Il progetto europeo di vietare, a partire dal 2035, le immatricolazioni di automezzi a combustione interna ha subìto un’inattesa bocciatura grazie alla convergenza dell’opposizione di alcuni Stati, inizialmente della Germania e, ultimamente, anche del nuovo governo italiano. È stata vinta una battaglia importante, ma non ancora la guerra
di Maurizio Milano
Sembrava fatta, un passaggio solamente formale per “ratificare” una decisione fortemente voluta dalla Commissione Europea e già approvata dal Parlamento Europeo il 14 febbraio. In nome della mobilità sostenibile si voleva vietare, a partire dal 2035, l’immatricolazione di autoveicoli a combustione interna, anche se alimentati a Gpl o metano, biocarburanti o carburanti sintetici, autovetture ibride incluse. Invece di lasciare spazio a più tecnologie in competizione tra loro, secondo un’opportuna neutralità tecnologica, si voleva imporre politicamente un futuro full electric, mettendo fuori gioco tutte le altre alternative possibili. E invece, a sorpresa, la votazione prevista nel Consiglio dell’Unione Europea per martedì 7 marzo è stata rinviata dalla presidenza di turno svedese a data da destinarsi, per evitare una bocciatura annunciata. Mancava infatti la prevista maggioranza qualificata, almeno il 55% degli Stati membri che rappresentino il 65% della popolazione europea, a causa dell’opposizione della Germania – che si era già espressa in modo critico sulla volontà europea di mettere fuori gioco anche gli eco-carburanti –, oltre che di Bulgaria, Polonia e Italia. Il voto contrario dell’Italia, in discontinuità con l’impostazione del precedente governo Draghi, è stato decisivo per bloccare all’ultimo il provvedimento. Felicemente.
La critica al progetto europeo potrebbe limitarsi a due sole considerazioni, una di metodo e una di risorse.
Metodo: l’Unione Europea vuole imporre non solo una regolamentazione uguale nei tempi a tutti i Paesi membri, ma pretende prescrivere anche il come (nuovi veicoli dal 2035 solo se elettrici). Se le auto elettriche fossero davvero migliori di quelle endotermiche, perché non lasciare che i consumatori un po’ per volta se ne accorgano da soli, come sempre è accaduto nella storia delle evoluzioni tecnologiche? Perché eliminare la ricerca e la concorrenza ope legis? Perché non lasciare che i vari Paesi si muovano con la velocità dei propri sistemi industriali e delle proprie risorse finanziarie ed economiche? È giusto che sia il potere politico, per di più del “super-Stato Europa”, a decidere per tutti i Paesi europei, e con le stesse tempistiche, una rivoluzione di tale portata, sulla base di premesse solo ipotetiche?
Risorse: i finanziamenti faraonici per attuare una trasformazione così repentina del sistema industriale europeo richiederanno aiuti pubblici di portata inaudita, che graveranno ovviamente sulle tasche dei contribuenti. Non ci si può illudere, per di più, che ciò acceleri la crescita o crei extra occupazione, perché le risorse assorbite dal pianificatore centrale non potranno più essere utilizzate dai privati per altri investimenti, potenzialmente più vantaggiosi.
La storia economica ci insegna che le pianificazioni centralizzate non hanno mai funzionato: qualcuno si arricchisce, in genere le lobby più vicine ai bocchettoni della spesa pubblica, mentre i più ci perdono, sia come contribuenti, sia come consumatori, perché la torta complessiva della ricchezza si riduce a causa di un utilizzo inefficiente e sub-ottimale delle risorse, scarse per definizione. La critica potrebbe fermarsi qui, ma credo sia interessante entrare anche nel merito del provvedimento, a partire dalle sue premesse di tipo ideologico.
