Di Stefano Caprio da AsiaNews del 01/07/2023
La missione di pace del card. Matteo Maria Zuppi a Mosca ha cercato di ispirare sentimenti di pace e fraternità in Russia e nell’intero mondo in conflitto, pur apparendo poco efficace dal punto di vista delle strategie e delle trattative per risolvere in qualche modo la situazione. Il fatto che il viaggio sia stato confermato, nonostante lo scossone interno per la “marcia della giustizia” di Prigožin e della compagnia Wagner, poteva far supporre che lo stesso Putin avrebbe gradito una carezza cardinalizia, per apparire meno dannato e isolato di quanto la sua folle guerra ha provocato nelle relazioni internazionali. Invece il capo del Cremlino ha preferito mostrarsi felice e sorridente in mezzo al “suo popolo” che si unisce attorno allo zar, abbracciando e baciando fanciulli e ragazze per le strade del Daghestan, nel Caucaso settentrionale.
La scelta del luogo per il trionfo di piazza, dopo che ci eravamo abituati agli stadi strapieni moscoviti con un Putin corazzato in vestiti extra-lusso, per coprire gli strati di coperture anti-proiettile, ha lasciato comunque un po’ perplessi. Perché in Caucaso, e senza protezioni, alla mercé degli entusiasmi irrefrenabili e incontrollabili? In qualche modo si è trattato di una risposta al traditore Prigožin, agitatore di mercenari fedifraghi, indicando negli intrepidi daghestani (e nei ceceni loro parenti) i veri servitori della grande Russia. E forse anche per rassicurare tutti che non ci saranno rivolte di popoli e regioni, come molti ipotizzano e auspicano, perché solo i russi sanno interpretare e soddisfare i loro desideri, come anche quelli degli ucraini e degli altri popoli “tradizionali” dell’impero.
Il buon cardinale romano-bolognese si è dovuto adattare a incontrare un passacarte del Cremlino, senza di fatto poter discutere di nulla, e poi la “garante dell’infanzia” della Russia per parlare dei 20mila bambini ucraini rapiti e deportati, di cui proprio lei è una delle principali responsabili. L’incontro più solenne e significativo è avvenuto nella lussuosa residenza del patriarca Kirill, dove Zuppi era comunque accompagnato dal nunzio apostolico a Mosca, Giovanni D’Aniello, e da uno dei massimi specialisti italiani di Russia, il prof. Adriano Roccucci. Se non altro, qui il cardinale poteva mostrare la rilevanza della Chiesa cattolica, unica a poter interloquire con il grande ideologo religioso di Putin che tutti gli altri evitano ormai come la peste. Anche con Kirill non si sono avute, comunque, né contrizioni né assicurazioni su possibili svolte di pace; al massimo l’impegno comune a “evitare un conflitto di dimensioni ancora maggiori” (quello attuale a Kirill deve parere ancora limitato, aspirando alla “vittoria metafisica”, trinitaria e ultraterrena).
A consolare il cardinale ci ha pensato la Madonna di Vladimir, la “Gioconda russa” ispiratrice di vittorie antiche, davanti alla quale Zuppi si è inginocchiato nella cappella della Galleria Tretjakov, quella da cui Kirill ha rapito l’icona della Trinità di Rublev ora nella cattedrale del Santissimo Salvatore, da cui il porporato si è saggiamente tenuto alla larga. Si è invece fermato nella cattedrale dell’Immacolata Concezione, sede principale dei cattolici russi, per concelebrare insieme a clero e fedeli una Messa di autentica speranza e testimonianza di pace. E qui il messo papale ha potuto finalmente parlare sul serio, spiegando il vero motivo della sua visita, nell’omelia letta in russo dal giovane vescovo ausiliare Nikolaj Dubinin, l’immagine del futuro della Chiesa in questo Paese.
Il concetto fondamentale su cui ha insistito Zuppi è che “l’unità non si raggiunge con il potere, ma con il servizio”. Proprio questo è infatti l’obiettivo della guerra russa e della predicazione patriarcale: l’unità dei popoli, la sobornost della teologia slavofila. È la versione russa della “cattolicità”, tanto che anche nel Credo è stata sostituita la parola “cattolica” con “sobornaja” per definire la Chiesa: una, santa, sobornaja e apostolica. Sobor è il concilio e la cattedrale, sobirat è il verbo che indica l’azione riunificatrice, tanto che il primo gran principe della Terza Roma, Ivan III il Grande, era soprannominato il sobiratel perché aveva esaltato la Moscovia come nuova Rus’, nuova Kiev, nuova Roma, sottomettendo le altre città e regioni, se necessario anche distruggendole, come avvenuto con la troppo libera e occidentale Novgorod. È il titolo a cui aspira Putin, rimettendo tutti i popoli vicini nello “Stato Unitario” o sobornico di memoria sovietica, come già proclamato per la Bielorussia wagneriana, e auspicato per il Kazakistan filo-cinese. È anche il titolo ecclesiastico a cui aspira Kirill, facendo della Chiesa russa la nuova Chiesa cattolico-sobornaja, magari nominando suo cardinale vicario il Papa stesso.
