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Trump taglia le tasse, due urrà

6 Dicembre 2017 - Autore: Maurizio Milano

di Maurizio Milano

Era dai tempi del Ronald Reagan (1911-2004), presidente degli Stati Uniti d’America dal 1980 al 1988, che non si vedeva una riduzione delle tasse di tale ampiezza. Venerdì 1 dicembre, il Senato federale degli Stati Uniti ha votato a favore della riforma fiscale proposta dal presidente Donald J. Trump, che prevede una sforbiciata di circa 1.500 miliardi di dollari nell’arco di dieci anni, con un taglio massiccio dell’imposizione fiscale alle aziende dall’attuale 35% al 20%. Ora la palla passa alla Camera federale, che potrà apportare modifiche e correttivi per poi rinviare la proposta di legge ancora al Senato per il voto finale di approvazione. Se tutto fila liscio, gli americani quest’anno potrebbero trovarsi sotto l’albero di Natale un cadeau decisamente benvenuto, che potrebbe avere importanti effetti propulsivi sulla crescita economica.

Molto bene, quindi, ma con un caveat: per ridurre davvero l’imposizione fiscale occorrerebbe agire anche sulla spesa pubblica. Il peso fiscale reale è infatti determinato non solo dalle varie imposte dirette e indirette, e dai balzelli più o meno creativi introdotti dai governi nel corso degli anni, ma proprio dalla massa della spesa pubblica. Siccome non esistono pasti gratis, la spesa, se non finanziata dall’imposizione fiscale, genera deficit, inflazione e debiti il cui fardello viene caricato sulle generazioni future: una sorta di “tassazione differita”.

Se quindi, per ipotesi, il calo delle tasse dovesse traslarsi pari pari sul disavanzo e sull’inflazione, si dovrebbe dire che non è un vero taglio dell’imposizione fiscale bensì solamente un suo differimento nel tempo, eventualmente con effetti redistributivi. Quanto in effetti accadde in parte negli anni 1980 anche al presidente Reagan, il cui taglio fiscale ebbe sì effetti positivi sulla crescita economica ma si scaricò anche in un notevole incremento del disavanzo e del debito federale.

Reagan aveva fatto affidamento sulla famosa “Curva di Laffer”, dal nome del suo ideatore, l’economista statunitense Arthur B. Laffer, esponente della cosiddetta “supply-sides economics”, ovvero la scuola di macroeconomia incentrata sullo stimolo dell’offerta. La “Curva” mostra che, l’incremento della pressione fiscale genera aumento di gettito, ma a tassi decrescenti, per poi addirittura scendere oltre certi livelli d’imposizione talmente vessatori da determinare una contrazione tale dell’iniziativa imprenditoriale e dell’attività economica da risultare controproducente. È impossibile definire una volta per sempre e in ogni caso dove siano posizionate tali “soglie del dolore”: che esista e sia individuabile un livello di tassazione che massimizza le entrate per il governo tradirebbe già un approccio errato al problema. Sarebbe infatti come pretendere di “mungere la vacca” quanto più si riesce senza ucciderla.

Ben venga, quindi, un’inversione di tendenza, ed è sicuramente legittimo ipotizzare che un taglio fiscale si finanzi, almeno in parte, proprio grazie al meccanismo descritto da Laffer. Sperare in un effetto di compensazione totale, tuttavia, sarebbe ingenuamente ottimistico, come evidenziato anche da esponenti del mondo conservatore americano. Secondo le stime della Commissione bipartisan sulla tassazione del Congresso federale (Joint Committee on Taxation, JCT), la crescita economica indotta dai tagli alle tasse riuscirebbe a compensare solo 407 miliardi di dollari su 1.500 miliardi di costo complessivo della riforma nel prossimo decennio.

Al di là dei meccanismi tecnici, occorre ricordare che un governo premuroso del bene comune si preoccupa non di massimizzare le entrate fiscali bensì di fissare un livello di pressione fiscale equo e sostenibile, anche in prospettiva intergenerazionale, per poi usare tali risorse con la cura del buon padre di famiglia, contenendo quindi la spesa pubblica il più possibile, evitando sprechi, indebite ingerenze nella sfera privata e favoritismi clientelari. È il perimetro dello Stato che determina la spesa pubblica, la quale poi è coperta da un mix d’imposizione fiscale, deficit e inflazione. Logica vorrebbe dunque che si partisse dal ridimensionamento del Moloch federale, abbassando quindi la spesa pubblica, in modo da poter poi ridurre anche l’imposizione fiscale e i debiti accumulati.

Ma tagliare le spese, si sa, è tutt’altro che semplice, anche oltreoceano: ottimo, dunque, il taglio delle tasse voluto da Trump. Let’s starve the beast, come dicono gli americani, “Facciamo morire di fame la bestia”: forse l’unico modo per tenere a freno l’appetito insaziabile della classe politica e delle lobby sta proprio nel ridurre la copiosa razione di cibo fornita a spese del contribuente. Alla sola condizione che ciò non si scarichi sul disavanzo federale. Il debito pubblico statunitense, infatti, è già su livelli monstre ‒ il suo peso sul Prodotto Interno Lordo è passato dal 73% al 105% durante la presidenza di Barack Obama ‒ e l’Amministrazione attuale non può permettersi che salga ancora. È imprescindibile, quindi, che alla riduzione dell’imposizione fiscale si accompagni anche una riduzione importante della spesa pubblica e dell’ingerenza dello Stato nella vita economica. Sul successo di questa riforma, Trump si gioca tutto e così il Partito Repubblicano che al Congresso lo sta seguendo su questa linea: già incombono, infatti, le cosiddette elezioni “di medio termine” con cui nel novembre 2018 gli americani rinnoveranno tutta la Camera federale e un terzo dei senatori.

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