Il presupposto è il solito cambiamento climatico di origine antropica, che si ritiene causato dalle emissioni di gas serra quali anidride carbonica e metano, ma sul quale, occorre ricordarlo, non esistono certezze scientifiche conclusive. Presa per buona la premessa della pandemia climatica e ipotizzando, in assenza di interventi, rialzi della temperatura del pianeta che provocherebbero sconquassi di portata tale da minacciare la civiltà umana per come la conosciamo, l’unica via di uscita sembrerebbe quella di accelerare nel processo di transizione energetica, per arrivare al traguardo di emissioni nette nulle entro il 2050. Non ci sono alternative, così vuole la narrazione dominante: occorre procedere, costi quel che costi, nella direzione indicata dall’Agenda Onu 2030, fatta propria in modo zelante dalla Commissione Europea nel suo ambizioso piano Green Deal per contrastare il cambiamento climatico, con una revisione radicale dei sistemi produttivi, distributivi e di consumo.
Un tassello importante riguarda proprio gli autoveicoli: l’adozione esclusiva di mezzi elettrici consentirebbe di ridurre in modo significativo le emissioni di gas serra nell’ambiente, contribuendo così a mitigare i cambiamenti climatici, oltre ad offrire benefici ambientali locali come la riduzione dell’inquinamento dell’aria e di quello acustico, soprattutto nelle zone urbane. I punti critici sono però molti, e spesso sottaciuti.
Innanzitutto, è vero che un veicolo elettrico inquina di meno di uno a combustione interna quando viene utilizzato e a condizione che l’energia immagazzinata provenga da fonti pulite; occorre però valutare l’intero ciclo di vita del mezzo. A partire dalla costruzione delle batterie elettriche, che richiedono grandi quantità di materiali come litio, cobalto, nichel, manganese, alluminio e rame, la cui estrazione è concentrata in pochi Paesi, tra cui principalmente Cina, Cile, Australia, Repubblica del Congo, Federazione Russa, Brasile, con possibili rischi geopolitici e problemi di interruzione dell’approvvigionamento a seguito di conflitti o sanzioni internazionali. Le batterie delle auto elettriche possono pesare alcuni quintali, circa il 20-30% del peso totale dell’auto elettrica: ad esempio, la Tesla Model S, una berlina di lusso di grandi dimensioni, ha una batteria al litio con una capacità di 100 kWh e un peso di circa 540 kg, su un peso totale dell’auto di circa 2 tonnellate. Il peso della batteria è un fattore importante nella progettazione delle auto elettriche, in quanto influisce sull’autonomia del veicolo, sulla sua capacità di accelerazione e sulla sua manovrabilità.
Anche se non si vede, ogni mezzo elettrico inizia quindi la propria vita utile con un debito importante in termini di emissioni di gas serra, quelle necessarie alla sua produzione, che necessita di macchinari decisamente inquinanti. Occorrono decine di migliaia di chilometri per compensare tale “debito ecologico” e iniziare a dare un contributo positivo. Ne consegue che per essere davvero ecologici i mezzi elettrici andrebbero poi utilizzati per molti anni, sempre che la batteria nel frattempo mantenga un’efficienza tale da rendere il mezzo utilizzabile: senza arrivare comunque mai alla pretesa “emissione nulla”, proprio a causa del “costo ecologico” della produzione e dello smaltimento della batteria. Un’obiezione tutt’altro che banale, visto che i componenti possono essere molto inquinanti e tossici. Insomma, a ben guardare le auto elettriche non sono così green come parrebbe a prima vista.
