Da “La nuova Bussola Quotidiana” del 13 febbraio 2017. Foto da Aleteia
Per preparare il mio libro di memorie che verrà pubblicato in settembre – Lessons in Hope: My Unexpected Life with St. John Paul II (Basic Books, New York) -, ho ripreso in mano le interviste che alla fine degli anni 1990 due rilevanti personalità mi rilasciarono. E mi ha colpito la capacità dei miei interlocutori di gettare luce, quasi vent’anni fa, sull’incontro che ha avuto luogo ieri, domenica 12 febbraio, a Friburgo, in Svizzera, fra il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e il metropolita Ilarion Alfeev di Volokolamsk, presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato ortodosso russo di Mosca. Il cardinale e il metropolita celebrano così il primo anniversario della “Dichiarazione di L’Avana”, firmata l’anno scorso da Papa Francesco e dal patriarca ortodosso russo Kirill (all’epoca analizzai quel documento per National Review Online).
Ma questo incontro anniversario si svolge in un contesto fissato decenni fa. E quel contesto, che presenta elementi profondamente problematici, è chiarito dalle interviste che nel 1997 e nel 1998 mi concessero il cardinale Edward Cassidy, uno dei predecessori del cardinal Koch al dicastero vaticano preposto all’ecumenismo, e Irina A. Ilovaiskaya-Alberti (1924-2000), consigliere informale di Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) per gli affari russi.
LA CONFESSIONE DI CASSIDY
Il cardinal Cassidy era uno dei pochi australiani del servizio diplomatico pontificio, un uomo di gran buon umore e candore (e quindi non sempre apprezzato dai suoi colleghi italiani della Curia romana). Gli piaceva gestire l’officina ecumenica della Santa Sede e lavorò sodo per cercare di portare san Giovanni Paolo II in Russia, che fu una delle prime priorità dell’agenda del Pontefice dell’ultimo decennio e di metà del suo pontificato. Da sacerdote, vescovo e Papa, Karol Wojtyla aveva sviluppato rispetto profondo per la spiritualità russa e per pensatori russi quali Vladimir S. Solov’ëv (1853-1900), intellettuale mirabolante e proto-ecumenico; e questa coscienza lo spinse a ritenere che la rinascita dell’ortodossia russa fosse essenziale sia per risanare le ferite causate alla Russia da 70 anni di bolscevismo sia un fattore potenzialmente importante per il rinnovamento spirituale dell’Occidente del dopo-Guerra fredda.
San Giovanni Paolo II era pure venuto in possesso di una delle più significative icone russe, la Kazanskaja (1), che era stata portata fuori dalla Russia nel 1918 e, dopo avere peregrinato per l’Europa, era stata alla fine donata al Papa. Il Pontefice voleva restituire personalmente questo capolavoro dell’iconografia russa alla sua casa legittima, come gesto di rispetto per le tradizioni spirituali russe e come punto di partenza del nuovo confronto tra Roma e Mosca. Compito del cardinal Cassidy era operare affinché ciò avvenisse.
E quasi il cardinale ci riuscì in più di una occasione, ma il patriarca Alessio II (1929-2008) – nome in codice del KGB: Drozdov – trovò sempre una qualche scusa per mettere i bastoni fra le ruote, in parte aiutato dal suo capo affari esterni, il metropolita Kirill M. Gundjaev, che è l’attuale patriarca di Mosca. Il cardinal Cassidy fu instancabile nel cercare d’infrangere questa nuova cortina di ferro religiosa, ma durante una delle lunghe conversazioni che ebbi con lui la sua frustrazione risultò evidente. Gli avevo domandato perché la leadership ortodossa russa ponesse così tante difficoltà e, dopo avermi sciorinato la solita litania di lamentele moscovite (che comprendevano costantemente la rinascita della Chiesa greco-cattolica ucraina tra il 1990 e il 1991, 44 anni dopo essere stata dichiarata illegale e “reincorporata” nell’ortodossia russa), il porporato si fece, in modo tanto inusitato quanto però interessante, poco diplomatico.
Mi riferì che Kirill gli aveva detto che la rinascita della Chiesa greco-cattolica ucraina «[…] blocca tutto». E quando gli domandai il motivo di tale politica, il cardinal Cassidy non usò giri di parole: «A volte, quando si deve nascondere qualcosa, la tendenza è quella di diventare un po’ aggressivi. Dato che non possono difendere una cosa giacché quella cosa è proprio indifendibile, allora attaccano, attaccano noi».
