Di Renato Tamburrini da L’Occidentale del 25/04/2023
Con ricorrenti polemiche e puntuali rinfacci ogni 25 aprile da 80 anni si celebra la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, avvenuta nel 1945 ad opera del Comitato di Liberazione Nazionale, dell’Esercito di Liberazione Nazionale e delle truppe Alleate. Quelli che per ragioni sentimentali, familiari o anche latamente ideologiche, attraverso distinguo e ‘ma anche’ manifestano un po’ di riluttanza, se non aperta ostilità, verso questa ricorrenza, dovrebbero fare pacatamente un ragionamento controfattuale: se la seconda guerra mondiale avesse avuto un altro esito, l’Europa sarebbe stata dominata dal nazismo, col suo controllo totalitario su tutta la vita sociale e culturale, l’annichilimento degli oppositori, la lotta aperta contro la tradizione cristiana, umanistica e liberale del vecchio continente, i corollari spaventosi di cui abbiamo appreso le dimensioni a guerra finita: lo sterminio degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, dei disabili e dei portatori di handicap, nella prospettiva ideologica faustiana di selezionare la razza pura per il Reich millenario. Questo è quanto.Perciò la celebrazione di questa ricorrenza va oltre la dimensione italiana e dovrebbe veramente diventare una festa europea. L’idea che accanto a questo esperimento storico di carattere veramente demoniaco potesse avere spazio qualche “variante” più lieve della numerosa famiglia autoritaria e fascista era già da tempo solo un’illusione: l’eliminazione fisica del cancelliere Dolfuss, esponente dell’austrofascismo “balcanico” e latamente asburgico, l’allineamento progressivo del regime mussoliniano al razzismo biologico, l’insignificanza fattuale perfino della componente prefascista maurrassiana, nazionalista e monarchica, nella repubblica collaborazionista di Vichy, la preclusione ad ogni evoluzione della Germania anche in senso nazional-conservatore dimostrata non tanto dalla minorità assoluta di movimenti come la Rosa Bianca e del suo retroterra culturale ispirato da figure come Romano Guardini, quanto dal fallimento dell’attentato del 20 luglio del ’44, che aveva coinvolto pezzi importanti dell’establishment militare, sono tutte tessere di un mosaico che lascia pensare che, per ragioni fattuali di potenza e per fascinazione ideologica estrema, su tutto il resto della compagnia avrebbe prevalso la variante peggiore.Ossia quella contrassegnata dalla maggiore tensione gnostica verso la distruzione del vecchio mondo borghese ed ebraico-cristiano, incentrato sulla civiltà urbana romana, e la costruzione del “mondo nuovo” ariano e guerriero, liberato dall’usura giudaica e dal capitalismo anglo-americano: quello immaginario della selva germanica, sognato dai capi nazisti nelle loro logge esoteriche fin dagli anni venti. È vero che varianti autoritarie più tradizionali sopravvissero nella penisola iberica anche nel secondo dopoguerra, ma i loro capi si erano tenuti lontani dal coinvolgimento in guerra con la Germania hitleriana. Non sappiamo cosa sarebbe stato anche di loro, quali pretese sarebbero state avanzate, e in che misura sarebbero state fagocitate, se l’hitlerismo si fosse attestato, vincitore, sulla frontiera dei Pirenei.Bisogna aggiungere però un’altra considerazione, che mi sembra importante: certamente gli eventi che condussero alla riconquista della libertà non sono stati tutte le statuine un presepe idilliaco, e d’altronde non si deve mai dimenticare u n celebre aforisma di Gómez Dávila secondo il quale nella storia “ciò che non è complicato è falso”. Anche i più puri e irriducibili avversari del “revisionismo” – come se poi la revisione e il riesame delle fonti non fossero da sempre il sale della storia contro i cliché tramandati – dovrebbero prendere atto delle efferatezze anche interne, come la vicenda di Porzus, delle vendette e delle esecuzioni sommarie, di quel sangue dei vinti, di cui ha parlato Pansa, compresa la barbarie dei corpi di Benito e Claretta esposti a testa in giù, e infine dell’onore dovuto anche vinti, a prescindere dalle loro motivazioni – su cui c’è ormai una lunga sequenza di perorazioni da Pavese in poi – della tragedia degli italiani sul fronte orientale e l’orrore dei massacri delle foibe. Come pure della dolorosa circostanza che la metà orientale dell’Europa cadde sotto il dominio dell’altro corno del totalitarismo, il comunismo imposto dall’Unione Sovietica di Stalin.Su un terreno dissodato da ragionamenti onesti e da un po’ di buona volontà forse è possibile trasformare effettivamente il 25 aprile nel nostro 4 luglio, come oggi ha auspicato Letizia Moratti. D’altronde con questo spirito l’aveva pensata Alcide De Gasperi, che ne volle l’istituzione fin dal 1946, prima che l’Italia divenisse Repubblica (il decreto fu emanato dal Luogotenente del Regno Umberto II): “Aiutateci a superare lo spirito funesto delle discordie. Si devono lasciare cadere i risentimenti e ‘odio: si deve perdonare” (discorso al Congresso dei comandanti partigiani del 1950). Ecco, riconosciamo unanimemente e ad alta voce che la liberazione dal nazifascismo fu un bene per la storia d’Italia, ma facciamo anche un altro passettino: liberiamoci di quelli che pretendono di avere l’esclusiva della celebrazione e di usarla come un’arma impropria contro gli avversari, facendo costantemente l’esame di purezza a chi vi partecipa, come quando proprio Letizia Moratti, in compagnia del padre partigiano in sedia a rotelle, fu costretta a lasciare il corteo; come capita in modo abbastanza ricorrente alla Brigata ebraica, sgradita benché abbia partecipato attivamente alla lotta di liberazione, quando il gran Muftì di Gerusalemme era alleato di Hitler.