Per di più, con una diffusione di massa di veicoli elettrici aumenterebbe esponenzialmente la pressione sulla rete elettrica e il fabbisogno di produzione di energia, che sarebbe coperta solo in parte dalle energie cosiddette rinnovabili. Col paradosso che l’energia per ricaricare le auto elettriche potrebbe arrivare, in tesi, anche da combustibili fossili come il carbone. Secondo un report di Eurostat, nel 2020 l’Unione Europea dipendeva da approvvigionamenti esterni per il 58%, con un mix energetico caratterizzato da un peso dominante dei prodotti petroliferi (35%), del gas naturale (24%), del carbone e dei combustibili fossili solidi (12%); le energie rinnovabili, invece, coprivano solamente il 17% e il nucleare il 13%. Una transizione accelerata verso le tecnologie “SWB” (Solar, Wind, Batteries) è destinata a scontrarsi con i limiti insuperabili propri della “fisica dell’energia”, ben evidenziati dall’esperto di energia e tecnologia Mark P. Mills, secondo cui non possiamo aspettarci degli sviluppi nella tecnologia solare ed eolica anche solo lontanamente paragonabili a quelli esponenziali di cui ha beneficiato il settore informatico. Senza il contributo dell’energia nucleare– che forse sarà eliminata dall’elenco delle tecnologie verdi considerate strategiche dell’Unione Europea – come si pensa di produrre e immagazzinare l’energia elettrica necessaria, visto che le fonti rinnovabili non saranno adeguate a tale impennata di domanda, per di più con dei picchi serali e notturni, quando si ricaricheranno le auto nei garage di casa? I rischi di black-out, magari programmati, sono evidenti.
Per quanto concerne la praticità dei mezzi elettrici, in termini di tempi di ricarica e autonomia di percorrenza, a seconda del tipo di auto e di colonnina di rifornimento, può servire tutta la notte con un caricatore domestico standard, o un periodo variabile da un paio di ore a qualche decina di minuti con caricatori veloci (però con costi al kilowattora molto maggiori): ne conseguirebbe, di fatto, l’impossibilità di programmare viaggi di centinaia di chilometri. Col rischio di trovarsi bloccati in coda in autostrada, magari in condizioni di caldo o freddo estremo, con la batteria scarica e l’auto ferma che impedisce la circolazione. Ci sono poi rischi di combustione o esplosione, in caso di incidenti o sovraccarico o cattivo funzionamento, con l’emissione di pesanti fumi neri tossici, decisamente poco ecologici, dato che possono servire molte ore per spegnere un’auto elettrica in fiamme: si pongono così nuovi problemi di sicurezza, in specie nei parcheggi chiusi. Oltre a ciò, i costi di riparazione delle autovetture elettriche sono decisamente superiori di quelle tradizionali e i vantaggi in termini di costi al chilometro riguardano chi possiede un impianto fotovoltaico e può ricaricare l’auto di notte, comodamente nel garage di casa, per poi utilizzarla per piccoli spostamenti. E tutti gli altri?
Secondo l’ACEA (European Automobile Manufacturers’ Association), l’associazione dei costruttori europei, a inizio 2023 c’erano quasi 300 milioni di veicoli in circolazione in Europa, di cui circa 250 milioni di autovetture con età media di 12 anni, con un’incidenza delle auto elettriche solamente dell’1,5%. Dati i numeri, sembra assai improbabile che il parco automezzi possa essere riconvertito nei tempi previsti dalla Commissione Europea: anche ipotizzando che fino al 2035 continuino a circolare oltre la metà dei mezzi attuali a combustione interna e circa 130 milioni di mezzi elettrici, come e dove si penserebbe di estrarre i materiali necessari per produrre le batterie? Per non parlare della realizzazione della necessaria infrastruttura elettrica: ad oggi, l’Europa ha circa 225 mila punti di ricarica pubblici per veicoli elettrici, con l’obiettivo di installare almeno un milione di punti entro il 2025, ma per coprire l’esigenza bisognerebbe arrivare a decine di milioni di punti di ricarica, tra pubblici e privati, per il 2035. Dovrebbero essere più veloci e convenienti e capillarmente distribuiti anche nelle aree rurali, così da supportare l’uso anche a lungo raggio dei veicoli elettrici.
È evidente, quindi, che i conti non tornano: o ci troviamo di fronte a un madornale errore di valutazione, oppure, come credo più probabile, si è già ipotizzato di andare incontro a una drastica riduzione del parco auto privato. Nei prossimi 10-15 anni potrebbe iniziare a sparire la seconda auto per famiglia e, nelle città più grandi, anche la prima. Si passerà dall’essere possessori di un’auto propria a utilizzatori di un servizio in sharing: l’auto si prenderà in affitto se e quando servirà, altrimenti ci si sposterà a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici, o non ci si sposterà affatto.
