di venerazione verso il «dolce Cristo in terra».
* * *
Nel 1948, la Costituzione dell’Italia repubblicana ha dichiarato aboliti i titoli nobiliari. In questo modo è stato sferrato l’ultimo colpo alla posizione politica di una classe più che millenaria, e ancora oggi pienamente esistente. Ed è così stato creato un problema sociale complesso in tutti i suoi aspetti.
Questa complessità si faceva già notare nei precedenti del problema. Contrariamente a quanto accade in altri paesi europei – in Francia, in Spagna e in Portogallo, per esempio -, la composizione della nobiltà italiana è molto eterogenea. Prima del movimento di unificazione politica svoltosi nella penisola, i vari sovrani che esercitavano il loro potere su qualche parte del suo territorio concedevano titoli di nobiltà: imperatori del Sacro Romano Impero, re di Spagna, delle Due Sicilie, di Sardegna, granduchi di Toscana, duchi di Parma, e altri ancora, senza parlare dei patriziati di città come Venezia, e soprattutto – ed è ciò che più ci interessa nel presente studio – i Papi. Questi, sovrani temporali di uno Stato relativamente esteso, concedevano anch’essi titoli nobiliari. E hanno continuato a concederli fino ai nostri giorni.
Quando, nel 1870, si consumò la unificazione dell’Italia con la invasione di Roma da parte delle truppe di Cadorna, Casa Savoia tentò di amalgamare tutte queste nobiltà in un tutto unico.
Politicamente e giuridicamente il tentativo fallì. Molte famiglie nobili si mantennero fedeli alle dinastie deposte, dalle quali avevano ricevuti i loro titoli. E soprattutto l’aristocrazia romana ha continuato a comparire nelle solennità in Vaticano, si è rifiutata di riconoscere la annessione di Roma all’Italia, ha respinto qualsiasi avvicinamento al Quirinale, e ha chiuso le sue sale in segno di protesta. A questa nobiltà così in lutto si è dato il nome di nobiltà nera.
Tuttavia, dal punto di vista sociale, generalmente in Italia l’amalgama si è prodotto su scala non piccola, con i matrimoni, con le relazioni sociali, ecc. Di modo che l’aristocrazia italiana, ai nostri giorni, costituisce, sotto molti punti di vista, un tutto unico.
I Patti Lateranensi, all’art. 42, hanno tuttavia assicurato alla nobiltà romana una condizione particolare, poiché riconoscono al Papa il diritto di conferire titoli nobiliari, e accettano quelli precedentemente concessi dalla Santa Sede. In questo modo, legalmente, hanno continuato a esistere a fianco a fianco, le due nobiltà, quella italiana e quella romana.
A questa situazione si sommavano altri fattori di complessità. Nel Medioevo la nobiltà costituiva una classe sociale con funzioni speciali all’interno dello Stato, alle quali erano legate le onorificenze e anche cariche corrispondenti.
Nel corso dell’Evo Moderno, questa situazione è venuta perdendo gradatamente la sua consistenza, il suo rilievo e il suo colore. Durante le rivoluzioni ugualitarie del secolo XIX essa ha subito successive mutilazioni. E questo a tale punto che, nella monarchia italiana così come esisteva alla fine dell’ultima guerra, il potere politico della nobiltà sopravviveva in uno stato di fantasma o di vestigio. Questo vestigio, questo fantasma la repubblica lo ha distrutto.
Ora, mentre si delineava così rapida nel quadro della storia la curva discendente del potere politico della aristocrazia, la sua condizione sociale ed economica seguiva la stessa direzione, ma molto, molto più lentamente. Per le sue proprietà agricole, per i suoi palazzi, per i suoi tesori artistici, per il prestigio sociale dei suoi titoli e dei suoi nomi, per il valore morale e culturale insigne del suo ambiente domestico tradizionale, delle sue maniere del suo stile di vita, la nobiltà si trovava, ancora agli inizi del secolo, al vertice della organizzazione sociale.
Le crisi derivanti dalla prima guerra mondiale portarono qualche modifica in questo quadro, privando parte delle famiglie nobili dei loro mezzi di vita e obbligando molti dei loro membri ad accettare professioni subalterne, in disaccordo con la loro psicologia, le loro abitudini, il loro prestigio sociale.
D’altro lato, la società contemporanea modellata sempre di più dalla finanza e dalla tecnica, creava nuovi rapporti e condizioni, nuovi centri di influenza sociale, totalmente estranei ai quadri classici della aristocrazia. E così tutto un nuovo ordine di cose nasceva accanto a quello antico, che ancora viveva. Tutto questo diminuiva la importanza sociale della nobiltà.
Infine, a tutto questo si sommava, a detrimento di questa classe, un elemento ideologico che bisogna mettere in primo piano in ordine di importanza. La adorazione del progresso tecnico e della uguaglianza, frutto della Rivoluzione, creava un clima di odio, di prevenzione, di diffamazione e di sarcasmo contro la nobiltà attaccata alla tradizione, e fondata sulla forma di disuguaglianza che la demagogia odia maggiormente: quella del sangue e della culla.
È chiaro cha la seconda guerra mondiale, con i nuovi e più ampi crolli economici causati a molte famiglie nobili, e, in Italia, con la abolizione dei titoli nobiliari, ha portato al parossismo la gravità di tutti questi problemi. Era definita in grado acuto la crisi di una grande classe sociale.
Pio XII e la nobiltà romana
Questa situazione, in particolare per quanto riguarda la nobiltà romana, Pio XII la conosce in tutti i suoi particolari.
Infatti, egli appartiene a una famiglia insignita di alti titoli nobiliari, e la cui sfera di relazioni è naturalmente la migliore nobiltà. Suo fratello ha il titolo di principe Pacelli. Nel Papa vi è qualcosa di imponderabile che fa pensare alla nobiltà: la sua figura alta e snella, il suo modo di camminare, i suoi gesti, le sue mani. Questa Pontefice tanto universale e tanto amico dei piccoli, è molto romano e molto amico della aristocrazia romana. «Nel patriziato e nella nobiltà romana Noi rivediamo ed amiamo una schiera di figli e di figlie, il cui vanto è il vincolo e la fedeltà avita verso la Chiesa e il Romano Pontefice, il cui amore per il Vicario di Cristo erompe dalla profonda radice della fede, né viene meno per volgere di anni e di vicende varianti coi tempi c con gli uomini. In mezzo a voi Ci sentiamo più romani per la consuetudine della vita, per l’aria che abbiamo respirato e respiriamo, per il medesimo cielo, per il medesimo sole, per le medesime rive del Tevere sulle quali posò la Nostra culla, per quel suolo sacro fin nei riposti aditi delle sue viscere donde Roma trae per i suoi figli gli auspici di una eternità che s’inciela» (1).
Ora, se la Chiesa si interessa della questione sociale, non è perché ami soltanto la classe operaia, Essa non è un Labour Party fondato per proteggere soltanto una classe. Essa ama soprattutto la giustizia e la carità, e le vuole fare regnare fra gli uomini. E, per questo, ama tutte le classi sociali… compresa la tanto odiata nobiltà. Lo dice Pio XII a proposito della aristocrazia romana: «È un fatto che Cristo Nostro Signore, se elesse, per conforto dei poveri, di venire al mondo privo di tutto e di crescere in una famiglia di semplici operai, volle tuttavia colla sua nascita onorare la più nobile ed illustre delle case di Israele, la discendenza stessa di David.
«Perciò, fedeli allo spirito di Colui, del quale sono Vicari, i Sommi Pontefici hanno sempre tenuto in alta considerazione il Patriziato e la nobiltà romana, i cui sentimenti di inalterabile attaccamento a questa Sede Apostolica sono la parte più preziosa della eredità ricevuta dai loro avi e che essi stessi trasmetteranno ai loro figli» (2).
E così era naturale che Pio XII cercasse una soluzione per questo doloroso disaccordo sociale.
Questa soluzione l’ha enunciata in dodici magistrali allocuzioni alla nobiltà e al patriziato romani, pronunciate rispettivamente nel corso delle udienze per la presentazione degli auguri per il nuovo anno, che il Sommo Pontefice ha concesso loro negli anni dal 1941 al 1952.
Di queste allocuzioni, quella del 1952 costituisce quasi un riassunto che compendia tutto quanto il Pontefice ha detto nelle precedenti. Di modo che queste sono lo sviluppo e il commento di quella.
Interesse universale
Così enunciato l’argomento, sembrerà forse a prima vista che interessi soltanto l’Italia. In realtà, però, questa crisi specificamente italiana esiste, mutatis mutandis, in tutti i paesi che hanno avuto un passato monarchico e feudale, oppure che vivono attualmente in regime monarchico, in una condizione analoga a quella che l’Italia aveva fino alla caduta dei Savoia.
Ancora di più. Anche negli Stati dal passato non monarchico, per lo stesso ordine naturale delle cose, si sono costituite aristocrazie di fatto, se non di diritto (3). Ora, anche in questi paesi, l’ondata di ugualitarismo demagogico nato dalla Rivoluzione e portato al suo auge dal comunismo, crea un ambiente di insofferenza e di incomprensione verso le élite tradizionali. Anche in questi paesi, le élite tradizionali, fondate sulla agricoltura, stanno venendo eclissate dalle nuove categorie sociali nate dalla tecnica, dall’industrialismo, e dalla finanza. E anche in questi paesi si delinea una situazione molto simile a quella dell’Italia.
Queste allocuzioni del Santo Padre Pio XII hanno, dunque, un interesse universale, per la loro connessione indiretta con il problema delle élite in tutto il mondo. Questo interesse universale è accresciuto dal fatto che, analizzando la situazione come si presenta in Italia, il Papa si è elevato ad alte considerazioni di portata dottrinale, e quindi utili alla formazione di tutti i fedeli. La maggior parte dei suoi concetti sulla nobiltà si applica non soltanto all’Italia, ma alle élite tradizionali di tutte le nazioni.
E, così, siamo certi di contribuire alla formazione del pubblico brasiliano divulgando ora questi commenti e i luminosi testi del Sommo Pontefice.
L’apostolato specializzato e gli errori delle élite
Scegliamo questi documenti di particolare interesse per le élite sociali e culturali, in questo articolo commemorativo, perché Catolicismo è, per il suo livello culturale, una pubblicazione di élite. E in virtù del principio di specializzazione dell’apostolato tanto inculcato dalla Azione Cattolica e dalle Congregazioni Mariane, bisogna parlare a ogni classe soprattutto dei suoi diritti e dei suoi doveri. Ciò che in Europa è la nobiltà, lo sono in Brasile i «paulisti da quattrocento anni» e i loro simili di tutti gli Stati. È indispensabile che questa classe conosca la sua missione nel Brasile contemporaneo. Ed è ugualmente importante che i numerosi uomini di pensiero che ci leggono, prendano conoscenza dell’insegnamento del Santo Padre Pio XII sulla funzione della tradizione e delle élite ai nostri giorni.