LA CONNIVENZA DELL’ORTODOSSIA CON IL REGIME
Ovviamente “la cosa” indifendibile era la connivenza dell’ortodossia russa con la NKVD (il predecessore del KGB) nel tentativo di liquidare la Chiesa greco-cattolica ucraina. Acutamente, il cardinal Cassidy osservò anche questo: il fatto che la Chiesa russa abbia avuto origine a Kiev e non a Mosca giocava un ruolo significativo nell’intransigenza politica russa nei riguardi dell’indipendenza ucraina, anche perché questo fastidioso particolare alimentava le paure della Chiesa russa che una presenza cattolica viva in Ucraina minacciasse gravemente l’idea che l’ortodossia russa ha della propria storia e della propria identità.
Che il porporato comprendesse tutto questo molto meglio di alcuni degli uomini per decenni incaricati dell’ecumenismo con gli ortodossi russi divenne evidente nell’aprile del 1998, quando ebbi una conversazione di diverse ore con quel personaggio notevole che fu Irina Alberti.
Russa di nascita (benché nata a Belgrado da genitori riparati in Serbia dopo la Rivoluzione del 1917), aveva sposato un diplomatico Italiano e, dopo la morte del marito, era divenuta l’assistente personale di Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008) allorché il Premio Nobel si stabilì a Cavendish, nel Vermont. Dopo avere lavorato con la famiglia Solženicyn per alcuni anni, l’Alberti ritornò in Europa ed entrò nell’orbita dei consiglieri informali e degli interlocutori di Papa san Giovanni Paolo II. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, viaggiò spesso nella sua terra natale e al ritorno informava il Pontefice se aveva appreso, come diceva lei, «qualcosa d’interessante».
Questo approccio un po’ da Primula Rossa era poco gradito ai gestori tradizionali delle cose pontificie, sempre a disagio quando l’Alberti fece in modo di far incontrare san Giovanni Paolo II con la nota dissidente sovietica Elena Bonner (1923-2011) e poi con suo marito, Andrej Sacharov (1921-1989). Evitare di pestare i piedi politici ed ecclesiastici ai russi era la prassi seguita dai più alti uffici vaticani sin dai primi anni del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) a cui Papa san Giovanni XXIII (1881-1963) aveva invitato degli osservatori ortodossi russi. Era però un’abitudine che l’Alberti trovava, per dirla educatamente, sgradevole.
San Giovanni Paolo II avrebbe voluto recarsi a Mosca per le celebrazioni del millennio della Rus’ cristiana nel 1998, ma il patriarca ortodosso russo di allora, un altro lacchè del KGB di nome Pimen (1910-1990), disse che il Papa non era il benvenuto; come mi disse l’Alberti, chi in Vaticano era incaricato del “dossier russo” ne fu “sorpreso”. Accondiscendendo alle loro richieste e assecondando le loro stramberie, credevano infatti di avere intessuto buoni rapporti con gli interlocutori russi; l’idea base che si aveva a Roma era infatti che il dialogo doveva essere mantenuto a ogni costo, persino l’umiliazione. Ma come la russa Alberti diceva con una certa acredine, tutti ciò che questi russofili vaticani erano riusciti a fare era «[…] capitolare alle loro richieste». Nulla poteva insomma dissuadere i “partner” ortodossi russi dal mostrarsi recalcitranti.
LA FALSIFICAZIONE DELLA STORIA
Nella preparazione dell’incontro svoltosi nel febbraio dell’anno scorso a L’Avana tra Papa Francesco e il patriarca Kirill, di queste dinamiche – l’insistenza degli ortodossi russi su una narrazione storica dubbia e la futilità di genuflettersi alle loro irragionevoli condizioni – non vi è stata consapevolezza. Come notai allora, qualsiasi altra cosa si possa dirne, la “Dichiarazione di L’Avana” continua a falsificare sia la storia dell’ortodossia russa sia la situazione attuale dell’Ucraina; e si riferisce alla Chiesa greco-cattolica ucraina con la stessa terminologia che la Chiesa Cattolica usa per gli unitariani (2). Il fatto che tra il Papa e il patriarca non vi sia stata alcuna preghiera pubblica comune – nemmeno il Padre nostro – suggerisce l’idea che il Vaticano abbia continuato a inchinarsi a ciò che da parte ortodossa si può al massimo descrivere in termini di tiepido ecumenismo. E la descrizione della guerra in Ucraina in termini di «conflitto interno» è stato un assenso degradante alla versione putinista di quella che in realtà è l’invasione russa di uno Stato sovrano confinante.
