Nel fallimento di una dinastia politica c’è tutta la vacuità dell’ideologia woke, sempre più rigettata
di Maurizio Milano
Justin Pierre James Trudeau (Ottawa, 1971), leader del Partito liberale dal 2013 e primo ministro del Canada dal 2015, ha comunicato in una conferenza stampa tenutasi, il giorno dell’Epifania, la sua decisione di dimettersi da capo del partito e di volere rassegnare le dimissioni da capo del governo entro fine marzo. Il partito dovrà ora trovare in tempi rapidi una nuova guida in vista delle prossime elezioni politiche, che si sarebbero dovute tenere nel mese di ottobre ma che a questo punto saranno verosimilmente anticipate. Trudeau lascia un’eredità disastrosa, su tutti i fronti, come ben riflesso da un indice di gradimento (delle sue dimissioni) pari al 70%. Il centrodestra guidato da Pierre Poilievre ha un vantaggio di oltre 20 punti percentuali sul partito liberal di Trudeau e si prepara a prendere le redini del Paese.
Chi è Justin Trudeau? Justin è figlio d’arte, dato che già suo padre Pierre (1919-2000) era stato primo ministro del Canada per lunghi anni, in due riprese, dal 1968 al 1979 e poi ancora dal 1980 al 1984, segnalandosi per le politiche favorevoli ai cosiddetti “diritti civili” (divorzio, aborto, omosessualità) e per una relazione privilegiata con la Cina comunista (dal 1970), poi con la Cuba di Fidel Castro (dal 1976). Politiche riprese dal figlio, femminista convinto, grande sostenitore dell’ideologia LGBTQIA+, dell’ideologia “indigena”, dei protocolli DEI (Diversity, Equity, Inclusion), antisemita ed islamofilo, portatore di un relativismo culturale che odorava di “dittatura del relativismo”. A tal proposito, a fronte di crimini periodicamente compiuti da immigrati islamici, la sua risposta era sempre la stessa: la condanna di una presunta islamofobia, con la pressante richiesta di un’autocritica da parte del popolo canadese, che evidentemente non aveva saputo accoglierli adeguatamente. La richiesta di “integrarsi” era paradossalmente rivolta non agli immigrati, bensì ai propri concittadini, mentre promuoveva attivamente un’immigrazione “senza se e senza ma” per spingere verso un modello all’insegna del multiculturalismo woke.
Sul piano economico e sociale, il Canada viene da alcuni trimestri di inflazione galoppante, figlia di politiche monetarie ultra-espansive e di deficit spending anche per promuovere l’agenda green. Nella sua gestione finanziaria “creativa”, la “politica” di contenimento del deficit fiscale si basava sull’assunto che il budget non andava gestito perché si sarebbe “bilanciato da solo”: va bene come battuta ma detta seriamente fa capire l’inconsistenza del personaggio anche sul piano tecnico. Trudeau lascia un Paese più povero, un sistema socialista parassitario e conflittuale con un peggioramento della sanità nonostante una pressione fiscale confiscatoria, con criminalità e conflittualità in forte crescita. Convinto sostenitore dell’ideologia climatista e della necessaria “transizione ecologica”, il modello a cui Trudeau diceva di ispirarsi era quello cinese: «ammiro davvero la Cina perché il loro sistema dittatoriale gli consente di rivoltare la loro economia in un batter d’occhio, diventare più verdi in modo più veloce e di iniziare a investire nel solare». Globalista convinto, tanto da dichiarare che il Canada era «la prima nazione post-nazionale al mondo, che non possiede ‘valori canadesi’». Non stupisce che sul piano internazionale il Canada abbia conseguentemente perso credibilità e autorevolezza.
Tra le politiche di Trudeau, ricordiamo anche le misure draconiane adottate nella gestione dell’epidemia CoViD-19, con la repressione violenta del movimento di protesta pacifica dei camionisti canadesi, denominato Freedom Convoy, il “Convoglio della libertà”. Si era trattato di un’imponente manifestazione di protesta, iniziata a metà gennaio 2022 in Canada, nella capitale Ottawa, nei confronti dell’obbligo vaccinale imposto ai camionisti che attraversavano il confine con gli Stati Uniti. Il premier Trudeau dichiarò lo stato di emergenza, assumendo poteri speciali in base al c.d. Emergencies Act, trattando una libera e pacifica manifestazione di cittadini alla stregua di un atto terroristico. Il blocco dei conti bancari, senza passare da un’autorizzazione giudiziaria, fu un atto politico che si estese a tutte le persone in qualche modo coinvolte nella protesta, compresi quelli che avevano fatto versamenti, anche piccoli, a supporto dei manifestanti. Un precedente molto pericoloso per la democrazia: tali provvedimenti, infatti, sono stati poi contestati dalla Corte Federale canadese il 23 gennaio 2024 perché emessi in violazione della Chart of Rights and Freedoms.