Sappiamo bene che, nei testi che pubblicheremo, la chiaroveggenza di Pio XII ha posto, accanto a principi e a direttive altamente confortanti per gli amici della tradizione, anche molte verità amare sulle defezioni di alcune élite, il loro desiderio di godimento, e di un godimento molte volte immorale, la loro mancanza di senso degli obblighi sociali. Lo ha fatto con cortesia, meno scopertamente che tra le righe. Ha mostrato con cura che non si potrebbe generalizzare per tutta la nobiltà quanto è difetto soltanto di certi nobili. Ma, infine, l’avvertimento è rimasto, a stigmatizzare molta pigrizia, molta sensualità, molto egoismo, molta superficialità spirituale.
Presentiamo questi severi avvertimenti al pubblico, con molta gioia. Infatti li giudichiamo meritati anche da certi elementi delle élite tradizionali del Brasile. E sappiamo che ogni verità uscita dalle labbra del Sommo Pontefice può fare soltanto bene, ancorché, sia amara.
Le élite tradizionali hanno meno di qualsiasi altra… il diritto di dissolversi in una vita di piaceri, di scomparire nella massa confondendosi con essa, dimentiche della loro missione e della loro tradizione, oppure di vivere chiuse come in un guscio, nella loro vita privata degna ma oscura e vuota.
Il male è cominciato da esse, ricorda Pio XII, e da esse dovrà venire il rimedio (4).
Valga questa pubblicazione come un vigoroso appello a che, in una atmosfera di comprensione e di generale stima, esse si dedichino con abnegazione e con coraggio al compimento dell’alta missione che continuano ad avere.
La missione odierna delle élite tradizionali
Non si cerchi in questi passi del Santo Padre una presa di posizione politica.
Come è noto, san Tommaso d’Aquino pensa che, in tesi, la monarchia sia la forma di governo migliore e degna di massima stima. Ma è possibile che, per ragioni storiche di altro genere, convenga che qualche paese si organizzi nella forma di repubblica aristocratica, come in altri tempi Venezia, o di repubblica democratica, come sono state certe città libere del Sacro Romano Impero, della Svizzera oppure dell’Italia.
Il Sommo Pontefice non proibisce che la nobiltà italiana desideri il cambiamento della forma di governo. Ma il suo discorso non entra in nessun modo nell’apprezzamento di quale sia, per l’Italia, concretamente, la forma migliore. Si limita a insegnare qual è la funzione della nobiltà in una società democratica bene ordinata, e qual è il suo dovere nelle convulsioni e nelle anomalie dell’ora presente.
Che una tale società democratica bene ordinata non abbia niente in comune con le utopie e con gli errori dell’ugualitarismo rivoluzionario, lo mostra luminosamente un passo fondamentale del radiomessaggio natalizio del 1944, che distingue quale sia il governo del popolo da quello della massa, indicando nei termini seguenti la differenza tra il concetto di massa e quello di popolo: «Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, “massa” sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa e per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali – al proprio posto e nel proprio modo – è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl’istinti o le impressioni, pronta a seguire a volta a volta, oggi questa, domani quell’altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d’un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d’un solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l’appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l’interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile.
«Da ciò appare chiara un’altra conclusione: la massa – quale Noi abbiamo or ora definita – è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza.
«In un popolo degno di tal nome, il cittadino sente in se stesso la coscienza della sua personalità, dei suoi doveri e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col rispetto della libertà e della dignità altrui. In un popolo degno di tal nome, tutte le ineguaglianze, derivanti non dall’arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianza di cultura, di averi, di posizione sociale – senza pregiudizio, ben inteso, della giustizia e della mutua carità – non sono affatto un ostacolo all’esistenza ed al predominio di un autentico spirito di comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo l’uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè, di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni della Provvidenza l’hanno collocato.
«In contrasto con questo quadro dell’ideale democratico di libertà e d’uguaglianza in un popolo governato da mani oneste e provvide, quale spettacolo offre uno Stato democratico lasciato all’arbitrio della massa! La libertà, in quanto dovere morale della persona, si trasforma in una pretensione tirannica di dare libero sfogo agl’impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri. L’uguaglianza degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma: sentimento del vero onore, attività personale, rispetto della tradizione, dignità, in una parola, tutto quanto dà alla vita, il suo valore, a poco a poco, sprofonda e dispare. E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l’uguaglianza; e, dall’altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell’organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere» (5).
In una tale situazione è evidente che, anche ai nostri giorni, vi è posto per una alta e indispensabile missione delle élite tradizionali.
2. Missione odierna delle “élite” tradizionali
Nell’ultimo numero di Catolicismo abbiamo scritto sul Santo Padre Pio XII, in occasione del suo ottantesimo genetliaco, che è caduto il 2 marzo. Nella impossibilità di analizzare nei ristretti limiti di un giornale la personalità polimorfa e la immensa opera dell’immortale Pontefice, manifestavamo il nostro omaggio all’augusto festeggiato studiando una parte importantissima e poco nota dei suoi documenti dottrinali, cioè i discorsi alla nobiltà e al patriziato romani. Proseguendo lo studio iniziato, pubblichiamo oggi una raccolta di estratti mirabili da queste allocuzioni, pronunciate in occasione delle visite per la presentazione degli auguri per il nuovo anno da parte della aristocrazia di Roma.
Non essendovi in Brasile una nobiltà propriamente detta, ma una importante élite tradizionale, e dato che il Pontefice stesso mette in risalto la analogia esistente tra l’una e l’altra, riferiamo a questa molto di quanto il Santo Padre dice su quella.
Una situazione che non ammette dubbi
Nel Medioevo la società era costituita da tre classi, ciascuna delle quali aveva incombenze, privilegi e onori particolari. A grandissime linee, si può descrivere questa organizzazione dicendo che al clero spettava la missione di mantenere vivi i fondamenti cristiani della civiltà, attraverso l’esercizio del sacro ministero. Erano a suo carico l’insegnamento e le opere di assistenza e di carità, di modo che svolgeva, senza onere per lo Stato, i servizi oggi affidati ai ministeri della Pubblica Istruzione e della Sanità. La nobiltà era la classe militare. Le competeva la difesa del paese. Nelle sue terre esercitava, senza spese per il re, funzioni in qualche modo analoghe a quelle dei prefetti, dei giudici e dei funzionari di polizia odierni. Come si vede, queste due classi vivevano per il bene comune, e, in compenso delle loro gravose incombenze, godevano di onori e di vantaggi corrispondenti, come la esenzione dalle imposte. Il popolo era la classe votata più particolarmente al lavoro. Erano suoi privilegi quello di avere in guerra una partecipazione molto minore di quella della nobiltà, e la esclusività nell’esercizio delle professioni più redditizie, il commercio e l’industria. I suoi membri non avevano verso lo Stato nessun obbligo speciale. Lavoravano per il bene comune soltanto nella misura in cui ciascuno favoriva i suoi legittimi interessi. Da ciò derivava il fatto di essere la classe meno favorita in onori, e sulla quale ricadeva l’onere delle imposte.
Come abbiamo detto nel nostro articolo precedente, questa condizione è venuta disfacendosi nel corso dell’Evo Moderno (1450-1789), è entrata in aperta dissoluzione nel corso dell’Età Contemporanea, con la istituzione di una società che confonde tutte le classi, negando completamente o quasi completamente riconoscimento giuridico al clero e alla nobiltà, e, per quanto riguarda questa, in Italia l’ultimo passo è stato compiuto dalla Costituzione repubblicana.
Dura condizione, di fronte alla quale non si devono chiudere gli occhi con pusillanimità. Infatti ciò sarebbe indegno di autentici nobili. Pio XII lo dice con precisione impressionante: «In primo luogo, guardate intrepidamente, coraggiosamente, la realtà crescente. Ci sembra superfluo d’insistere per richiamare alla vostra mente ciò che, or sono tre anni, fu l’oggetto delle Nostre considerazioni; Ci parrebbe vano e poco degno di voi il velarlo con prudenti eufemismi, specialmente dopo che le parole del vostro eloquente interprete Ci hanno reso una così chiara testimonianza della vostra adesione alla dottrina sociale della Chiesa e ai doveri che da essa derivano. La nuova Costituzione d’Italia non vi riconosce più, come classe sociale, nello Stato e nel popolo, alcuna particolare missione, alcun attributo, alcun privilegio» (6).
Questa situazione, dice il Pontefice, è il punto di arrivo di tutto un lungo concatenamento di fatti, che dà la impressione come di un «fatale andare» (7).
Di fronte ad «assai diverse forme di vita» (8) che ora si costituiscono, i membri della nobiltà e delle élite tradizionali non devono ignorare la realtà, né perdersi in lamenti inutili, ma prendere chiaramente posizione di fronte a essa. È la condotta adeguata a persone dl valore: «Mentre i mediocri nell’avversa fortuna non fanno che tenere il broncio, gli spiriti superiori sanno, secondo l’espressione classica, ma in un senso più elevato, mostrarsi «beaux joueurs», conservando imperturbabilmente il loro portamento nobile e sereno» (9).
L’intima essenza della vera nobiltà
Concretamente, in che consiste questo riconoscimento oggettivo e virile di condizioni di vita, che non si è in nessun modo obbligati ad applaudire, rispetto alle quali «si può pensare come si vuole» (10), ma che costituiscono un fatto palpabile all’interno del quale siamo costretti a vivere?
La nobiltà e le élite tradizionali hanno perso la loro ragione di esistere? Devono rompere con le loro tradizioni, il loro passato, in una parola devono dissolversi nel popolo, confondendosi con esso, spegnendo tutto quanto alle famiglie nobili resta di alti valori di virtù, di cultura, di stile e di educazione?
A questo riguardo l’insegnamento di Pio XII è incisivo. Le élite tradizionali devono continuare a esistere, e continuano ad avere un’alta missione: «Elevate lo sguardo e tenetelo fisso all’ideale cristiano. Tutti quei rivolgimenti, quelle evoluzioni o rivoluzioni, lo lasciano intatto; nulla possono contro ciò che è l’intima essenza della vera nobiltà, quella che aspira alla perfezione cristiana, quale il Redentore additò nel discorso della montagna» (11). Di conseguenza, i nobili hanno, ai nostri giorni, due compiti: devono eccellere per la loro «fedeltà incondizionata alla dottrina cattolica, a Cristo e alla sua Chiesa; capacità e volontà di essere anche per gli altri modelli e guide» (12), nelle diverse sfere della vita temporale, sia pubblica che privata.
Le élite tradizionali derivano dall’ordine naturale
Vi è anzitutto un fatto naturale, legato alla esistenza delle élite tradizionali, che bisogna ricordare; si tratta della eredità. «Di questa grande e misteriosa cosa che è l’eredità – vale a dire il passaggio in una stirpe, perpetuantesi di generazione in generazione, di un ricco insieme di beni materiali e spirituali, la continuità di un medesimo tipo fisico e morale conservantesi da padre in figlio, la tradizione che unisce attraverso i secoli membri di una medesima famiglia – di questa eredità, diciamo, si può senza dubbio travisare la vera natura con teorie materialiste. Ma si può anche e si deve considerare una tale realtà di così grande importanza nella pienezza della sua verità umana e soprannaturale.