Sulla scia della “Dichiarazione di L’Avana”, il capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l’arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševcuk ha difeso il suo vecchio collega dei giorni in cui entrambi esercitavano il proprio ministero a Buenos Aires, cioè Papa Francesco, al contempo sollevando con rispetto qualche domanda su alcune delle espressioni meno fortunate di quel documento. La magnanimità di mons. Ševcuk è stata in parte ripagata quando il Pontefice ha chiesto alla Chiesa di tutta Europa una generosa colletta per aiutare quanti soffrono a causa dell’invasione russa, un gesto che, come ha commentato l’arcivescovo maggiore ucraino, ha messo la guerra russa in Ucraina sul radar dell’Europa, se non altro per un po’.
Sarebbe utile se l’incontro anniversario di ieri a Friburgo tra il cardinal Koch e il metropolita Hilarion riportasse in modo analogo l’attenzione sull’assalto sempre più letale contro l’Ucraina orientale che è la Russia a inasprire, evitando gli errori della “Dichiarazione di L’Avana”. Come aveva capito Irina Alberti in un modo che alcuni diplomatici ed ecumenisti vaticani non sembrano cogliere, la ricetta del progresso fra il cattolicesimo e l’ortodossia russa non è rispondere al bullismo ecclesiastico e alla falsificazione storica con un’acquiescenza mascherata da umiltà. Per di più, questo non aiuta nemmeno l’ortodossia russa a mettere un po’ di respiro fra sé e lo Stato russo, sempre ammesso che la Chiesa russa voglia farlo.
L’ASIMMETRIA DIPLOMATICA
Dalle conversazioni che ho avuto in dicembre a Roma ho ricavato l’impressione che almeno qualche buon funzionario anziano abbia capito che quando la diplomazia vaticana tratta con il patriarca Kirill e con il metropolita Hilarion è sostanzialmente con degli agenti del potere statale russo che sta trattando e non con degli “ecclesiastici” nel senso che i cattolici danno al termine. Ma non è affatto chiaro se questo lo abbiano invece colto i funzionari dell’ecumenismo vaticano o se comunque essi abbiano una qualche idea concreta di come gestire la cosa.
E se, come sembra, a guidare la politica russa di Papa Francesco è l’apparato ecumenico del Vaticano, questo è un problema serio proprio per l’ecumenismo. Perché se gli ortodossi russi trattano eventi quali l’incontro di L’Avana e la celebrazione anniversaria di Friburgo come mosse su una scacchiera geopolitica dietro cui siede il gran maestro Vladimir Putin mentre gli ecumenisti vaticani li trattano come incontri religiosi, l’asimmetria non farà che danneggiare la causa dell’unità dei cristiani, che può solo essere unità nella verità.
E gli effetti di un eventuale fallimento ecumenico si farebbero sentire proprio dentro la Russia. Oltre l’Atlantico i politici e i commentatori possono plaudire scioccamente a Putin vedendo in lui il leader forte che riesce a ottenere le cose, ma i fatti sono cocciuti; e i fatti dicono che Putin governa una cleptocrazia assisa sulla sommità di una società civile fatiscente, controlla questa situazione rovinosa sul piano umano attraverso un uso letale della forza e un vastissimo apparato di propaganda i cui tentacoli arrivano in tutto il mondo, e si dà arie da difensore dei valori tradizionali. E tutto questo mentre la leadership della Chiesa russa sembra non avere né la volontà né la capacità di dire la verità al potere putinista: quelli che provano a farlo vengono infatti rapidamente marginalizzati o esiliati.
In questa situazione, la cosa migliore che il versante cattolico di questo “dialogo” può fare è resistere alle nuove falsificazioni della storia o dell’attualità, chiarendo che l’integrità e la vitalità della Chiesa greco-cattolica ucraina e delle altre Chiese Cattoliche orientali in unione con Roma non è materia negoziabile, e insistendo affinché incontri come quelli di ieri a Friburgo siano eventi di natura sul serio religiosa in cui la fratellanza proclamata a La Avana s’incarni in un confronto onesto e nella preghiera comune.
Articolo di George Weigel, traduzione di Marco Respinti