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“Testamento biologico. Se informare diventa più importante che curare”

2 Agosto 2017 - Autore: Alfredo Mantovano

Perché con le dat «il tempo della comunicazione tra medico e paziente» diventerà più importante perfino del buon esito della terapia

«Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». È una delle disposizioni – articolo 1 comma 8 – meno considerate all’interno della legge sull’eutanasia; pardon!, del disegno di legge “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Nel silenzio generale, il testo, già approvato alla Camera, va avanti al Senato, per il momento in commissione Sanità. In passato abbiamo richiamato il profondo stravolgimento che l’intero provvedimento, se approvato, causerà alla professione medica. Il comma appena riportato non mostra evidenti e gravi ricadute, a differenza, per esempio, delle norme che impongono al medico di sospendere o non praticare una terapia in atto se il paziente, attualmente incapace, in precedenza ha compilato la dat, ciò che obbliga il sanitario a provocarne la morte. Ma rende lecito domandarsi che cosa significa.

Ci sono ordinamenti nei quali la tariffa per il professionista che presta un servizio a un cliente è commisurata pure alle ore materialmente dedicate dal primo al secondo, ma si tratta più di avvocati o di consulenti che di medici. Per costoro finora il problema si è risolto sul piano deontologico informando l’ammalato o, se costui non fosse in grado di ricevere o di comprendere le notizie, di comunicare con i parenti o con le persone di fiducia, e di raccoglierne il consenso. Una disposizione come quella richiamata ha una sua logica in un contesto eutanasico. Vediamo perché. Intanto non è un caso se il «tempo della comunicazione tra medico e paziente» sia considerato “tempo di cura” e non tempo di “terapia”: mentre quest’ultima punta a guarire una patologia, ristabilendo le migliori condizioni di salute per il paziente, “cura” invece chiama in causa l’assistenza al malato, indipendentemente dalle sue possibilità di guarigione e dall’esito della patologia.

La logica dell’intero disegno di legge è quella dell’affermazione del principio che la vita umana è un bene disponibile: in contrasto con la Costituzione e con leggi ordinarie che si inseriscono in una tradizione giuridica millenaria sia sul piano civilistico (il divieto degli atti di disposizione del proprio corpo stabilito dal codice civile) sia sul piano penalistico (la punizione della istigazione e dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente). Ma in adesione con una giurisprudenza, quella formatasi attorno alla vicenda di Eluana Englaro, che si è affermata solo nell’ultimo decennio. Conseguenza del capovolgimento di prospettiva è la trasformazione del rapporto fra medico e ammalato in una relazione tendenzialmente paritetica, nella quale importa di più non guarire il paziente, cioè fare il suo bene rimuovendo, se possibile, la malattia, ma raggiungere l’accordo perfetto su tutti i dettagli del trattamento sanitario.

Come si misura la “produttività”
È il significato di una delle prime disposizioni del testo sulle dat, quella dell’articolo 2 comma 2: «È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia fra paziente e medico che si basa sul consenso informato». Finora il consenso al trattamento non è stato in contrapposizione con il bene del malato, essendo la partecipazione consapevole di costui alla realizzazione di quel bene: con la norma appena citata la conoscenza da parte del paziente dei dettagli del trattamento sanitario che dovrebbe riguardarlo è più importante del buon esito della terapia o dell’intervento.

Se allora lo sforzo prioritario del medico diventa con la legge sulle dat la minuta informativa dell’ammalato e la raccolta del suo consenso – sempre che ci riesca, ed è tutt’altro che scontato, visto che pochi pazienti hanno i fondamentali della medicina –, il tempo che il medico vi dedicherà è sottratto a quello riguardante le terapie, le cure, gli interventi sanitari. Da ciò la necessità di quantificarne il costo: se il mantenimento delle strutture e dei reparti ospedalieri è commisurato alla loro “produttività” minuziosamente quantificata, lo stravolgimento della professione medica è seguito di pari passo da nuovi criteri per “misurarne” il lavoro.
Il medico, in altri termini, sarà pagato per parlare e per raggiungere un accordo sul consenso più che per guarire. Se un cambiamento così radicale interessasse qualsiasi altra professione o attività lavorativa vi sarebbe un presidio permanente davanti al Senato per manifestare la più forte opposizione. Perché i medici tacciono?

Alfredo Mantovano

Da “Tempi” del 22 luglio 2017. Foto da articolo 

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