«Non si negherà certamente il fatto di un sostrato materiale alla trasmissione dei caratteri ereditari; per meravigliarsene, bisognerebbe dimenticare la unione intima della nostra anima col nostro corpo, e in quale larga misura le stesse nostre attività più spirituali siano dipendenti dal nostro temperamento fisico. Perciò la morale cristiana non manca di ricordare ai genitori le gravi responsabilità che loro spettano a tale riguardo.
«Ma quel che più vale è la eredità spirituale, trasmessa non tanto per mezzo di questi misteriosi legami della generazione materiale, quanto con l’azione permanente di quell’ambiente privilegiato che costituisce la famiglia, con la lenta e profonda formazione delle anime nell’atmosfera di un focolare ricco di alte tradizioni intellettuali, morali, e soprattutto cristiane, con la mutua influenza fra coloro che dimorano in una medesima casa, influenza i cui benefici effetti si prolungano ben al di là degli anni della fanciullezza e della gioventù, sino al termine di una lunga vita, in quelle anime elette, che sanno fondere in se stesse i tesori di una preziosa eredità col contributo delle loro proprie qualità ed esperienze.
«Tale è il patrimonio, sopra ogni altro pregevole, che, illuminato da una fede salda, vivificato da una forte e fedele pratica della vita cristiana in tutte le sue esigenze, eleverà, affinerà, arricchirà le anime dei vostri figli» (13).
Questa formazione di élite tradizionali, con un tono aristocratico, è un fatto così profondamente naturale, che si manifesta anche in paesi senza passato monarchico o aristocratico: «Anche nelle democrazie di fresca data e che non hanno dietro di loro alcun vestigio di un passato feudale, si è venuta formando, per la forza stessa delle cose, una specie di nuova nobiltà o aristocrazia. È la comunanza delle famiglie che per tradizione mettono tutte le loro energie al servizio dello Stato, del suo Governo, della sua amministrazione, e sulla cui fedeltà esso può in ogni momento contare» (14). Magnifica definizione di quale sia la essenza della nobiltà, che fa ricordare le grandi stirpi di colonizzatori, di pionieri, e di piantatori che per secoli hanno fatto il progresso dell’America, costituendo la maggiore ricchezza morale delle società temporali in cui sono vissute e vivono.
Fautrici di progresso e custodi della tradizione
Fra le tradizioni tipiche della nobiltà e delle élite tradizionali, si include «un calmo e costante attaccamento a tutto ciò che l’esperienza e la storia hanno convalidato e consacrato, quella di uno spirito inaccessibile all’agitazione irrequieta e alla cieca bramosia di novità che caratterizzano il nostro tempo, ma insieme largamente aperto a tutte le necessità sociali» (15).
Queste parole esprimono bene il nesso esistente tra nobiltà e tradizione. Quella è custode naturale di questa. È la classe incaricata, più di qualsiasi altra, di mantenere vivo il nesso attraverso il quale la sapienza del passato governa il presente, senza tuttavia immobilizzarlo.
Con la forza della eredità i nobili prolungano sulla terra la esistenza dei grandi uomini del passato: «Voi, ricordando i vostri avi, li rivivete; e i vostri avi rivivono nei vostri nomi e nei titoli che vi hanno lasciati dei loro meriti e delle loro grandezze» (16).
Questo dà alla nobiltà, e alle élite tradizionali, una missione morale tutta particolare, perché sono esse che assicurano al progresso la continuità con il passato: «La società umana non è forse, o almeno non dovrebbe essere, simile ad una macchina bene ordinata di cui tutti gli organi concorrono all’azione armonica dell’insieme? Ognuno di essi ha il proprio ufficio, ognuno deve applicarsi al miglior progresso dell’organismo sociale, deve cercarne il perfezionamento, secondo le proprie forze e la propria virtù, se veramente ama il suo prossimo e tende ragionevolmente al bene e al vantaggio comune.
«Ora quale parte è stata commessa in modo speciale a voi, diletti figli e figlie? quale ufficio vi è stato particolarmente attribuito? Precisamente quello di agevolare questo svolgimento normale; quello che nella macchina presta e compie il regolatore, il volano, il reostato, che partecipano alla attività comune e ricevono la loro parte della forza motrice per assicurare il movimento di regime dell’apparecchio. In altri termini, patriziato e nobiltà, voi rappresentate e continuate la tradizione» (17).
Senso e valore della vera tradizione
L’apprezzamento per una tradizione bene intesa è virtù rarissima ai nostri giorni. Da un lato, perché lo spirito di novità, il disprezzo per il passato sono stati d’animo che la Rivoluzione ha reso frequentissimi. D’altro lato, perché i difensori della tradizione la intendono spesso in modo completamente falso. La tradizione non è un semplice valore storico, né un semplice tema per variazioni di un nostalgismo romantico. Essa è un elemento vivo, che deve essere inteso non in modo esclusivamente archeologico, ma come un fattore indispensabile per la vita presente.
La parola tradizione, dice il Pontefice, «suona sgradita a molti orecchi; essa spiace a buon diritto, quando è pronunciata da certe labbra. Alcuni la comprendono male; altri ne fanno il cartellino menzognero del loro egoismo inattivo. In tale drammatico dissenso ed equivoco, non poche voci invidiose, spesso ostili e di cattiva fede, più spesso ancora ignoranti o ingannate, vi interrogano e vi domandano senza riguardo: A che cosa servite voi? Per rispondere loro, conviene prima intendersi sul vero senso e valore di questa tradizione, di cui voi volete essere principalmente i rappresentanti.
«Molti animi, anche sinceri, s’immaginano e credono che la tradizione non sia altro che il ricordo, il pallido vestigio di un passato che non è più, che non può più tornare, che tutt’al più viene con venerazione, con riconoscenza se vi piace, relegato e conservato in un museo che pochi amatori o amici visitano. Se in ciò consistesse e a ciò si riducesse la tradizione, e se importasse il rifiuto o il disprezzo del cammino verso l’avvenire, si avrebbe ragione di negarle rispetto e onore, e sarebbero da riguardare con compassione i sognatori del passato, ritardatari in faccia al presente e al futuro, e con maggior severità coloro, che, mossi da intenzione meno rispettabile e pura, altro non sono che i disertori dei doveri dell’ora che volge così luttuosa.
«Ma la tradizione è cosa molto diversa dal semplice attaccamento ad un passato scomparso; è tutto l’opposto di una reazione che diffida di ogni sano progresso. Il suo stesso vocabolo etimologicamente è sinonimo di cammino e di avanzamento. Sinonimia, non identità. Mentre infatti il progresso indica soltanto il fatto del cammino in avanti, passo innanzi passo, cercando con lo sguardo un incerto avvenire; la tradizione dice pure un cammino in avanti, ma un cammino continuo, che si svolge in pari tempo tranquillo e vivace, secondo le leggi della vita, sfuggendo all’angosciosa alternativa: “Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait!”; simile a quel Signore di Turenne, di cui fu detto: “Il a eu dans sa jeunesse toute la prudence d’un âge avancé, et dans un âge avancé toute la vigueur de la jeunesse” (Fléchier, Oraison funèbre, 1676). In forza della tradizione, la gioventù, illuminata e guidata dall’esperienza degli anziani, si avanza di un passo più sicuro, e la vecchiaia trasmette e consegna fiduciosa l’aratro a mani più vigorose che proseguono il solco cominciato. Come indica col suo nome, la tradizione è il dono che passa di generazione in generazione, la fiaccola che il corridore ad ogni cambio pone in mano e affida all’altro corridore, senza che la cosa si arresti o si rallenti. Tradizione e progresso s’integrano a vicenda con tanta armonia, che, come la tradizione senza il progresso contraddirebbe a sé stessa, così il progresso -senza la tradizione sarebbe una impresa temeraria, un salto nel buio.
«No, non si tratta di risalire la corrente, di indietreggiare verso forme di vita e di azione di età tramontate, bensì, prendendo e seguendo il meglio del passato, di avanzare incontro all’avvenire con vigore di immutata giovinezza» (18).
Importanza e legittimità delle élite tradizionali
Il soffio della demagogia, che aleggia attraverso tutto il mondo contemporaneo, crea una atmosfera di antipatia contro le élite tradizionali. E questo, in gran parte, per l’attaccamento che esse hanno nei confronti della tradizione. Vi è in questo una grave ingiustizia, purché tali élite intendano la «tradizione» rettamente: «Ma così procedendo, la vostra vocazione splende già delineata, grande e laboriosa, che dovrebbe meritarvi la riconoscenza di tutti e rendervi superiori alle accuse che vi fossero rivolte dall’una o dall’altra parte.
«Mentre voi mirate provvidamente ad aiutare il vero progresso verso un avvenire più sano e felice, sarebbe ingiustizia ed ingratitudine il farvi rimprovero e segnarvi a disonore il culto del passato, lo studio della sua storia, l’amore delle sante costumanze, la fedeltà irremovibile ai principi eterni. Gli esempi gloriosi o infausti di coloro, che precedettero l’età presente, sono una lezione e un lume d’innanzi ai vostri passi; e già fu detto a ragione che gli insegnamenti della storia fanno dell’umanità un uomo sempre in cammino e che mai non invecchia. Voi vivete nella società moderna non quasi come emigranti in paese straniero, ma come benemeriti e insigni cittadini, che intendono e vogliono lavorare e collaborare coi loro contemporanei, affine di preparare il risanamento, la restaurazione e il progresso del mondo» (19).
La Provvidenza vuole la disuguaglianza di culla
Un altro fattore di ostilità contro le élite tradizionali sta nel preconcetto rivoluzionario secondo il quale ogni disuguaglianza di culla è contraria alla giustizia. Si ammette che un uomo possa emergere per meriti propri. Però non si ammette che il fatto di discendere da una stirpe illustre sia per lui un titolo in più, di gloria e di influenza. A questo riguardo, il Santo Padre Pio XII ci dà un prezioso insegnamento: «Le ineguaglianze sociali, anche quelle legate alla nascita sono inevitabili: la natura benigna e la benedizione di Dio all’umanità illuminano e proteggono le culle, le baciano, ma non le pareggiano. Guardate pure le società più inesorabilmente livellate. Nessun’arte ha mai potuto operare tanto che il figlio di un gran Capo, di un gran conduttore di folle, restasse in tutto nel medesimo stato di un oscuro cittadino perduto fra il popolo. Ma se tali ineluttabili disparità possono paganamente apparire un’inflessibile conseguenza del conflitto delle forze sociali e della potenza acquisita dagli uni sugli altri, per le leggi cieche che si stimano reggere l’attività umana e metter capo al trionfo degli uni come al sacrificio degli altri; da una mente invece cristianamente istruita ed educata esse non possono considerarsi se non quale disposizione voluta da Dio con il medesimo consiglio delle ineguaglianze nell’interno della famiglia, e quindi destinate a unire maggiormente gli uomini tra loro nel viaggio della vita presente verso la patria del cielo, gli uni aiutando gli altri, a quel modo che il padre aiuta la madre e i figli» (20).
