Da Avvenire del 07/07/2022
Oltre quasi due milioni di soldati contro 160mila, 6.300 carri armati contro ottocento, 1.600 velivoli da guerra contro 400, un bilancio militare che sfiora i 300 miliardi di dollari per Pechino contro quello di 19 miliardi per Taipei sono i numeri che sulla carta darebbero ampio margine di vittoria alla Repubblica popolare cinese se accogliesse la tentazione di annettere con la forza la «provincia ribelle» di Taiwan, di fatto indipendente dalla fuga sull’isola, il 7 dicembre 1949, di quanto restava del governo nazionalista sconfitto da Mao. Da allora e finora per 26.510 giorni la tensione è stata costante, tenendo accesa la miccia di un potenziale confitto mondiale. Sul territorio dell’isola e degli isolotti che farebbero da prima linea in caso di attacco, la preparazione è costante e in base al concetto di «difesa asimmetrica», ovvero di uso di ogni strumento utile a relativizzare lo strapotere in uomini e mezzi del nemico, sfruttando conoscenza del campo operativo e capacità di reazione di quella che si è trasformata in un «porcospino», forse non letale ma in grado di infliggere pesanti conseguenza all’attaccante. La domanda è se la leadership di Pechino sia pronta a subire perdite ingenti sulle coste taiwanesi e poi combattendo casa per casa, rischiando conseguenze interne e internazionali solo in parte prevedibili. Sull’isola, d’altra parte, che nei suoi avamposti dista 130 chilometri dalla costa continentale, una identità distinta dalla Repubblica popolare cinese è ormai inequivocabile. Non a caso un sondaggio del maggio scorso ha indicato come il 61,4 per cento dei 23 milioni di taiwanesi siano pronti a prendere le armi in caso di conflitto aperto. La decisione finale, tuttavia, è nelle mani del presidente cinese Xi Jinping. Xi ha prospettato alla sua popolazione la necessità «di raggiungere qualcosa di magnifico e grande» e per questo l’invasione di Taiwan, indicata nel 2019 come «una componente inevitabile del grande rilancio del popolo cinese», potrebbe essere la carta da giocare davanti al rischio di vedersi negato il terzo mandato presidenziale o di un fallimento evidente delle politiche economiche e sociali o di un ruolo strategico messo apertamente in discussione. In questo senso, però la vicenda ucraina è maestra, soprattutto sui rischi di un’invasione. La dichiarazione del 17 agosto 2021, con cui il premier taiwanese Su Tsengchang ha indicato che «Taiwan non cadrà sotto un attacco cinese come l’Afghanistan ha fatto con i taleban» la dice lunga. Taipei è cosciente che Washington potrebbe non garantire una difesa diretta dell’isola e che l’unica certezza è potere contare sulle proprie forze e sulla propria determinazione. Nessuno può però ignorare che non solo ideali o interessi cinesi quelli che si focalizzano su Taiwan, anello essenziale nella catena di contenimento delle mire di Pechino verso i “mari caldi” e il Pacifico. Nel summit dei capi di governo della Nato della prossima settimana, prevedibilmente l’attenzione sarà sul conflitto in Ucraina e i rapporti con Mosca.
Tuttavia, come anticipato il 21 ottobre scorso dal segretario generale dell’alleanza, Jens Stoltenberg al termine della riunione dei ministri della Difesa preparatoria al vertice Taiwan potrebbe essere coperta dal principio di «difesa collettiva».