di Valter Maccantelli
In questi giorni, molti media arabi hanno rilanciato la notizia della possibile morte dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Non è la a prima volta che il capo carismatico di Daesh viene dato per morto, ma in questo caso la notizia sembra essere più attendibile che in passato e sarebbe confermata da un comunicato interno all’organizzazione nonché da fonti locali della provincia irakena di Ninive.
L’uccisione del capo terrorista sarebbe avvenuta il 28 maggio durante un raid dell’aeronautica russa su Deir az-Zawar, in Siria, 100 chilometri a sudest di Raqqa, verso il confine con l’Iraq. Il ministero della Difesa russo ne aveva già dato comunicazione, ammettendo però di non essere in grado di confermare. Alcune fonti legate alla coalizione guidata dagli Stati Uniti si erano del resto mostrate restie all’idea di dover riconoscere un tale successo d’immagine alla contestata presenza russa in Siria. Certamente sarà difficile che Daesh annunci la morte del proprio fondatore senza prima avere ben chiaro il nome del successore: in questo tipo di organizzazioni, i vuoti di potere sono infatti sempre molto pericolosi.
Anche senza la conferma, però, sembra che per il califfato sia giunto il momento della crisi: la perdita sia delle due “capitali”, Mosul e Raqqa, sia dei principali centri urbani ha tolto alla Stato islamico proprio quel titolo di “Stato” su cui ha fondato la propria peculiare esistenza. Al danno d’immagine, forse il principale agli occhi dei militanti, si aggiunge poi quello economico: la perdita dei campi petroliferi, del gettito erariale delle città e del corridoio turco per le esportazioni illegali ne hanno dissanguato le casse.
Crisi, però, non morte, poiché Daesh è lungi dall’essere sconfitto. Cacciati dalle città, i miliziani ‒ almeno quelli che non sono fuggiti in altre parti del mondo, come per esempio le Filippine ‒ si sono dispersi nelle campagne e nei piccoli centri rurali, dove sono più difficili da scovare. E in questi sobborghi provano a ricostruire in piccolo quel modello di terrore e morte che hanno fino a oggi applicato su vasta scala.
Proprio da uno di questi centri minori, la cittadina di Tel Afar nei pressi di Mosul, giunge la notizia che forse più di altre confermerebbe la morte di al-Baghdadi: una serie di scontri fra combattenti stranieri e locali all’interno delle milizie Daesh che lascerebbero intravvedere la presenza di fazioni in disaccordo.
Il quadro suscita dunque due considerazioni. La prima è che l’ISIS può essere sconfitto in una battaglia frontale in un luogo specifico, ma il suo sradicamento dal territorio richiede una capillarità che solo i governi locali, e non certo i contingenti stranieri di passaggio, possono esercitare. La seconda è che sarebbe sbagliato interpretare gli spasmi interni di cui giunge notizia come una mera lotta per la successione. Il fatto che la conflittualità sia esplosa fra combattenti stranieri e locali dice che quello in corso è uno scontro sulla “linea politica”, come si direbbe nei congressi di partito.
Non è difficile immaginare che la leadership autoctona aspiri a replicare il modello “localista” di controllo di porzioni di territorio su cui instaurare il sistema shariatico. Per contro, l’ala dei foreign-fighter giunti da mezzo mondo accarezza verosimilmente un progetto più internazionale che premerebbe per esportare lo scontro all’esterno (ovvero in Occidente) senza sacrificare tutto all’impossibile tentativo di resistere nel cosidetto “Siraq”.
Si sta insomma assistendo a un cambio non solo di leadership, ma anche di modello che porterebbe Daesh ad avvicinarsi ai metodi operativi di al-Qaida, con la quale potrebbe perfino trovare un accordo onde porre fine alla dannosa concorrenza reciproca nata precisamente dalle differenti strategie operative delle due organizzazioni.
Il “califfo” forse è morto e la crisi di Daesh è una buona notizia, ma non facciamoci distrarre: il terrorismo ultra-fondamentalista islamico è destinato a tenerci compagnia ancora a lungo.