Servire la Chiesa e il bene comune, gloria delle élite tradizionali cristiane
In questo consiste la gloria cristiana delle élite tradizionali. L’aristocrazia pagana si vantava esclusivamente della sua illustre progenie. E la nobiltà cristiana somma a questo titolo legittimo un altro ancora più alto. È l’esercizio di una funzione paterna verso le altre classi: «Il nome di Patrizio Romano sveglia nel nostro spirito pensiero e visione di storia ancor più grandi. Se il termine di patrizio, patricius, nella Roma pagana, significava il fatto di avere degli antenati, di appartenere, non a una discendenza di grado comune, ma a una classe privilegiata e dominante; nella luce cristiana prende aspetto più luminoso e risuona profondo, in quanto associa l’idea di superiorità sociale a quella di illustre paternità. Essa è un patriziato della Roma cristiana, che ebbe i suoi fulgori, più alti e antichi, non già nel sangue ma nella dignità di protettori di Roma e della Chiesa: patricius Romanorum, titolo portato dal tempo degli esarchi di Ravenna fino a Carlo Magno e ad Enrico III. Armati difensori della Chiesa ebbero pure i Papi attraverso i secoli, usciti dalle famiglie del Patriziato romano; e Lepanto ne segnò ed eternò un gran nome nei fasti della storia» (21).
Concezione paterna della superiorità sociale
Certamente dall’insieme di questi concetti si ricava una impressione di paternità, che impregna i rapporti tra le classi più alte e quelle più umili. Contro questo fatto si potrebbero presentare facilmente due obiezioni. Da un lato si potrebbe affermare che frequenti oppressioni effettuate in passato dalla nobiltà, da élite simili, smentiscono tutta questa dottrina? D’altro lato, non si potrebbe dire che ogni affermazione di superiorità elimina dal rapporto sociale la serietà, la soavità, la dolcezza cristiana? Pio XII risponde implicitamente a queste domande, quando afferma: «se questa concezione paterna della superiorità sociale talvolta, per l’urto delle passioni umane, sospinse gli animi a deviazioni nei rapporti delle persone di rango più elevato con quelle di condizione più umile, la storia dell’umanità decaduta non se ne meraviglia. Tali deviazioni non valgono a diminuire o ad offuscare la verità fondamentale che per il cristiano le disuguaglianze sociali si fondono in una grande famiglia umana; che quindi le relazioni fra classi e ranghi ineguali hanno da rimanere governate da una proba e pari giustizia; e, ad un tempo, animate di rispetto e di affezione mutua, che, pur senza sopprimere le disparità, ne scemino le distanze e ne temperino i contrasti» (22). Esempio vivo di questa aristocratica gentilezza di tratto si trova in molte famiglie nobili, che sanno essere straordinariamente benevole verso i loro subordinati, senza consentire che sia sminuita in nulla la loro naturale superiorità: «Nelle famiglie veramente cristiane non vediamo noi forse i più grandi fra i patrizi e le patrizie vigili e solleciti di conservare verso i loro domestici e tutti quelli, che li circondano, un comportamento, consentaneo senza dubbio al loro rango, ma scevro di ogni sussiego, atteggiato a benevolenza e cortesia di parole e di modi, che dimostrano la nobiltà di cuori i quali vedono in essi uomini, fratelli, cristiani come loro, a sé uniti in Cristo coi vincoli della carità? Di quella carità, che anche nei palazzi aviti, fra i grandi e gli umili, massime nelle ore di mestizia e di dolore che non è mai che manchino quaggiù, conforta, sostiene allieta e addolcisce la vita?» (3).
Gesù Cristo ha consacrato la condizione sia del nobile che dell’operaio
Vista in questo modo la condizione del nobile, oppure del membro di una élite tradizionale, si capisce come Gesù Cristo l’abbia santificata, incarnandosi in una famiglia principesca: «È un fatto che Cristo Nostro Signore, se elesse, per conforto dei poveri, di venire al mondo privo di tutto e di crescere in una famiglia di semplici operai, volle tuttavia colla sua nascita onorare la più nobile ed illustre delle case di Israele, la discendenza stessa di David.
«Perciò, fedeli allo spirito di Colui, del quale sono Vicari, i Sommi Pontefici hanno sempre tenuto in alta considerazione il Patriziato e la nobiltà romana, i cui sentimenti di inalterabile attaccamento a questa Sede Apostolica sono la parte più preziosa della eredità ricevuta dai loro avi e che essi stessi trasmetteranno ai loro figli» (24).
La legge non può annullare il passato
E si capisce anche che, nonostante la proclamazione della repubblica in Italia, il Santo Padre abbia conservato il patriziato e la nobiltà romane, come illustre ricordo di un passato del quale il presente deve conservare qualcosa, a titolo di continuità di una tradizione benefica e illustre: «È ben vero che nella nuova Costituzione d’Italia “i titoli nobiliari non sono riconosciuti” (salvo naturalmente, a norma dell’articolo 42 del Concordato, per ciò che riguarda la Santa Sede, quelli conferiti o da conferirsi in avvenire dai Sommi Pontefici); ma la Costituzione stessa non ha potuto annullare il passato, né la storia delle vostre famiglie» (25). Dal che continua a derivare ai nobili un pesante e magnifico dovere, risultante da questo prestigio, che amici e nemici devono riconoscere: «Quindi anche ora il popolo – sia esso a voi favorevole o contrario, abbia per voi una rispettosa fiducia o sentimenti ostili – guarda ed osserva quale esempio voi date nella vostra vita. A voi dunque spetta di rispondere a tale attesa e di mostrare in qual modo la vostra condotta e i vostri atti siano conformi a verità e a virtù, particolarmente nei punti che abbiamo sopra ricordati» (26).
Considerando ciò che la nobiltà romana è stata nel passato, e vedendo in questo ricordo non qualcosa di morto, ma un «impulso per l’avvenire» (27), il Santo Padre, «mosso da motivi di onore e di fedeltà» (28), mantiene, anche nelle attuali circostanze, un trattamento di speciale riguardo per essa, e invita l’uomo moderno ad associarsi a tale atteggiamento: «Noi salutiamo in voi i discendenti e i rappresentanti di famiglie, che si segnalarono già nel servizio della Santa Sede e del Vicario di Cristo e rimasero fedeli al Pontificato Romano, anche quando questo era esposto ad oltraggi e a persecuzioni. Senza dubbio, nel corso del tempo l’ordine sociale ha potuto evolversi e il suo centro spostarsi; i pubblici uffici, che una volta erano riservati alla vostra classe, possono ora essere attribuiti ed esercitati sopra una base di eguaglianza; tuttavia ad un tale attestato di riconoscente memoria – che deve altresì valere d’impulso per l’avvenire – anche l’uomo moderno, se vuol essere di retti ed equanimi sentimenti, non può negare comprensione e rispetto» (29).
Due errori estremi: archeologismo e falsa restaurazione
Ma, si dirà, Pio XII, con questi insegnamenti, emessi in un’epoca nella quale il desiderio di uguaglianza più insolente e completo ha la meglio in ogni luogo, sembra reagire assolutamente contro corrente, condannando la democrazia.
Tale impressione non regge. La Chiesa ha sempre affermato la legittimità della forma di governo democratica, e il pensiero del Pontefice non consiste nell’imporre un sistema di governo piuttosto di un altro. Di fronte alla valanga ugualitaria, e senza entrare nel merito di preferenze politiche, Pio XII cerca di prendere la tendenza democratica così come esiste, e di guidarla in modo da evitare un male maggiore.
È quanto mostra quando dà alla nobiltà romana il seguente consiglio, al momento della riorganizzazione dell’Italia del dopo guerra: «Ora tutti generalmente ammettono che questa riorganizzazione non può essere concepita come un puro e semplice ritorno al passato. Un simile regresso non è possibile, pur nel suo moto spesso disordinato, sconnesso, senza unità né coerenza, il mondo ha continuato a camminare; la storia non si arresta, non può arrestarsi; essa avanza sempre, proseguendo la sua corsa, ordinata e rettilinea ovvero confusa e contorta, verso il progresso ovvero verso una illusione di progresso» (30). Ora, in questa marcia «verso il progresso ovvero verso una illusione di progresso», voler restaurare fin nella più piccola delle più piccole minuzie quanto è stato distrutto, sarebbe impossibile: «nondimeno essa cammina, corre, e volere semplicemente “far marcia indietro”, non vogliamo dire per ridurre il mondo alla immobilità su posizioni antiche, ma per ricondurlo a un punto di partenza malauguratamente abbandonato a causa di deviamenti o di falsi scambi, sarebbe vana o sterile impresa. Non in ciò consiste – come osservammo l’anno passato in questa medesima occasione – la vera tradizione» (31).
Nel ricostruire la società, come nel ricostruire un edificio, vi sono due errori estremi da evitare: uno è la ricostruzione archeologica; l’altro la costruzione di un edificio diverso, cioè una ricostruzione che non sarebbe una ricostruzione: «Come non si potrebbe concepire a modo di una ricostruzione archeologica la ricostruzione di un edificio, che deve servire ad usi odierni, così essa neppur sarebbe possibile secondo disegni arbitrari, anche se fossero teoricamente i migliori e i più desiderabili; occorre tener presente la imprescindibile realtà in tutta la sua estensione» (32).
Istituzioni altamente aristocratiche anche nelle democrazie
Ora, se la Chiesa non intende distruggere la democrazia, desidera che essa sia bene intesa, e che la distinzione tra la concezione cristiana e la concezione rivoluzionaria della democrazia sia assoluta.
È molto opportuno, a questo riguardo, ricordare quanto Pio XII insegna sul carattere tradizionale e sul tono aristocratico della democrazia cristiana: «Già in altra occasione Noi abbiamo parlato delle condizioni necessarie, acciocché un popolo sia maturo per una sana democrazia. Ma chi può condurlo ed elevarlo a questa maturità? Senza dubbio molti insegnamenti potrebbe la Chiesa a tale riguardo trarre dal tesoro delle sue esperienze e della sua propria azione civilizzatrice. Ma la vostra presenza qui Ci suggerisce una particolare osservazione. Per testimonianza della storia, là ove vige una vera democrazia, la vita del popolo è come impregnata di sane tradizioni, che non è lecito di abbattere. Rappresentanti di queste tradizioni sono anzitutto le classi dirigenti, ossia i gruppi di uomini e donne o le associazioni, che danno, come suol dirsi, il tono nel villaggio e nella città, nella regione e nell’intero paese.
«Di qui, in tutti i popoli civili, l’esistenza e l’influsso d’istituzioni, eminentemente aristocratiche nel senso più alto della parola, come sono talune accademie di vasta e ben meritata rinomanza. Anche la nobiltà è del numero: senza pretendere alcun privilegio o monopolio, essa è o dovrebbe essere una di quelle istituzioni; istituzione tradizionale, fondata sulla continuità di un’antica educazione. Certo, in una società democratica, quale vuol essere la moderna, il semplice titolo della nascita non è più sufficiente ad acquisire autorità e credito; per conservare quindi degnamente la vostra elevata condizione e il vostro grado sociale, anzi per aumentarlo e innalzarlo, voi dovete essere veramente una élite, dovete adempire le condizioni e corrispondere alle esigenze indispensabili nel tempo in cui ora viviamo.
