di Marco Respinti
Oggi a Singapore si svolgerà l’incontro a lungo atteso fra il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump, e Kim Jong-un, leader supremo della Repubblica Popolare Democratica di Corea, ovvero la Corea del Nord rigorosamente comunista, una sorta di residuato bellico della Guerra fredda capace però di fare ancora molta paura.
L’incontro è a tutti gli effetti storico, comunque vada. Non si sa ovviamente ancora se partorirà un qualche tipo di accordo. Non se ne conoscono i retroscena, i dietro-le-quinte, le mosse nascoste. Nessuno sa davvero come e quanto la Cina, altrettanto comunista ma ben più furba della Corea del Nord, la Cina che se volesse metterebbe in ginocchio il regime nordcoreano nel giro di qualche ora, abbia pesato e pressato sul vertice di oggi. Eppure una cosa la sanno benissimo anche i comuni mortali che non sono addentro alle segrete cose. Le minacce di guerra nucleare con cui solo pochi mesi fa Kim Jong-un era in grado di paralizzare il mondo si sono dissolte come neve al sole grazie all’inflessibilità di Trump.
Trump non ha infatti battuto ciglio, non ha indietreggiato di un passo, non ha ceduto alla retorica del buonismo per ammansire il tiranno. Ha invece tenuto botta, ha rilanciato, ha risposto con durezza alla durezza, alla sfida con la sfida, all’esibizione della forza con l’esibizione della forza.
Al contempo non ha mai né esagerato né attaccato briga. Ha sempre e solo risposto alle provocazioni di Kim, mostrando di non temerlo affatto, dichiarandosi pronto a rispondere ai paventati attacchi missilistici nordcoreani, e rimandando colpe e torti al regime di Pyongyang.
Ma anzitutto e soprattutto ha fatto per la pace mondiale più lui mostrando i muscoli che mille discorsi renitenti di tanti suoi predecessori, pavidi e deboli nei confronti del comunismo internazionale.
Trump ha insomma proseguito la “dottrina Reagan” sintetizzata da un aforisma famoso: peace throught strength, “la pace attraverso la forza”. In realtà, questa dottrina risale al maestro di Ronald Reagan (1911-2004), il senatore Barry M. Goldwater (1909-1998), ma è stato Reagan il primo uomo a poterne disporre da capo del Paese più importante del mondo mettendo con essa in ginocchio l’Unione Sovietica e dimostrando che il “mondo libero” non temeva nulla.
La forza che ha sospinto Reagan è stata la chiarezza morale, tra l’altro del cristiano: l’idea, cioè, di essere senza dubbio dalla parte giusta, pur con tutti i propri limiti e peccati, a confronto di quell’ideologia di morte che ha prodotto la più grande catastrofe umana autoinflitta della storia, il comunismo, pesante almeno 100 milioni di vittime. Trump ‒ pur in sedicesimo, dirà qualcuno non senza ragione ‒ si accoda a questa scia.
Nessuno sa come l’incontro di oggi andrà. Nessuno sa se Kim cambierà completamente e definitivamente linea, smettendo i panni del provocatore, del guerrafondaio, del fomentatore. Nessuno sa se l’incontro porterà a una riduzione dell’arsenale nucleare nordcoreano. Tutti però sanno che il merito di avere ridotto Kim a docile agnellino, seduto al tavolo dirimpetto alla persona che solo pochi mesi fa minacciava di eliminare fisicamente, il mondo lo deve alla forza con cui Trump ha saputo gestire la crisi. Certamente la Cina ha fatto la propria parte, ma il giudizio non cambia. Evidentemente Pechino ha dovuto ricordare all’orecchio di Pyongyang che stavolta l’inquilino della Casa Bianca non lo si sarebbe affatto comperato con un piatto di lenticchie. Poche settimane fa, quando già tutto era pronto per il vertice di oggi, Kim ha pensato di avere Trump in tasca e ha ripreso i proclami bellicosi. Rompendo ogni protocollo, Trump ha immediatamente cancellato l’incontro mostrandosi pronto a riprendere il confronto militare. E Kim, capendo di essere quello che ha più da perdere, ha fatto rapidamente marcia indietro.
Chissà se la stampa mondiale, sempre prodiga di caricature e di epiteti per Trump, saprà riconoscere al presidente degli Stati Uniti d’America questo Premio Nobel per la pace de facto.
Marco Respinti
martedì, 12 giugno 2018