Come effetto collaterale del divieto, poi, diminuirebbero sicuramente gli investimenti dell’industria automobilistica per migliorare l’efficienza e la pulizia dei motori tradizionali. Un rischio aggiuntivo è che i cittadini si terrebbero strette le auto endotermiche, anche per i costi elevati delle auto elettriche, portando così a un innalzamento dell’età media degli automezzi in circolazione. Una sorta di “effetto Cuba”, con effetti negativi su sicurezza e ambiente: una conseguenza non intenzionale della pianificazione centralizzata, mossa dall’ideologia. Un altro punto critico è la possibilità tecnica di inibire l’accensione o di spegnere veicoli elettrici da remoto. Non è fantascienza, i mezzi elettrici privati possono venire spenti o messi fuori gioco dalla polizia o da altre autorità competenti, a distanza. Per motivi di “sicurezza pubblica”, ovviamente, che potrebbero riguardare in linea di principio anche legittime proteste del tipo Freedom Convoy in Canada, o qualsiasi altro “assembramento” ritenuto non opportuno dall’autorità politica.
Inoltre, la transizione verso gli automezzi elettrici potrebbe avere anche delle conseguenze sociali ed economiche, in termini di trasferimento di aziende verso gli Stati Uniti (si parla dell’apertura di stabilimenti della Volkswagen negli Usa), attratti dai cospicui finanziamenti statali previsti dal piano di Joe Biden denominato Inflation Reduction Act, una vera e propria concorrenza sleale creata dall’interventismo politico. Che rischia di spingere a un incremento degli aiuti statali anche in Europa, come contromisura per contrastare l’interventismo statunitense, come prevede il provvedimento allo studio denominato Temporary Crisis and Transition Framework, fortemente voluto dalla Germania e contrastato dall’Italia. La Commissione corre il rischio di sacrificare, per scelte ideologiche e politiche, una parte non irrilevante del sistema industriale europeo, per poi “rimediare” a tali scompensi con un maggiore interventismo politico a mezzo della leva fiscale. L’Europa si pone quindi come l’epicentro di uno “statalismo climatico” fatto di regolamentazioni e distorsioni della concorrenza assai preoccupanti, pagate da contribuenti e consumatori. Una sorta di socialismo verde che, se non salverà il pianeta, sicuramente avrà effetti pesanti sui nostri Paesi, a partire dalla classe media.
Insomma, la transizione energetica è un tema così delicato che non può essere deciso dall’alto, sulla base di un presupposto che appare più ideologico che scientifico. Occorre lasciare che l’industria automobilistica e i consumatori facciano le scelte che ritengono più opportune, e un po’ per volta, come sempre è accaduto, si otterranno miglioramenti concreti e coerenti con le risorse a diposizione. E anche se si volesse proprio intervenire con dei regolamenti, occorrerebbe prevedere tempi realistici, meno stringenti, limitandosi a fissare degli obiettivi, senza indicare anche i mezzi per raggiungerli, evitando così manipolazioni indotte dagli incentivi pubblici, cioè col denaro preso coercitivamente dai contribuenti.
In conclusione, la Commissione Europea ha cercato di forzare la mano con la solita martellante narrazione, secondo cui “non abbiamo più tempo”. E invece il governo tedesco, e poi anche quello italiano, hanno giustamente “preso tempo”. Una volta la sussidiarietà era minacciata dai governi: ironia della sorte, nel processo attuale di accentramento accelerato di risorse e decisioni verso realtà sovranazionali sono proprio gli Stati l’ultima linea di difesa, l’unica speranza di tutelare quel poco di libertà e autonomia rimasta. Il governo italiano ha vinto una battaglia importante, ma non ancora la guerra: senza l’appoggio tedesco, il rischio è che la decisione sia solo rimandata. Nel 2024, tuttavia, verrà rinnovato il Parlamento Europeo e, di conseguenza, anche la Commissione: un’occasione da non perdere per porre termine, finalmente, alla “maggioranza Ursula”.
Venerdì, 17 marzo 2023