«Una élite? Voi potete ben esserla. Avete dietro di voi un passato di tradizioni secolari, che rappresentano valori fondamentali per la sana vita di un popolo. Fra queste tradizioni, di cui andate giustamente alteri, voi contate in primo luogo la religiosità, la fede cattolica viva e operante» (33).
Una nobiltà, oppure élite tradizionali, il cui ambiente sia brodo di coltura per la formazione di alte qualità di intelligenza, di volontà e di sensibilità, e che alimenti il suo prestigio con il merito di ogni generazione che passa, non è quindi, per Pio XII il contrario della democrazia cristiana, ma un prezioso elemento di essa. Tanto differisce la democrazia cristiana dalla democrazia ugualitaria rivoluzionaria.
Vedremo nel prossimo numero altri insegnamenti del Santo Padre su questa importante materia.
3. La importanza delle “élite” tradizionali nella soluzione della crisi odierna
Nell’ultimo numero di Catolicismo abbiamo pubblicato alcuni passi mirabili nei quali il Santo Padre Pio XII, rivolgendosi alla nobiltà e al patriziato romani in occasione delle udienze per la presentazione degli auguri per il nuovo anno dal 1941 al 1952, affermava la esistenza di una missione importantissima delle aristocrazie nei giorni che corrono, missione che, come abbiamo sottolineato, si può estendere, per analogia, alle élite tradizionali del nostro paese.
Di seguito riproduciamo oggi i testi che si riferiscono più specificamente alle gravi responsabilità di queste alte categorie sociali, nei piani della Provvidenza.
Questi passi sono tutti ispirati alla idea centrale secondo cui, se un nome di famiglia illustre dà diritto a onori e a vantaggi, impone anche obblighi gravi, ai quali sarebbe ingiusto e anche da fellone da parte del nobile sottrarsi.
Assenteismo e omissione, peccato delle élite
Un difetto che non è raro negli elementi delle élite tradizionali consiste nell’isolarsi dagli avvenimenti. Protetti dalle vicissitudini da una condizione patrimoniale sicura essi si estraniano dalla vita reale, si chiudono in se stessi: e lasciano passare i giorni e gli anni in una vita disimpegnata, spenta, e senza un obiettivo terreno definito. Si cerchino i loro nomi nelle fatiche dell’apostolato, nelle attività caritative, nella politica, nelle lettere, nella produzione economica: invano, sono assenti. Perfino nella vita sociale, la loro parte è nulla. Nell’ambito del paese, della provincia, della città, tutto accade come se non esistessero.
Perché questo assenteismo? Per un insieme di qualità e di difetti. Si esamini da vicino la vita di questi elementi: essa è degna, onesta, persino modello, poiché si ispira a nobili ricordi di un passato profondamente cristiano. Ma questo passato sembra loro avere significato soltanto per essi. Quindi si attaccano a esso con una perseveranza minuziosa e si estraniano dalla vita presente. Non si rendono conto che, se nell’insieme di ricordi di cui vivono ormai molte cose non sono più applicabili ai nostri giorni – «Una pagina della storia è stata voltata; un capitolo è stato chiuso; è stato messo il punto, che indica il termine di un passato sociale ed economico», ha avvertito Pio XII nella sua allocuzione del 1952 (34) -, da questo passato promanano valori, ispirazioni; movimenti, direttive, che devono influenzare profondamente «assai diverse forme di vita» (35), di «un nuovo capitolo [che] è stato aperto» (36). Questo insieme di valori spirituali, morali, culturali e sociali, di grande importanza nella politica come nella sfera privata, questa vita che nasce dal passato e deve dirigere il futuro, è la tradizione. La nobiltà e le élite tradizionali devono avere una profonda azione di presenza nella società, per assicurare la perpetuità di questo bene inestimabile che è la tradizione.
Vi è progresso soltanto nella linea della tradizione
Perché? Perché il progresso è reale soltanto se costituisce non un ritorno al passato, ma uno sviluppo armonico di questo. Diversamente la società rimane esposta a rischi terribili: «Le cose terrene scorrono come un fiume nell’alveo del tempo: necessariamente il passato cede il posto e la via all’avvenire, e il presente non è che un istante fugace che congiunge l’uno con l’altro. È un fatto, è un moto, è una legge; non è in sé un male. Il male sarebbe, se questo presente, che dovrebbe essere un flutto tranquillo nella continuità della corrente, divenisse una tromba marina, sconvolgendo ogni cosa come tifone o uragano al suo avanzarsi, e scavando con furioso distruggimento e rapimento un abisso tra ciò che fu e ciò che deve seguire. Tali sbalzi disordinati, che fa la storia nel suo corso, costituiscono allora e segnano ciò che si chiama una crisi, vale a dire un passaggio pericoloso, che può far capo a salvezza o a rovina irreparabile, ma la cui soluzione è tuttora avvolta di mistero entro la caligine delle forze contrastanti» (37).
La tradizione è il contrario della rivolta e della stagnazione
La tradizione evita la stagnazione delle società, così come il caos e la rivolta: si veda il passo della allocuzione del 1944, che abbiamo riprodotto precedentemente sotto il titolo Senso e valore della vera tradizione.
Questa tutela della tradizione, alla quale allude Sua Santità in questo passo, è la missione specifica della nobiltà e delle élite analoghe. Lo ha detto il Pontefice in un tratto che, benché lo abbiamo già trascritto precedentemente, ci permettiamo di ripresentare ora per non moltiplicare i rimandi: «La società umana non è forse, o almeno non dovrebbe essere, simile ad una macchina bene ordinata, di cui tutti gli organi concorrono all’azione armonica dell’insieme? Ognuno di essi ha il proprio ufficio, ognuno deve applicarsi al miglior progresso dell’organismo sociale, deve cercarne il perfezionamento, secondo le proprie forze e la propria virtù, se veramente ama il suo prossimo e tende ragionevolmente al bene e al vantaggio comune.
«Ora quale parte è stata commessa in modo speciale a voi, diletti figli e figlie? quale ufficio vi è stato particolarmente attribuito? Precisamente quello di agevolare questo svolgimento normale; quello che nella macchina presta e compie il regolatore, il volano, il reostato, che partecipano all’attività comune e ricevono la loro parte della forza motrice per assicurare il movimento di regime dell’apparecchio. In altri termini, patriziato e nobiltà, voi rappresentate e continuate la tradizione» (38).
Rompono con questa missione non soltanto le élite che si assentano dalla vita concreta, ma anche quelle che peccano per l’eccesso opposto. Ignorando la loro missione, si lasciano assorbire dal presente, rinnegando tutto il passato. Il che, in Brasile, è la tentazione dei due poli economici delle élite tradizionali, cioè dei ricchissimi e dei poverissimi. I primi non raramente diventano cosmopoliti, si paganizzano, assumono tutta la volgarità di pensieri e di modi detti «moderni» e «democratici». Gli ultimi, per disperazione, per rivolta, per mediocrità, si proletarizzano, immaginando che la nobiltà non consista tanto nell’uomo, quanto nell’oro… che ormai hanno perduto!
Le élite di formazione tradizionale hanno una visione più profonda del presente
Il nobile di spirito profondamente tradizionale ha, nella esperienza del passato che vive in lui, i mezzi per conoscere meglio di molti altri i problemi del presente. Lungi dall’essere un emarginato, è un ascoltatore sottile e profondo della realtà: «Vi sono mali della società, non altrimenti che degli individui. Fu un grande avvenimento della storia della medicina, quando un giorno il celebre Laënnec, uomo di genio e di fede, chino ansiosamente sul petto dei malati, armato dello stetoscopio da lui inventato, ne faceva l’ascoltazione, distinguendo e interpretando i più leggeri soffi, i fenomeni acustici appena percettibili dei polmoni e del cuore. Non è forse una funzione sociale di prim’ordine e di alto interesse quella di penetrare in mezzo al popolo e di ascoltare le aspirazioni e il malessere dei contemporanei, di sentire e discernere i battiti dei loro cuori, di creare rimedio ai mali comuni, di toccarne delicatamente le piaghe per guarirle e salvarle dall’infezione, possibile a sopravvenire per difetto di cure, schivando di irritarle con un contatto troppo rude?
«Comprendere, amare nella carità di Cristo il popolo del vostro tempo, dar prova coi fatti di questa comprensione e di questo amore: ecco l’arte e il modo di fare quel maggior bene che è da voi, non solo direttamente a coloro che vi stanno intorno, ma in una sfera quasi senza limiti, allorché la vostra esperienza diviene un beneficio per tutti. E in questa materia quali magnifiche lezioni danno tanti nobili spiriti ardentemente e alacremente tesi a diffondere e suscitare un ordine sociale cristiano!» (39).
Come si vede, il nobile, autenticamente nobile, autenticamente tradizionale, può, e deve, conservandosi tale, amare soprannaturalmente il popolo, ed esercitare su di esso una influenza genuinamente cristiana.
La vera dignità delle élite non sta nella inerzia
Ma, si dirà, entrando nei posti direttivi della vita contemporanea, la nobiltà non si volgarizza? E il suo amore al passato non la renderebbe un ostacolo all’esercizio delle attività attuali? A questo riguardo Pio XII ha insegnato: «Non meno offensivo per voi, non meno dannoso per la società, sarebbe il pregiudizio mal fondato ed ingiusto, il quale non dubitasse di far credere e insinuare che il patriziato e la nobiltà verrebbero meno al proprio onore e alla dignità del proprio grado col tenere e praticare funzioni ed uffici, che li mettessero al fianco dell’attività generale. È ben vero che in tempi antichi l’esercizio delle professioni non si reputava ordinariamente degno dei nobili, eccettuata quella delle armi: ma anche allora non pochi di loro appena la difesa armata li rendeva liberi, non esitavano di darsi ad opere d’intelletto o al lavoro delle loro mani. Oggidì poi, nelle mutate condizioni politiche e sociali, non è raro di trovare nomi di grandi famiglie associati ai progressi della scienza, dell’agricoltura, dell’industria, della pubblica amministrazione, del governo; tanto più perspicaci osservatori del presente e sicuri e arditi pionieri dell’avvenire, quanto più con mano salda stanno fermi al passato, pronti a trarre vantaggio dall’esperienza dei loro antenati, presti a guardarsi dalle illusioni o dagli errori, che furono già cagione di molti passi falsi e nocivi.
«Custodi come volete essere della vera tradizione, che onora le vostre famiglie, spetta a voi l’ufficio e il vanto di contribuire alla saldezza della convivenza umana, preservandola sia dalla sterilità a cui la condannerebbero i contemplatori malinconici troppo gelosi del passato, sia dalla catastrofe a cui l’avvierebbero e la condurrebbero i temerari avventurieri o i profeti allucinati di un fallace e menzognero avvenire. Nell’opera vostra apparirà sopra di voi e in voi quasi l’immagine della Provvidenza divina, che con forza e dolcezza dispone e dirige tutte le cose verso il loro perfezionamento (Sap. 8, 1), finché la follia dell’orgoglio umano non intervenga ad attraversare i suoi disegni, sempre però d’altra parte superiori al male, al caso e alla fortuna. Con tale azione voi sarete anche preziosi collaboratori della Chiesa, che, pur in mezzo alle agitazioni e ai conflitti, non cessa di promuovere il progresso spirituale dei popoli, città di Dio sulla terra che prepara la città eterna» (40).
