Il libro sorprendente e raffinato che ci racconta chi era davvero Rosario Livatino.
di Cristina Cappellini
Non ci sarebbe stato titolo più appropriato per un libro sulla figura umana e professionale di Rosario Livatino, il giovane magistrato assassinato dalla “Stidda” siciliana il 21 settembre del 1990 e che il 9 maggio prossimo sarà proclamato beato nella cattedrale di Agrigento.
Se si crede ai segni, non si può fare a meno di constatare come la beatificazione di un giudice – primo caso nella storia – avvenga nel periodo più buio della magistratura italiana, in cui il ben noto “caso Palamara” rappresenta a quanto pare solo la punta di un iceberg fatto di intrighi e di opacità a vari livelli.
E siccome le cose non accadono mai per caso, scoprire e valorizzare oggi la figura di un magistrato ancora poco conosciuto ai più e peraltro in odore di santità non può che significare da un lato un dovere morale, dall’altro un auspicio che quella stessa figura di giovane essere umano irreprensibile possa fungere da modello per i magistrati ancora degni (o per quelli che lo saranno in futuro) di vestire la toga.
Ed è ancora più importante che a mostrarci il suo ritratto siano proprio due magistrati in servizio, come Alfredo Mantovano e Domenico Airoma (entrambi vicepresidenti del Centro Studi Livatino) e un giurista di lungo corso come Mauro Ronco (presidente del medesimo Centro Studi). Chi meglio di loro, che operano quotidianamente nel mondo della giustizia italiana e che da circa sei anni portano avanti con grande professionalità e dedizione l’eredità di Livatino, i suoi insegnamenti, i valori che hanno guidato la sua azione e la sua maestria, poteva raccontarne le vicissitudini professionali e la caratura umana?
Il libro, uscito da pochi giorni, edito da Il Timone, segue in maniera precisa e allo stesso tempo scorrevole, tre principali filoni di approfondimento. Il primo (capitoli I e II) è incentrato sull’esperienza professionale di Livatino e analizza in particolare il contesto storico e sociale in cui si svolse la sua attività di magistrato, ossia la Canicattì della fine degli anni ’80, un territorio di provincia avvolto dall’omertà e assediato da diverse organizzazioni criminali (quella che solo molti anni dopo fu identificata come “Stidda” era un’organizzazione criminale in competizione con la più nota e radicata Cosa Nostra). Viene inoltre messo in evidenzia come la magistratura e le forze dell’ordine avessero a disposizione strumenti limitati di lavoro, nemmeno paragonabili a quelli odierni, e vengono approfondite le circostanze che portarono all’assassinio di Livatino.
Il secondo tema di approfondimento (capitolo III) riguarda il legame tra l’esperienza umana e quella professionale di Livatino, quella vita ordinaria vissuta in maniera straordinaria (come viene espresso significativamente nel testo) da chi svolse il proprio ruolo con intransigenza professionale e profondità umana, due caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere chiunque sia chiamato a giudicare gli atti compiuti da qualsiasi altro essere umano e che di sicuro erano i tratti distintivi di Livatino.
Ecco allora che vengono portate alla luce quelle caratteristiche che fanno del giovane magistrato un esempio per tutti: l’estrema dedizione al lavoro (fino a rinunciare alle ferie per adempiere pienamente al proprio ruolo e alle esigenze contingenti della giustizia), la riservatezza (come si denota in più circostanze, nessuna informazione usciva dai suoi fascicoli – strumenti di lavoro per eccellenza – non solo in ambito giornalistico, come le cronache di oggi ci farebbe pensare, ma nemmeno in ambito strettamente famigliare), la terzietà e l’indipendenza, il rispetto verso indagati e imputati.
Del resto, i pochi (ma intensi) scritti che Livatino ci ha lasciato, testimoniano da soli quello che per il giudice di Canicattì significava la professione di magistrato. Nella relazione svolta in occasione di uno dei suoi rarissimi interventi pubblici, si legge: “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio (…) ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività. (…) Il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”.
Il terzo tema che emerge dal libro (capitolo IV) racchiude il fondamento della vita e dell’azione di Livatino: la profonda fede cattolica e la concezione (San Tommaso docet) del diritto positivo basato sul diritto naturale integrato con la morale, che si fa giustizia per la tutela del bene comune. La formazione (culturale e spirituale) cristiana trasfusa nell’amministrazione della giustizia svolta con carità, come servizio all’uomo in nome della verità, e fondata sulla distinzione giusnaturalistica tra bene e male.
La fede di Livatino, uno dei motivi che incrementarono l’odio degli esponenti della “Stidda” verso di lui (come accade spesso agli uomini liberi di fronte a qualsiasi Leviatano) si evince anche da un particolare degno di nota, ossia l’abitudine del giudice di scrivere l’acronimo S.T.D. (“Sub tutela Dei”) in calce alle pagine della propria agenda. Particolare che ha ispirato il componimento poetico di Davide Rondoni a lui dedicato e che apre le pagine di questo interessantissimo libro, di cui c’era veramente bisogno. Che Rosario Livatino, presto beato, possa essere sempre di più un modello di integrità morale e di carità cristiana e che possa intercedere per la nostra attuale magistratura, in preda a una tempesta che sembra spesso senza fine.
Venerdì, 7 maggio 2021