La Repubblica di Cina è un Paese paradossale, dove destra e sinistra hanno perso significato. Quel che conta è solo l’intangibilità dei confini
di Marco Respinti
In nessun Paese le elezioni sono come a Taiwan. Perché in nessun altro Paese la libertà è minacciata così vistosamente dal mostro comunista cinese. In nessun altro Paese la perdita della democrazia può tanto verosimilmente passare dal voto nelle urne. E in nessun altro Paese il partito di destra favorisce il nemico comunista della patria, mentre il partito di sinistra difende l’intangibilità dei confini.
La Repubblica di Cina vota oggi per eleggere il presidente, e si tratta di una scelta giovane. È solo dal 1996, infatti, che, chiusasi l’era della legge marziale, Taiwan vota per scegliere (a maggioranza popolare semplice, per un massimo di due mandati quadriennali) i vertici della cosa pubblica, anche se già dal 1991 si era votato per il parlamento. Da allora i partiti che si contendono il Paese sono due: il Kuomintang e il Partito Progressista Democratico (PPD), entrambi perni di poli più ampi (la coalizione pan-azzurra e la coalizione pan-verde), con gli indipendenti che contano poco.
Oggi Taiwan sceglie l’ottavo presidente della repubblica e la Cina rossa ha già votato, sbandierando ai quattro venti il proprio beniamino con proclami che rombano come i motori dei caccia militari. Per Pechino, infatti, l’uomo da temere non è il candidato di destra, bensì Lai Ching-te, all’occidentale William Lai, attuale vicepresidente, uomo di punta del PPD, favorito nei sondaggi. Visto che l’ex-sindaco di Taipei, Ko Wen-je, leader del Partito Popolare di Taiwan (una formazione centrista, nata nel 2019, che nelle elezioni parlamentari dell’anno dopo è arrivata terza con poco più del 10% dei voti) pare non dar da pensare, è evidente come a Pechino Xi Jinping scommetta forte sul Kuomintang, rappresentato da Hou Yu-ih. E Hou Yu-ih ricambia, facendo di Taiwan l’isola davvero che non c’è.
Taiwan non esiste anzitutto per la Cina comunista. Pechino la considera da sempre uno scoglio ribelle da piegare a tutti i costi, un mero affare interno di cui il resto del mondo non deve interessarsi, una increspatura sul mare della tranquillità del socialismo tecnocratico reale da appianare per non turbare il conformismo normalizzatore del regime. Non può confessarlo, ma ciò che in Taiwan più irrita Pechino è l’essere un’altra Cina non meno cinese della Cina rossa (forse di più) e però di successo capitalista e di libertà economico-imprenditoriale. Un Paese piccolo, che fa però per mille, un Paese dove le molte contraddizioni rendono salace la democrazia (mentre nella Cina rossa tutto sembra perfetto soltanto perché non lo è, e chi lo dice finisce male), dove le fedi religiose abbondano e prosperano, dove la libertà è un rischio, ma nella Cina rossa la gente vorrebbe tanto correrlo, quel grosso rischio. Continuando a esistere, la Repubblica di Cina sbatte quotidianamente in faccia alla Repubblica Popolare Cinese la violenza e l’illiberalità che sono la carta d’identità del suo regime.
Taiwan non esiste, poi, nemmeno per il resto del mondo. A parole si prodigano in diversi (non tutti), ma nel consesso delle nazioni Taiwan è solo uno spettro. Porta ancora il nome della Cina precedente la presa violenta del potere da parte dei comunisti di Mao Zedong, il 1° ottobre 1949, di quel Paese è la prosecuzione, ma dal 1971 l’Organizzazione delle Nazioni Unite l’ha cancellata: un caso unico di tracotante violenza democratica con cui un Paese sovrano si è visto negare rappresentatività internazionale a favore di un regime golpista con le mani lorde di sangue. Sono una manciata i Paesi, anzi i “Paeselli”, che riconoscono Taiwan, e il loro numero va assottigliandosi. Il più importante è il Vaticano, ma le interlocuzioni fra la Segreteria di Stato e la corte di Xi Jinping impensieriscono i taiwanesi.
Infine Taiwan non esiste perché solo lì c’è il Kuomintang: prima alleato dei comunisti nell’unificazione del Paese post-imperiale, poi alla guida della Cina repubblicana dal 1919 al 1949, sul finire di quel periodo avversario dei comunisti nella guerra civile, quindi riparato nel ridotto di Taiwan per proseguire il sogno di un Paese diverso attraverso una dittatura anticomunista che non si è fatta mancare nefandezze, ma che ha poi solo prodotto il ralliement con gli ex-avversari.
Tutto sta nel principio «Una sola Cina»: uno, non due Paesi. I comunisti di Pechino ne sono convinti e fanno di tutto per riunificare Taiwan sotto il giogo rosso. I nazionalisti di Taiwan pensano lo stesso, ma all’opposto, e a lungo hanno predicato la riconquista. Alla fine si sono trovati nel mezzo, affermando prospettive non dissimili. Dal 1949 a Pechino esiste pure il Comitato rivoluzionario del Kuomintang, una scissione che aderisce al Fronte Unito, la mascherata con cui il Partito Comunista Cinese finge esistano ben otto altre diverse formazioni.
Ciò che comunisti e Kuomintang non possono però soffrire sono i progressisti democratici, che alla trappola degli amorosi sensi con un regime totalitario in grado di schiacciare tutto e tutti non credono, invocando l’indipendenza, ovvero il riconoscimento di diritto di un fatto già concreto. Per comunisti e nazionalisti la sola parola «indipendenza» suona anatema, ma per Taiwan è l’unica possibilità di tornare un’isola che c’è. L’isola le cui urla si udiranno quando Pechino deciderà di agire.
Sabato, 13 gennaio 2024