Quanta demagogia sarebbe stata evitata in Brasile se le nostre élite tradizionali avessero inteso questo dovere!
Come la nobiltà può esercitare la sua missione dirigente
La pluralità di funzioni direttive è naturalmente molto vasta: «In una società progredita, come la nostra, che dovrà essere restaurata, riordinata dopo il grande cataclisma, l’ufficio di dirigente è assai vario: dirigente è l’uomo di Stato, di governo, l’uomo politico; dirigente è l’operaio, che senza ricorrere alla violenza, alle minacce, alla propaganda insidiosa, ma col suo proprio valore, ha saputo acquistare autorità e credito nella sua cerchia; dirigenti, ciascuno nel suo campo, l’ingegnere e il giureconsulto, il diplomatico e l’economista, senza i quali il mondo materiale, sociale, internazionale, andrebbe alla deriva; dirigenti il professore universitario, l’oratore, lo scrittore, che mirano a formare e guidare gli spiriti; dirigente l’ufficiale, che infonde nell’animo dei suoi militi il senso del dovere, del servizio, del sacrificio; dirigente il medico nell’esercizio della sua missione salutare; dirigente il sacerdote che addita alle anime il sentiero della luce e della salvezza, comunicando loro gli aiuti per camminarvi e avanzare sicuramente» (41).
La nobiltà e le élite tradizionali hanno la funzione di partecipare a questa direzione; non in questo o in quel settore determinato, ma con uno spirito tradizionale e specifico, e in modo esimio, in qualsiasi settore degno: «Qual è, in questa moltiplicità di direzioni, il vostro posto, il vostro ufficio, il vostro dovere? Esso si presenta in un duplice aspetto: ufficio e dovere personale, per ognuno di voi, ufficio e dovere della classe a cui appartenete.
«Il dovere personale richiede che voi, con la vostra virtù, con la vostra applicazione, vi studiate di divenire dirigenti nella vostra professione. Ben sappiamo infatti che la gioventù odierna del vostro nobile ceto, consapevole dell’oscuro presente e dell’ancor più incerto avvenire, è pienamente persuasa che il lavoro è non solo un dovere sociale, ma anche una garanzia individuale di vita. E noi intendiamo la parola professione nel senso più largo e comprensivo, come avemmo già ad indicare lo scorso anno; professioni tecniche o liberali, ma anche attività politica, sociale, occupazioni intellettuali, opere di ogni sorta, amministrazione oculata, vigilante, laboriosa, delle vostre sostanze, delle vostre terre, secondo i metodi più moderni e più sperimentali di colture, per il bene materiale, morale, sociale, spirituale, dei coloni o delle popolazioni, che vivono in esse. In ciascuna di queste condizioni voi dovete porre ogni cura per ben riuscire come dirigenti, sia a causa della fiducia che mettono in voi coloro i quali sono rimasti fedeli alle sane e vive tradizioni, sia a ragione della diffidenza di molti altri, diffidenza che voi dovete vincere, guadagnandovi la stima e il rispetto loro, a forza di eccellere in tutto nel posto in cui vi trovate, nell’attività che esercitate, qualunque sia la natura di quel posto o la forma di quell’attività» (42).
Più precisamente, il nobile deve comunicare a tutto quanto fa le qualità umane rilevanti che la sua tradizione gli dà: «In che cosa deve dunque consistere questa vostra eccellenza di vita e di azione, e quali sono i suoi caratteri principali?
«Essa si manifesta innanzi tutto nella finitezza dell’opera vostra, sia essa tecnica o scientifica o artistica o altra simile. L’opera delle vostre mani e del vostro spirito deve avere quell’impronta di squisitezza e di perfezione, che non si acquista dall’oggi al domani, ma che riflette la finezza del pensiero, del sentimento, dell’anima, della coscienza, ereditata dai vostri maggiori e incessantemente fomentata dall’ideale cristiano.
«Essa si palesa altresì in ciò che può chiamarsi l’umanesimo, vale a dire la presenza, l’intervento dell’uomo completo in tutte le manifestazioni della sua attività anche sociale, in tal guisa che la specializzazione della sua competenza non sia mai una ipertrofia, non atrofizzi mai né veli la coltura generale, a quel modo che in una frase musicale la dominante non deve rompere l’armonia né opprimere la melodia.
«Essa si mostra inoltre nella dignità di tutto il portamento e di tutta la condotta, dignità però non imperiosa, e che lungi dal dare rilievo alle distanze, non le lascia, al bisogno, trasparire che per ispirare agli altri una più alta nobiltà di anima, di spirito e di cuore.
«Essa apparisce infine soprattutto nel senso di elevata moralità, di rettitudine, di onestà, di probità, che deve informare ogni parola e ogni atto» (43).
Ma tutta la perfezione aristocratica, così mirabile in sé stessa, sarebbe inutile e perfino nociva, se non avesse come base un alto senso morale: «Una società immorale o amorale, che non senta più nella sua coscienza e non dimostra più nelle sue azioni la distinzione fra il bene e il male, che non inorridisce più allo spettacolo della corruzione, che la scusa, che vi si adatta con indifferenza, che l’accoglie con favore, che la pratica senza turbamento né rimorso, che la ostenta senza rossore, che vi si degrada, che deride la virtù, è sul cammino della sua rovina. L’alta società francese del secolo decimottavo ne fu, fra molti altri, un tragico esempio. Mai società non fu più raffinata, più elegante, più brillante, più affascinatrice. I godimenti più svariati dello spirito, una intensa coltura intellettuale, un’arte finissima di piacere, una squisita delicatezza di maniere e di linguaggio, dominavano in quella società esternamente così cortese ed amabile, ma ove tutto – libri, racconti, figure, arredi, abbigliamenti, acconciature – invitava a una sensualità che penetrava nelle vene e nei cuori, ove la stessa infedeltà coniugale non sorprendeva né scandalizzava quasi più. Così essa lavorava alla sua propria decadenza e correva verso l’abisso scavato con le sue stesse mani. Ben altra è la vera gentilezza: essa fa risplendere nelle relazioni sociali una umiltà piena di grandezza, una carità ignara di ogni egoismo, di ogni ricerca del proprio interesse. Noi non ignoriamo con quale bontà, dolcezza, dedizione, abnegazione, molti e specialmente molte di voi, in questi tempi d’infinite miserie ed angosce, si sono chinati sugli infelici, hanno saputo irradiare intorno a sé, in tutte le forme più progredite e più efficaci, la luce del loro caritatevole amore, E questo è l’altro aspetto della vostra missione» (44).
«Umiltà piena di grandezza… », mirabile espressione tanto contraria allo snobismo frivolo quanto alla grossolanità delle maniere, dello stile di vita, del modo di essere detti da molti «democratici» e «moderni»!
La distinzione aristocratica, vincolo di carità
Ma allora il nobile, con le sue maniere cavalleresche e superiormente distinte, non rappresenta e non ha sempre rappresentato un elemento di divisione?
Per nulla. La distinzione aristocratica bene intesa è un elemento di unione, che fa penetrare la dolcezza in tutte le classi sociali con le quali, a causa della sua professione o delle sue attività, il nobile ha contatto.
Questa distinzione mantiene le classi «senza confusione né disordine» (45), ossia, senza livellamento e ugualitarismi, ma rende amichevoli le loro relazioni.
Le élite tradizionali, guide della moltitudine
La moltitudine oggigiorno necessita di guide idonee: «[…] la folla innumerevole, anonima, è facile ad agitarsi disordinatamente: essa si abbandona alla cieca, passivamente, al torrente che la trascina o al capriccio delle correnti che la dividono e la traviano. Una volta divenuta trastullo delle passioni o degli interessi dei suoi agitatori, non meno che delle proprie illusioni, essa non sa più prendere piede sulla roccia e stabilirvisi per formare un vero popolo, vale a dire un corpo vivente con le membra e gli organi differenziati secondo le loro forme e funzioni rispettive, ma tutti insieme concorrenti alla sua attività autonoma nell’ordine e nelle unità» (46).
Questa funzione di guida, la devono svolgere le élite. E fra le élite non si può negare un posto molto importante a quelle che conservano la tradizione. Tocca alla nobiltà un luminoso apostolato: «Una élite? Voi potete ben esserla. Avete dietro di voi tutto un passato di tradizioni secolari, che rappresentano valori fondamentali per la sana vita di un popolo. Fra queste tradizioni, di cui andate giustamente alteri, voi contate in primo luogo la religiosità, la fede cattolica viva e operante. La storia non ha forse già crudelmente provato che ogni umana società senza base religiosa corre fatalmente alla sua dissoluzione o finisce nel terrore? Emuli dei vostri antenati, voi dovete dunque rifulgere innanzi al popolo con la luce della vostra vita spirituale, con lo splendore della vostra inconcussa fedeltà verso Cristo e la Chiesa. – Fra quelle tradizioni annoverate altresì l’onore inviolato di una vita coniugale e familiare profondamente cristiana. Da tutti i paesi, almeno da quelli della civiltà occidentale, sale il grido di angoscia del matrimonio e della famiglia, così straziante che non è possibile di non udirlo. Anche qui con tutta la vostra condotta mettetevi alla testa del movimento di riforma e di restaurazione del focolare domestico. – Fra le stesse tradizioni computate inoltre quella di essere per il popolo, in tutte le funzioni della vita pubblica a cui potreste essere chiamati, esempi viventi d’inflessibile osservanza del dovere, uomini imparziali e disinteressati, che, liberi da ogni disordinata brama di ambizione o di lucro, non accettano un posto se non per servire la buona causa, uomini coraggiosi, non timidi né per perdita di favore dall’alto né per minacce dal basso. – Fra le medesime tradizioni ponete infine quella di un calmo e costante attaccamento a tutto ciò che l’esperienza e la storia hanno convalidato e consacrato, quella di uno spirito inaccessibile all’agitazione irrequieta e alla cieca bramosità di novità che caratterizzano il nostro tempo, ma insieme largamente aperto a tutte le necessità sociali. Fortemente convinti che soltanto la dottrina della Chiesa può portare efficace rimedio ai mali presenti, abbiate a cuore di aprirle la via, senza riserva o diffidenze egoistiche, con la parola e con l’opera, in particolar modo costituendo nell’amministrazione dei vostri beni veri modelli di aziende dal lato tanto economico che sociale. Un vero gentiluomo non presta mai il suo concorso a intraprese, che non possono sostenersi e prosperare se non con danno del bene comune, con detrimento o con la rovina delle persone di condizione modesta. Al contrario, egli porrà il suo vanto nell’essere dalla parte dei piccoli, dei deboli, del popolo, di coloro che, esercitando un onesto mestiere, guadagnano il pane col sudore della fronte. Così voi sarete veramente una élite; così compirete il vostro dovere religioso e cristiano; così servirete nobilmente Iddio e il vostro Paese.