Zuppi invece spiega che il vero potere è quello dei “senza potere”, come spiegava negli anni Settanta il più grande dissidente antisovietico, il ceco Vaclav Havel. Il futuro presidente di Praga spiegava che a questo si oppone “l’impotenza dei potenti” che possono reprimere, ma non generano nulla, non sono in grado di creare un mondo nuovo. È la definizione più adeguata per descrivere il ventennio di potere putiniano, che ha ridotto al nulla tutto il tentativo di ricostruire una nuova Russia dopo la dittatura sovietica, ma anche del trentennio di potere kirilliano, in cui il metropolita-oligarca, poi diventato patriarca, ha svuotato di senso perfino la più spettacolare rinascita religiosa della storia umana.
Come scriveva lo stesso Havel, il potere dei senza potere nasce dalla vita nella verità, il “vivere senza menzogna” proclamato da un altro grande dissidente russo, Aleksandr Solženitsyn. E Zuppi ha mostrato la verità di una Chiesa senza potere, che non ha armi, piani e progetti per risolvere i conflitti e rovesciare i regimi, che ha rifiutato da tempo di accarezzare i potenti e mettersi a fare il chierichetto dei governanti. La Chiesa di Kirill ha inquinato la rinascita della fede con la nostalgia del potere, sia esso la “sinfonia bizantina”, la “sobornost zarista” o la semplice sottomissione sovietica, a cui ormai appare ridotto il suo patriarcato. Il bonario sorriso del cardinale romanesco, arcivescovo di Bologna e parroco d’Italia vicino ai poveri, in dialogo con tutti senza mai temere le critiche e gli intrighi, è la risposta cattolica, la vera sobornost spirituale, a cui in realtà si rivolgono nel cuore e nella preghiera anche tanti sacerdoti e fedeli russi.
Havel non aveva soltanto criticato il regime comunista, aveva anche profetizzato la menzogna del post-totalitarismo, affermando che “fra le intenzioni del sistema post-totalitario e le intenzioni della vita c’è un abisso profondo… Mentre per sua natura la vita tende al pluralismo, alla varietà dei colori, ad organizzarsi e costituirsi in modo indipendente, tende insomma a realizzare la propria libertà, il sistema post-totalitario esige monolitismo, uniformità, disciplina”. Il monito non vale soltanto per i russi o per gli americani, per i cinesi o i turchi o tutti coloro che aspirano a ricostruire gli imperi: è una descrizione efficace dell’intero modo globalizzato, della coscienza sempre più annebbiata dal conformismo di massa. Vale per gli zar e i patriarchi, ma anche per chi non si occupa di politica o di religione, di soldi o di armi; vale per gli influencer e per gli influenzati, automi di un mondo che smarrisce la sua anima in forme di intelligenza artificiale.
La sobornost patriarcale è stata anche l’ispirazione della compagnia Wagner, oggi dissolta nella Bielorussia metafisica, e non è un caso che i suoi fondatori si siano richiamati al grande compositore tedesco morto 140 anni fa. Richard Wagner voleva trasformare il pensiero musicale attraverso la sua idea di Gesamtkunstwerk, “opera d’arte totale”, sintesi delle arti poetiche, visive, musicali e drammatiche. Lo stesso filosofo Friedrich Nietzsche, a sua volta profeta della post-modernità, considerava la musica dell’amico Richard come la rinascita dell’arte tragica in Europa, rappresentando il massimo esempio dello spirito dionisiaco nella storia della musica stessa, salvo poi ricredersi, e definirla espressione di una civiltà decadente.
In effetti, l’ultimo quadro dell’Anello del Nibelungo si intitola Il crepuscolo degli dei. I fratelli tramano l’assassinio di Sigfrido, che si è messo al dito l’anello, che pur essendo invulnerabile grazie alla magia, può essere colpito alla schiena, dove lo trafigge Hagen con la lancia, dando inizio alla tragedia finale. Il Reno trabocca trascinando via l’anello, come la diga di Kakhovka che rovescia il diluvio sui piani di guerra. E il Walhalla popolato dagli dei è in preda alle fiamme di un incendio che lo distrugge, come potrebbe capitare al Cremlino, se non fosse che le tragedie wagneriane sono ormai ridotte a commedie dell’impotenza dei potenti.