Nel tentativo di rispondere rapidamente e ironicamente alle critiche che sono state mosse a Il nome della rosa anche in Cristianità, l’autore del romanzo piuttosto le avvalora.
Una replica che conferma
Umberto Eco fra «Giornali e bugie»
Su L’Espresso, nella rubrica La bustina di Minerva e sotto il titolo Giornali e bugie, Umberto Eco, autore del romanzo Il nome della rosa, replica a un certo numero di critiche alla sua opera e al film che ne è stato tratto da Jean-Jacques Annaud, citando nominatim «una serie di pubblicazioni cattoliche», fra cui Cristianità (1). Mentre prendiamo nota del fatto che, fra gli innumerevoli commenti e recensioni al suo romanzo, egli abbia ritenuto di dover — sia pure brevemente — replicare, fra gli altri, a Cristianità, non possiamo astenerci dall’osservare come le critiche mosseci siano — per dire il meno — infondate. Anzitutto, la notazione secondo cui gli autori delle critiche di parte cattolica successive al film «non vanno a controllare» se, a proposito dell’Inquisizione e di Bernardo Gui, la versione cinematografica corrisponda o meno al romanzo, si può attribuire — volendo essere benevoli — soltanto alla frettolosa lettura dell’articolo comparso in Cristianità, dove precisamente si afferma che il film è «molto meno complesso del libro» e che «dilata in modo abnorme rispetto al romanzo» appunto la tematica inquisitoriale.
L’autore de Il nome della rosa lamenta poi, a proposito di Bernardo Gui, l’incompletezza della bibliografia citata dai suoi critici e osserva ironicamente: «Siccome sono evidentemente abbonati a una biblioteca circolante Arci, elencano numerosi libri in cui si dice che Gui era buono, e che è stato persino fatto vescovo. Citano tutto, meno il manuale scritto da Gui, la “Practica Heretice Pravitatis ”, che è edito dalle Belles Lettres, ma quei pubblicisti non leggono lo straniero». Umberto Eco si dovrebbe rendere conto che un articolo di un mensile non è uno studio di rivista scientifica con adeguato apparato bibliografico; comunque, l’articolo di Cristianità costituisce una sintesi di un saggio-conferenza più ampio, che apparirà sul prossimo n. 6 dei Quaderni di «Cristianità». Ma anche i mensili e i settimanali sono tenuti a pubblicare sempre e soltanto articoli se non con bibliografie esaurienti, almeno con riferimenti precisi e corretti; quindi la replica in questione lascia a desiderare dove attribuisce a Bernardo Gui una Practica Heretice Pravitatis, mentre il titolo dell’opera è piuttosto Practica officii Inquisitionis heretice pravitatis (2), titolo ovvio in quanto il domenicano francese non voleva certamente iniziare i suoi lettori alla pratica dell’eresia — ciò che avrebbe giustificato uno strano titolo come Practica Heretice Pravitatis — ma, appunto, alla pratica delle tecniche inquisitoriali destinate a combattere l’eresia stessa.
Notiamo con interesse la familiarità di Umberto Eco con le biblioteche circolanti dell’ARCI, che — per quanto ci riguarda — dobbiamo confessare di non conoscere e di non frequentare anche perché, a differenza dell’autore de Il nome della rosa, non abbiamo mai collaborato con la parte politica che sostiene e ispira l’ARCI, l’Associazione Ricreativa e Culturale Italiana di area comunista.
Siamo felici di apprendere che Umberto Eco, a differenza dei cattolici ignoranti, «legge lo straniero», il che peraltro non garantisce in modo automatico anche la veridicità delle sue ricostruzioni storiche.
Confidiamo che — nella sezione di qualche biblioteca ARCI riservata ai pochi italiani privilegiati che «leggono lo straniero» — possa trovare anche una copia del numero 16 dei Cahiers de Fanjeaux (3), che contiene gli atti di un convegno interamente dedicato alla figura di Bernardo Gui, da cui emerge un’immagine dell’inquisitore domenicano agli antipodi rispetto alla caratterizzazione del romanzo Il nome della rosa, e tanto più del film. Speriamo che Umberto Eco non ci risponda che questa pubblicazione è uscita dopo che il suo romanzo era stato scritto; perfino i cattolici sanno fare questo genere di conti, ma non è meno vero che non è mai troppo tardi per correggersi, se si ha qualche interesse per la verità.
Se poi — per quei pochi intellettuali raffinatissimi che oltre al francese leggono perfino l’inglese — la biblioteca ARCI frequentata da Umberto Eco disponesse anche di una copia del recente testo di Marjorie Reeves e Warwick Gould, Joachim of Fiore and the Myth of the Eternal Evangel in the Nineteenth Century (4), l’autore de Il nome della rosa potrebbe scoprire che il suo romanzo viene, sia pure brevemente, ricollegato a una tradizione di gioachimismo letterario rivoluzionario, con una lettura analoga a quella proposta da Cristianità, da parte di autori la cui competenza in materia di gioachimismo — letterario e non — difficilmente può essere messa in discussione.
Ma qui dal faceto si passerebbe al serio, e si ritornerebbe ai problemi di sostanza legati a Il nome della rosa e alla mentalità che il romanzo e il film esaltano e diffondono.
Non ci sta bene neppure la conclusione conciliante: «Con tutto ciò acconsento che Gui non era cattivo, era figlio del suo tempo». Léon Bloy avrebbe accolto con entusiasmo questa frase nella sua Esegesi dei luoghi comuni. Ma il luogo comune, come sempre, rivela anche una mentalità e uno stile: per il cattolico la verità e l’errore, il bene e il male sono certo situati e condizionati, ma mai radicalmente determinati dal tempo. Per chi assorbe invece la mentalità de Il nome della rosa tutto diventa relativo: non esiste la verità, nessuno è veramente buono o cattivo, ma tutti e tutto sono soltanto «figli del loro tempo». Questa osservazione costituisce il senso profondo della critica di Cristianità a Il nome della rosa: una critica che trova ora nella replica di Umberto Eco non una smentita, ma una nuova conferma.
Note:
(1) Cfr. L’Espresso, anno XXXIII, n. 35, 6-9-1987, p. 194; e MASSIMO INTROVIGNE, Contro «Il nome della rosa», in Cristianità, anno XV, n. 142, febbraio 1987.
(2) L’edizione a cui fa riferimento Umberto Eco ha un titolo semplificato ma pertinente: cfr. BERNARDO GUI, Manuel de l’Inquisiteur, 2 voll., Les Belles Lettres, 2a ed., Parigi 1964.
(3) Cfr. AA. VV., Bernard Gui et son monde, Privat, Tolosa 1981.
(4) Cfr. MARJORIE REEVES e WARWICK GOULD, Joachim of Fiore and the Myth of the Eternal Evangel in the Nineteenth Century, Clarendon Press, Oxford 1987.