Justin Trudeau era il pupillo dichiarato di Klaus Schwab (Ravensburg, 1938), fondatore e leader del World Economic Forum di Davos: aveva fatto parte della “scuola di leadership” del WEF – i cosiddetti Young Global Leaders –, una community molto influente fondata da Schwab nel 2004, i cui membri sono selezionati all’interno di governi, business, accademia, arte e cultura. Il motto degli YGL, emblematicamente, è: “shaping the future”, cioè “modellare il futuro”, che si accorda alla strategia perseguita da Schwab, e pubblicamente dichiarata, di «penetrare i governi». Proprio il governo canadese era quello più infiltrato, tant’è vero che in un’intervista Schwab si era vantato che a un ricevimento del governo canadese a cui aveva partecipato «metà, o forse più della metà, del suo governo, era composta da “Young Global Leaders”». In un’interrogazione al Parlamento canadese del 19 febbraio 2022, in cui il deputato conservatore Colin Carrie (Hamilton, 1962) chiedeva chiarimenti sul senso di tale dichiarazione e piena disclosure dei membri del governo affiliati al WEF, non venne fornita alcuna risposta, adducendo, con visibile imbarazzo dello speaker, problemi di qualità dell’audio, quando in realtà la domanda era anche troppo chiara, come si può facilmente verificare. Con riferimento proprio al Canada di Trudeau – col quale esisteva un’intesa privilegiata – già nella riunione annuale di Davos del 2016, in uno speech dedicato alla “Canadian Opportunity with Justin Trudeau”, Schwab ringraziava «la nostra circoscrizione canadese, sempre molto leale e collaborativa col nostro Forum». Si dichiarava poi sicuro di «rafforzare ulteriormente la collaborazione in futuro» tra il Forum e il Canada di Trudeau. Una collaborazione di lunga data visto che già il padre Pierre aveva partecipato ad alcuni convegni del WEF degli esordi. Schwab aveva anche affermato che il Canada di Justin Trudeau era uno dei Paesi che più si era contraddistinto per il proprio atteggiamento leale e collaborativo con l’iniziativa del Great Reset del WEF.
I canadesi ne stanno cogliendo i frutti. L’infiltrazione del WEF nelle politiche canadesi, con i risultati disastrosi che ne sono seguiti, ha infatti suscitato una crescente reazione di protesta popolare, tanto che il leader del Partito conservatore del Canada, grande favorito alle prossime elezioni politiche, Pierre Marcel Poilievre (Calgary, 1979) mesi orsono aveva pubblicamente dichiarato che in caso di vittoria elettorale nel suo governo, tra i suoi parlamentari e nello staff non sarebbero state ammesse persone che avessero intrattenuto rapporti col WEF, definito come «un club di ipocriti miliardari globalisti che perseguono i propri interessi a spese di tutti gli altri». Poilievre ha particolarmente criticato le politiche di ipertassazione per portare avanti le agende verdi oltre alle politiche monetarie ultraespansive della banca centrale che hanno gonfiato gli asset di una ristretta minoranza causando forti dinamiche inflazionistiche che hanno danneggiato il resto della popolazione. Il governo Trudeau era in forte crisi da molti mesi, tanto da spingere la sua fedelissima vice-Primo ministro, nonché Ministro delle Finanze, Christina Alexandra “Chrystia” Freeland (Peace River, 1968), membro del Board of Trustees del World Economic Forum, a rassegnare le dimissioni lo scorso 17 novembre. La situazione è poi velocemente precipitata.
Le forti reazioni in Canada oggi – come nei mesi scorsi in Germania, negli Stati Uniti, in Francia e probabilmente a breve anche nel Regno Unito – sono una speranza per la libertà, a dimostrazione che non esistono mai esiti obbligati. Le pseudo-élites globaliste e tecnocratiche stanno infatti incontrando reazioni e sconfitte un po’ ovunque. Le idee hanno conseguenze: le idee cattive producono frutti cattivi, e presto o tardi la narrazione non basta più. Il vento sta cambiando in Occidente: l’ipnosi collettiva degli ultimi anni, in cui l’iniziativa del Great Reset sembrava inarrestabile, sta lasciando spazio a un Great Awakening, un grande risveglio. La battaglia non è ancora vinta ma sempre più le ideologie liberal e globaliste si stanno scontrando contro il principio di realtà. E la realtà, presto o tardi, vince sempre.
Mercoledì, 8 gennaio 2025
*Per chi desidera approfondire, ne parlo nel mio Il pifferaio di Davos. Il Great Reset del capitalismo: protagonisti, programmi e obiettivi, Introduzione di Marco Respinti, D’Ettoris Editori, Crotone 2024.