«Possiate, diletti figli e figlie, con le vostre grandi tradizioni, con la cura del vostro progresso e della vostra perfezione personale, umana e cristiana, coi vostri servizi amorevoli, con la carità e la semplicità delle vostre relazioni con tutte le classi sociali, aiutare il popolo a raffermarsi sulla pietra fondamentale, a cercare il regno di Dio e la sua giustizia» (47).
Il peccato di omissione delle guide assenti
Da ciò si comprende la responsabilità che vi è nella omissione delle élite perpetuamente assenti: «Meno malagevole è oggi […] di determinare, fra i differenti modi che si offrono a voi, quale debba essere la vostra condotta.
«Il primo di tali modi è inammissibile; è quello del disertare, di colui che fu ingiustamente chiamato l’“Emigré à l’intérieur”; è l’astensione dell’uomo imbronciato o corrucciato, che, per dispetto o per scoraggiamento, non fa alcun uso delle sue qualità e delle sue energie, non partecipa ad alcuna delle attività del suo Paese e del suo tempo, ma si ritira – come il Pelide Achille nella sua tenda, presso alle navi del rapido tragitto, lontano dalle battaglie, – mentre sono in gioco i destini della patria.
«Anche men degna è l’astensione, quando è l’effetto di una indifferenza indolente e passiva. Peggiore, infatti, del cattivo umore, del dispetto e dello scoraggiamento, sarebbe la noncuranza di fronte alla rovina, in cui fossero per cadere i propri fratelli e il proprio popolo. Invano essa tenterebbe di celarsi sotto la maschera della neutralità; essa non è punto neutrale; è, volere o no, complice. Ciascuno dei fiocchi leggieri, che riposano dolcemente sul pendio della montagna e l’adornano della loro bianchezza, contribuisce, mentre si lascia trascinare passivamente, a far della piccola massa di neve, staccatasi dalla vetta, la valanga che porta il disastro nella valle e vi abbatte e vi seppellisce le tranquille dimore. Soltanto il saldo blocco, che fa corpo con la roccia fondamentale, oppone alla valanga una resistenza vittoriosa, e può arrestarne o almeno frenarne la corsa devastatrice.
«In tal guisa l’uomo giusto e fermo nel suo proposito di bene, di cui parla Orazio in una celebre Ode (Carm. III, 3), che non si lascia scuotere nel suo incrollabile pensiero né dal furore dei cittadini, che danno ordini delittuosi, né dal cipiglio minaccioso del tiranno, rimane impavido, anche se l’universo cadesse in frantumi sopra di lui “si fractus inlabatur orbis, impavidum ferient ruinae”. Ma se quest’uomo giusto e forte è un cristiano, non si contenterà di restare ritto, impassibile, in mezzo alle rovine; egli si sentirà in dovere di resistere e d’impedire il cataclisma, o almeno di limitare i danni. Che se non potrà contenerne l’opera distruggitrice, egli sarà ancora là per ricostruire l’edificio abbattuto, per seminare il campo devastato. Tale conviene che sia la vostra condotta. Essa consiste – senza dover rinunziare alla libertà delle vostre convinzioni e dei vostri giudizi sulle umane vicissitudini – nel prendere l’ordine contingente delle cose tale quale è, e nel dirigere la sua efficienza verso il bene, non tanto di una determinata classe, quanto della intiera comunità» (48).
Come si vede, il Papa, in queste ultime parole, insiste sul principio che la esistenza di una élite tradizionale corrisponde all’interesse di tutto il corpo sociale, purché compia il suo dovere.
Qualità spirituali del nobile odierno
È chiaro che il compimento di questo dovere incontra ostacoli gravissimi. Ma il membro della nobiltà o delle élite tradizionali deve essere uomo di valore. È quanto si aspetta da lui il Vicario di Gesù Cristo: «Perciò quel che attendiamo da voi è innanzi tutto una fortezza di animo, che le più dure prove non potrebbero abbattere; una fortezza di animo che faccia di voi, non soltanto perfetti soldati di Cristo per voi stessi, ma anche quasi allenatori e sostegni di coloro che fossero tentati di dubitare o di cedere.
«Quel che attendiamo da voi è, in secondo luogo, una prontezza di azione, cui non sgomenta né scoraggia la previsione di alcun sacrificio, che il bene comune oggi richieda; una prontezza e un fervore, che, rendendovi alacri nell’adempimento di tutti i vostri doveri di cattolici e di cittadini, vi preservino dal cadere in un “astensionismo” apatico e inerte, che sarebbe gravemente colpevole in un tempo in cui sono in gioco i più vitali interessi della religione e della patria.
«Quel che attendiamo da voi è, finalmente, una generosa adesione, non a fior di labbra o di pura forma, ma dal fondo del cuore e messa in atto senza riserve, al precetto fondamentale della dottrina e della vita cristiana, precetto di fratellanza e di giustizia sociale, la cui osservanza non potrà non assicurare a voi stessi vera felicità spirituale e temporale.
«Possano questa fortezza d’animo, questo fervore, questo spirito fraterno guidare ciascuno dei vostri passi e rinfrancare il vostro cammino nel corso del nuovo anno, che così incerto si annunzia e sembra quasi condurvi attraverso un oscuro traforo» (49).
E il Pontefice sviluppa ancora di più questi concetti nel 1949: «Della fortezza d’animo tutti hanno bisogno, ma specialmente ai nostri giorni, per sopportare coraggiosamente le sofferenze, per superare vittoriosamente le difficoltà della vita, per adempire costantemente il proprio dovere. Chi non ha da soffrire? chi non ha da penare? chi non ha da lottare? Soltanto colui che si arrende e fugge. Ma voi avete, meno di tanti altri, il diritto di arrendervi e di fuggire. Oggi le sofferenze, le difficoltà, le necessità, sono, ordinariamente, comuni a tutte le classi, a tutte le condizioni, a tutte le famiglie, a tutte le persone. E se alcuni ne sono esenti, se nuotano nella sovrabbondanza e nei godimenti, ciò dovrebbe spingerli a prendere sopra di sé le miserie e gli stenti degli altri. Chi potrebbe trovare contentezza e riposo, chi non sentirebbe piuttosto disagio e rossore, di vivere nell’ozio e nella frivolezza, nel lusso e nei piaceri, in mezzo alla quasi generale tribolazione?
«Prontezza d’azione. Nella grande solidarietà personale e sociale, ognuno deve essere pronto a lavorare, ma nel modo di soddisfarla. E non è forse vero che coloro, i quali dispongono di più tempo e di più abbondanti mezzi, debbono essere i più assidui e i più solleciti a servire? Parlando di mezzi, Noi non intendiamo di riferirci soltanto né primariamente alle ricchezze, ma a tutte le doti d’intelligenza, di coltura, di educazione, di conoscenze, di autorevolezza, le quali doti non sono concesse ad alcuni privilegiati dalla sorte per loro esclusivo vantaggio, o per creare una irrimediabile disuguaglianza tra fratelli, ma per il bene della intera comunità sociale. In tutto ciò che è servigio del prossimo, della società, della Chiesa, di Dio, voi dovete essere sempre i primi. Là è il vostro vero grado di onore: là è la vostra più nobile precedenza.
«Generosa adesione ai precetti della dottrina e della vita cristiana. Essi sono gli stessi per tutti, perché non vi sono due verità, né due leggi: ricchi e poveri, grandi e piccoli, alti ed umili, sono egualmente tenuti a sottomettere il loro intelletto con la fede al medesimo domma, la loro volontà con l’obbedienza alla medesima morale. Però il giusto giudizio di Dio sarà molto più severo verso coloro che hanno più ricevuto, che sono meglio in grado di conoscere l’unica dottrina e di metterla in pratica nella vita quotidiana, che col loro esempio e con la loro autorità possono più facilmente dirigere gli altri nella via della giustizia e della salvezza, ovvero perderli nei funesti sentieri della incredulità e del peccato» (50).
Queste ultime parole indicano che il Pontefice non ammette una nobiltà oppure una élite tradizionale che non sia effettivamente e disinteressatamente apostolica. La nobiltà senza idee, imborghesita, è un cadavere di nobiltà.
Perennità delle élite tradizionali
Come foglie morte, cadono a terra, al soffio della Rivoluzione, gli elementi morti del passato. La nobiltà, tuttavia, può e deve sopravvivere perché ha una permanente ragione di essere:
«Il soffio impetuoso di un nuovo tempo avvolge coi suoi vortici le tradizioni del passato. Ma tanto più esso palesa ciò che, come foglia morta, è destinato a cadere, e ciò che invece tende con genuina forza vitale a mantenersi e a consolidarsi.
«Una nobiltà e un patriziato, che, per così dire, si anchilosassero nel rimpianto dei tempi trascorsi, si voterebbero ad un inevitabile declino.
«Oggi più che mai, voi siete chiamati ad essere una élite non solo del sangue e della stirpe, ma anche più delle opere e dei sacrifici, delle attuazioni creatrici nel servizio di tutta la comunanza sociale.
«E questo non è soltanto un dovere dell’uomo e del cittadino, a cui niuno può sottrarsi impunemente. È anche un sacro comandamento della fede, che avete ereditata dai vostri padri e che dovete, dopo di loro, lasciare, integra ed inalterata, ai vostri discendenti.
«Bandite dunque dalle vostre file ogni abbattimento e ogni pusillanimità: ogni abbattimento, di fronte ad una evoluzione dei tempi, la quale porta via con sé molte cose, che altre epoche avevano edificato; ogni pusillanimità, alla vista dei gravi eventi, che accompagnano le novità dei nostri giorni.
«Essere romano: significa essere forte nell’operare, ma anche nel sopportare.
«Essere cristiano: significa andare incontro alle pene e alle prove, ai doveri e alle necessità del tempo, con quel coraggio, con quella fortezza e serenità di spirito, che attinge alla sorgente delle eterne speranze l’antidoto contro ogni umano sgomento.
«Umanamente grande è il fiero detto di Orazio: “Si fractus illabatur orbis, impavidum ferient riunae” (Od. 3, 3).
«Ma quanto più bello, più fiducioso e beatificante è il grido vittorioso, che sgorga dalle labbra cristiane e dai cuori traboccanti di fede: Non confundar in aeternum! (Te Deum)» (51).
E l’apostolato specifico di nobiltà ed élite tradizionali continua a essere fra i più importanti.
