di Maurizio Milano
Tutti ne parlano, alcuni hanno persino provato a farne richiesta all’indomani delle elezioni: “Ha vinto il Movimento 5 Stelle, ora vogliamo il reddito di cittadinanza!”. Scapperebbe da ridere se la questione non fosse tragica, per quanto poco seria. Certo, in democrazia il consenso popolare provano a “conquistarlo” tutte le forze politiche, ma qui si tratta proprio di “acquistarlo” con moneta sonante, presa ovviamente dalle tasche del già vessatissimo contribuente.
Ma che cos’è il “reddito di cittadinanza”? Nell’ultima proposta “grillina”, si tratta di un’integrazione pubblica per portare il reddito eventualmente percepito dal singolo cittadino al livello ritenuto minimo, con parametro di riferimento quello normalmente usato a livello europeo come indicatore di povertà, il 60% del reddito mediano, calcolato dall’Istat per il 2014 a 780 euro netti mensili. L’importo viene poi rimodulato per i nuclei familiari in base al numero e all’età dei componenti, fino a 1.638 euro mensili e decadrebbe dopo il terzo rifiuto ingiustificato di un’offerta di lavoro. Nella relazione che accompagna il disegno di legge è scritto che questo sarebbe solo il primo passo: «Il livello ideale, futuro e auspicabile ‒ recita il testo ‒, coincide con l’attuazione del reddito di cittadinanza universale, individuale e incondizionato, ossia destinato a tutti i residenti adulti a prescindere dal reddito e dal patrimonio, non condizionato al verificarsi di condizioni particolari e non subordinato all’accettazione di condizioni». L’obiettivo finale è quindi quello di arrivare a una “paghetta”, più o meno generosa ma uguale per tutti, che il governo riconoscerebbe periodicamente, per esempio mensilmente, a tutti i cittadini in quanto cittadini, su base individuale e non familiare, indipendentemente dal reddito e dal patrimonio personale o familiare e, addirittura, indipendentemente dai bisogni e dal fatto che il soggetto lavori o sia disoccupato, che cerchi lavoro oppure no. “Un obolo per tutti”, insomma, che, combinato con lo jus soli, avrebbe un effetto di attrazione assicurato nel nostro Paese: “Civis italianus sum!”. La versione moderna del panem et circenses, insomma, di cui condivide un sentore stantìo di “fine impero”, che dovrebbe intristire e offendere chi ancora crede nella dignità del lavoro e nella famiglia.
Già, perché se lo Stato ha davvero il potere di creare magicamente la ricchezza dal nulla ‒ e c’è chi ci crede davvero ‒, allora tanto vale elargire con liberalità benefici a pioggia, con l’idea che ciò aiuterà l’economia supportando i consumatori, non frenerà la voglia di lavorare e d’intraprendere delle persone, ma addirittura la promuoverà fornendo una “rete di protezione” che spingerà tutti a mettersi in gioco. Ovviamente la copertura richiederà un incremento delle aliquote fiscali e ci sarà una soglia di reddito oltre la quale il percettore della regalìa di Stato passerà da “tax consumer” a “tax payer”, inizierà cioè a restituire la paghetta al fisco, con gl’interessi. È ovvio che l’innalzamento della spesa pubblica, già esorbitante, e quindi automaticamente anche della pressione fiscale, già vessatoria, influenzerebbe negativamente le scelte di lavorare e d’intraprendere, di risparmiare e d’investire, della parte più produttiva del Paese, relegando l’altra a lavori “in nero” e precari per integrare la “paghetta” pubblica e contribuire così a fare scendere la ricchezza prodotta nel Paese. E quando la torta diviene più piccola, la pace e la concordia sociale non ne beneficiano certamente.
Un’idea davvero anti-cristiana, quella del “reddito di cittadinanza”, visto che il pensiero della Chiesa Cattolica ha sempre posto l’accento sul lavoro e non sull’assistenzialismo come unico modo per rispettare la dignità della persona e per far sì che questa sviluppi appieno i propri talenti.
Eppure alla marcia della Pace da Perugia ad Assisi, il 20 maggio dell’anno scorso Beppe Grillo, il garante del Movimento Cinque Stelle, propagandava il reddito di cittadinanza per tutti ‒ al modico costo per le casse pubbliche di 17 miliardi di euro annui! ‒ proprio nel nome di san Francesco, ignorando probabilmente che i francescani del Trecento elogiavano il lavoro e la creatività imprenditoriale: il Poverello d’Assisi, che i poveri li amava per davvero, avrebbe sicuramente bocciato un’idea così peregrina. Solo una settimana dopo, a Genova, incontrando il mondo del lavoro, un altro Francesco, il Pontefice, ha ribadito: «Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti […] un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema». È così che il Santo Padre ha respinto un’idea tanto strampalata.
Del resto, il “principio di sussidiarietà”, uno dei pilastri della Dottrina sociale della Chiesa, bolla ogni ipotesi assistenzialistica come antropologicamente erronea, pedagogicamente diseducativa, e ultimamente iniqua. La società non è una massa amorfa, una somma d’individui-atomo senza relazioni tra loro, ma si configura come un organismo complesso, articolato in una pluralità di corpi intermedi tra l’individuo e lo Stato, dalla famiglia alle comunità locali, dall’impresa al sindacato, con la miriade di associazioni ‒ “luoghi” di realizzazione e maturazione della personalità dell’uomo ‒ che ogni società articolata e vitale presenta. Lo Stato non può e non deve pretendere di prendersi cura direttamente di tutti i bisogni della persona, ridotta a “cittadino”, “dalla culla alla bara”, atteggiandosi a Stato-provvidenza che tutto regola, gestisce e controlla.
Nonostante nella versione finale la proposta “grillina” si configuri come «[…] un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo», come spiegato dal professor Pasquale Tridico, candidato dall’M5S a ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali in caso di governo dello stesso, si è deciso di mantenere la terminologia “reddito di cittadinanza” per l’appeal decisamente più seducente. E, infatti, gli elettori si sono lasciati sedurre, comprensibilmente delusi da decenni di promesse elettorali irrealizzate e da un declino sociale ed economico inarrestabile che ha colpito in particolare modo il sud del Paese e i giovani. Dove, guarda caso, la propaganda demagogica dell’M5S ha raccolto i consensi maggiori.
Una “mela avvelenata” da respingere al mittente: non vogliamo una “vita in vacanza”, ma un Paese normale in cui si possa lavorare e mettere su famiglia. Ne va della nostra dignità, della nostra libertà e, perché no, del benessere economico vero per noi e i nostri figli.