La virtù cristiana, essenza della nobiltà
«Elevate lo sguardo e tenetelo fisso all’ideale cristiano. Tutti quei rivolgimenti, quelle evoluzioni o rivoluzioni, lo lasciano intatto; nulla possono contro ciò che è l’intima essenza della vera nobiltà, quella che aspira alla perfezione cristiana, quale il Redentore additò nel discorso della montagna. Fedeltà incondizionata alla dottrina cattolica, a Cristo e alla sua Chiesa; capacità e volontà di essere anche per gli altri modelli e guide. È forse necessario di enumerarvene le applicazioni pratiche? Date al mondo, anche al mondo dei credenti e dei cattolici praticanti, lo spettacolo di una vita coniugale irreprensibile, l’edificazione di un focolare domestico veramente esemplare» (52). E subito dopo questo il Santo Padre stimola la nobiltà a una santa intransigenza: «opponete una diga ad ogni infiltrazione, nelle vostre dimore, nella vostra cerchia, di princìpi esiziali, di condiscendenze e tolleranze perniciose, che potrebbero contaminare od offuscare la purezza del matrimonio e della famiglia. Ecco, certamente, una insigne e sana impresa, ben atta ad accendere lo zelo della nobiltà romana e cristiana ai nostri tempi» (53).
«Può ben essere che l’uno o l’altro punto nel presente stato di cose vi dispiaccia. Ma nell’interesse e per l’amore del bene comune, per la salvezza della civiltà cristiana, nella crisi che, lungi dall’attenuarsi, sembra piuttosto andare crescendo, state fermi sulla breccia, nella prima linea di difesa. Le vostre qualità particolari possono trovare là anche oggi ottimo impiego. I vostri nomi, che risuonano altamente nei ricordi fin dal lontano passato, nella storia della Chiesa e della società civile, richiamano alla memoria figure, di uomini grandi e fanno echeggiare nelle vostre anime la voce ammonitrice del dovere di mostrarvene degni» (54).
La aristocrazia e la sua missione presso i poveri
Il carattere educativo e il carattere caritativo della azione delle élite tradizionali sono mirabilmente descritti, rispettivamente, in questi due passi: «Ma, come ogni ricco patrimonio, anche questo porta con sé stretti doveri, tanto più stretti, quanto più esso è ricco. Due soprattutto:
1) il dovere di non sperperare simili tesori, di trasmetterli intatti, accresciuti anzi, se è possibile, a coloro che verranno dopo di voi; di resistere perciò alla tentazione di non vedere in essi che un mezzo di vita più facile, più piacevole, più squisita, più raffinata;
2) il dovere di non riservare per voi soli quei beni, ma di farne largamente profittare coloro che sono stati meno favoriti dalla Provvidenza.
«La nobiltà della beneficenza e della virtù, diletti figli e figlie, è stata essa pure conquistata dai vostri maggiori, e ne sono testimoni i monumenti e le case, gli ospizi, i ricoveri, gli ospedali di Roma, dove i loro nomi e il loro ricordo parlano della loro provvida e vigile bontà verso gli sventurati e i bisognosi. Noi ben sappiamo che nel patriziato e nella nobiltà romana non è venuta meno, per quanto le facoltà di ciascuno lo permettono, questa gloria e gara di bene. Ma nella presente ora penosa, in cui il cielo è turbato da vigilate sospettose notti, l’animo vostro, mentre osserva nobilmente una serietà, vorremmo anzi dire una austerità di vita, che esclude ogni sofferenza, sente ancor più vivo l’impulso della carità operosa che vi sospinge a crescere e moltiplicare i meriti già da voi acquistati nel sollievo delle miserie e della povertà umana» (55).
La storia è fatta soprattutto dalle élite. Questa è la ragione per cui. se l’azione della nobiltà cristiana è stata altamente benefica, la paganizzazione della nobiltà è stata il punto di partenza della crisi contemporanea: «Conviene tuttavia ricordare che tale cammino verso la incredulità e la irreligione ebbe il suo punto di partenza non dal basso, ma dall’alto, vale a dire dalle classi dirigenti, dai ceti elevati, dalla nobiltà, da pensatori e filosofi. Non intendiamo qui di parlare – notate bene – di tutta la nobiltà, e ancor meno della nobiltà romana, la quale largamente si distinse per la sua fedeltà alla Chiesa e a questa Sede Apostolica – e le eloquenti e filiali espressioni, che abbiamo testé udite, ne sono una novella e luminosa prova – ma, in generale, della nobiltà in Europa. Negli ultimi secoli non si rileva forse nell’occidente cristiano una evoluzione spirituale, che, per così dire, orizzontalmente e verticalmente, in larghezza e in profondità, sempre più veniva demolendo e scalzando la fede, conducendo a quella rovina, che presentano oggi moltitudini di uomini senza religione od ostili alla religione, o almeno animati e traviati da intimo e malconcepito scetticismo verso il soprannaturale e il cristianesimo?
«Avanguardia di questa evoluzione fu la cosidetta Riforma protestante, nelle cui vicende e guerre una gran parte della nobiltà europea si staccò dalla Chiesa cattolica e se ne appropriò i beni. Ma la incredulità propriamente si diffuse nei tempi che precedettero la rivoluzione francese. Gli storici notano che l’ateismo, anche sotto la lustra di deismo, si era allora propagato rapidamente nell’alta società in Francia e altrove: credere in Dio creatore e redentore era divenuto, in quel mondo dedito a tutti i piaceri dei sensi, quasi cosa ridicola e disdicevole a spiriti colti e avidi di novità e di progresso. Nella maggior parte dei “saloni” delle più grandi e raffinate dame, ove si agitavano i più ardui problemi di religione, di filosofia, di politica, letterati e filosofi, fautori di dottrine sovvertitrici, erano considerati come il più bello e ricercato ornamento di quei ritrovi mondani. L’empietà era di moda nell’alta nobiltà e gli scrittori più in voga nei loro attacchi contro la religione sarebbero stati meno audaci, se non avessero avuto il plauso e l’incitamento della società più elegante. Non già che la nobiltà e i filosofi si proponessero tutti e direttamente come scopo lo scristianamento delle masse. Al contrario, la religione avrebbe dovuto rimanere per il popolo semplice, come mezzo di governo in mano dello Stato. Essi però si sentivano e stimavano superiori alla fede e ai suoi precetti morali: politica ben presto dimostratasi funesta e di corta veduta, anche a chi la considerasse dall’aspetto puramente psicologico. Con rigore di logica, potente nel bene, terribile nel male, il popolo sa tirare le conseguenze pratiche dalle sue osservazioni e dai suoi giudizi, fondati o erronei che siano. Prendete in mano la storia della civiltà negli ultimi due secoli: essa vi palesa e vi mostra quali danni alla fede e ai costumi dei popoli abbiano prodotti il cattivo esempio che scende dall’alto, la frivolezza religiosa delle classi elevate, l’aperta lotta intellettuale contro la verità rivelata» (56).
Formazione delle élite, chiave di volta dell’apostolato
Oggi si parla molto dell’apostolato delle masse. Ma non si deve essere unilaterali. È indispensabile agire sulle élite: «Ora che cosa conviene dedurre da questi insegnamenti della storia? Che oggidì la salvezza deve prendere le mosse di là, donde il pervertimento ebbe la sua origine. Non è per sé difficile di mantenere nel popolo la religione e i suoi costumi, quando le classi alte lo precedono col loro buon esempio e creano condizioni pubbliche, che non rendano grave oltre misura la formazione della vita cristiana, ma la promuovano imitabile e dolce. Non è forse tale anche il vostro officio, diletti figli e figlie, che per la nobiltà delle vostre famiglie, e per le cariche che non di rado occupate, appartenete alle classi dirigenti? La grande missione, che a voi, e con voi a non pochi altri, è assegnata, – di cominciare cioè con la riforma o il perfezionamento della vita privata, in voi stessi e nella vostra casa, e di adoperarvi poi, ciascuno al suo posto e per la sua parte, a far sorgere un ordine cristiano nella vita pubblica, – non permette dilatazione o ritardo. Missione questa nobilissima e ricca di promesse, in un momento in cui, come reazione contro il materialismo devastante e avvilente, si viene rivelando nelle masse una nuova sete dei valori spirituali, e contro la incredulità una fortissima apertura degli animi verso le cose religiose; manifestazioni le quali lasciano sperare essere ormai superato e oltrepassato il punto più profondo del decadimento spirituale. A voi quindi spetta con la luce e l’attrattiva del buon esempio, elevantesi sopra ogni mediocrità, non meno che con le parole, il vanto di collaborare affinché quelle iniziative e quelle aspirazioni di bene religioso e sociale siano condotte al loro felice adempimento» (57).
* * *
Siamo certi, concludendo la pubblicazione di questa raccolta di testi di incomparabile sapienza, che la loro lettura aumenterà l’amore e l’ammirazione per il Pontefice immortale che oggi governa la Chiesa. Essi mostrano ai nobili la missione delle élite, e al popolo la ragione di essere delle classi tradizionali, operando in favore di una mutua comprensione, fondamento della pace sociale che Pio XII tanto desidera.
Plinio Corrêa de Oliveira
Note:
(1) PIO XII, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1941, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. II, p. 363.
(2) Ibid., pp. 363-364.
(3) Cfr. IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’8-1-1947, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, pp. 370-371.
(4) Cfr. IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’11-1-1943, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IV, pp. 358-360.
(5) IDEM, Radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero, del 24-12-1944, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VI, pp. 239-240.
(6) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIII, p. 457.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibid., pp. 457-458.
(10) Ibid., p. 457.
(11) Ibid., p. 458.
(12) Ibidem.
(13) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1941, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. II, p. 364.
(14) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’8-1-1947, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, pp. 370-371.
(15) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 16-1-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VII, p. 341.
(16) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1942, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. III, p. 345.
(17) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 19-1-1944, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. V, p. 178.
(18) Ibid., pp. 178-180.
(19) Ibid., p. 180.
(20) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1942, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. III, p. 347.
(21) Ibid., pp. 346-347.
(22) Ibid., pp. 347-348.
(23) Ibid., p. 348.
(24) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1941, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. II, pp. 363-364.
(25) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 15-1-1949, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. X, p. 346.
(26) Ibidem.
(27) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 12-1-1950, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XI, p. 357.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1945, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VI, p. 274.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 16-1-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VII, pp. 340-341.
(34) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIII, p. 457.
(35) Ibidem.
(36) Ibidem.
(37) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 19-1-1944, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. V, pp. 177-178.
(38) Ibid., p. 178.
(39) Ibid., pp. 180-181.
(40) Ibid., pp. 181-182.
(41) IDEM, Discorsi al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1945, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VI, pp. 274-275.
(42) Ibid., pp. 275-276.
(43) Ibid., p. 276.
(44) Ibid., pp. 276-277.
(45) Ibid., p. 277.
(46) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 16-1-1946, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VII, p. 340.
(47) Ibid., pp. 341-342.
(48) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’8-1-1947, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. VIII, pp. 368-369.
(49) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1948, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IX, pp. 423-424.
(50) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 15-1-1949, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. X, pp. 346-347.
(51) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’11-1-1951, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XII, pp. 423-424.
(52) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 14-1-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIII, p. 458.
(53) Ibidem.
(54) Ibid., p. 459.
(55) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, del 5-1-1941, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. II, pp. 364-565.
(56) IDEM, Discorso al Patriziato e alla Nobiltà Romana, dell’11-1-1943, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. IV, pp. 358-360.
(57) Ibid., pp. 360-361.