Mentre il governo della Repubblica Libanese – guidato dal generale Michel Aoun – si impegna in uno sforzo titanico per restaurare la sovranità dello Stato sul paese e la legalità in esso contro invasori variamente travestiti e loro complici interni, un messaggio dell’episcopato indica le basi del senso civico indispensabile a tale restaurazione. La traduzione redazionale è stata condotta sulla versione francese del documento originale in arabo, diffusa dalla Segreteria dell’Assemblea dei Patriarchi e dei Vescovi Cattolici in Libano con il titolo Une patrie digne de l’homme. Lettre pastorale de la presidence de l’Assemblée des Patriarches et évêques catholiques au Liban, e comparsa in la documentation catholique (anno 71, n. 1981, 2-4-1989, pp. 349-353).
Cari Fratelli e amatissimi Figli,
Dall’inizio della crisi in cui si dibatte la nostra patria libanese non abbiamo smesso di ricordare i sacrifici che ci dobbiamo accollare per uscirne e per evitare il peggio. Perciò avremmo gradito, tenendo il nostro incontro annuale poco tempo dopo la festa dell’indipendenza nazionale, vedere la pace ritornata dopo l’elezione di un presidente della Repubblica. Infatti, tale elezione avrebbe aiutato questo infelice paese a rialzarsi e a trionfare definitivamente sui fattori di contrasto e di distruzione.
Oggi, dopo che le cose si sono svolte in modo da trasformare la nostra speranza in delusione, non permetteremo alla delusione di aver ragione della speranza, né permetteremo alla disperazione di intralciare la via che abbiamo deciso di seguire.
Così, nella prospettiva di rafforzare questa decisione di fondo, qualunque cosa costi, abbiamo pensato di offrirvi una descrizione della patria che ci siamo dati e che vogliamo veder durare, perché rappresenta il valore più prezioso che abbiamo in comune.
Per non limitarci a generalità, abbiamo scelto di illustrare la nostra esposizione con gli imperativi che dobbiamo realizzare praticamente, se Dio ci fa la grazia di accordarci, in un prossimo futuro, la liberazione all’esterno e la stabilità interna alle quali aspiriamo.
Chiaramente, non andiamo ad attingere le nostre considerazioni a fonti marginali, né ad allineare i nostri imperativi a interessi settoriali. Una patria libanese non è degna della storia del Libano se non è una patria degna dell’uomo. Ma una patria degna dell’uomo deve, rispettandone i diritti essenziali, conformarsi lealmente alle norme prescritte da Dio alle sue creature.
Da questo le diverse parti del messaggio che vi è diretto.
I. Una patria degna dell’uomo cioè una patria che rispetta i diritti dell’uomo
Ci apprestiamo a celebrare fra qualche giorno il 40° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promulgata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1948. Il Libano era allora rappresentato dal defunto dottor Charles Malik, che aveva partecipato attivamente all’elaborazione di questa Dichiarazione e alla sua stesura, dopo esser stato un membro fondatore dell’Organizzazione stessa.
Rammentando il ruolo del Libano e gli impegni che ha contratto in tale occasione, non mancheremo di ricordare gli elogi che sono stati prodigati a questa Dichiarazione dai Sommi Pontefici, particolarmente da Papa Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris.
Più vicino a noi, Papa Giovanni Paolo II ha fatto riferimento a questo argomento in numerose occasioni, le più importanti delle quali sono il discorso all’ONU del 2 ottobre 1979 e le encicliche sul Redentore dell’uomo – Redemptor hominis -, sulle questioni del lavoro e dei lavoratori – Laborem exercens – e, proprio ultimamente, sulla questione sociale, Sollicitudo rei socialis.
Non sfugge a nessuno il fatto che queste encicliche e altri testi di Giovanni Paolo II sono perfettamente concordanti con le posizioni del suo predecessore Papa Paolo VI, che ha pure trattato del nostro argomento nel discorso all’ONU del 4 ottobre 1965 e nella celebre enciclica sullo sviluppo e sulla pace, Populorum progressio.
D’altronde è evidente che l’insegnamento dei Papi del nostro tempo relativamente ai diritti dell’uomo trova la sua espressione più elevata nei testi del Vaticano II e soprattutto nella costituzione pastorale su La Chiesa nel mondo contemporaneo e nella dichiarazione su La libertà religiosa.
Partiremo da questi documenti (1) per trattare dei diritti dell’uomo che, soli, danno veramente fondamento alle patrie e le elevano al livello della dignità che spetta a esse. In questo modo li collegheremo a tre punti e in relazione e ciascuno di questi punti affronteremo quanto concerne più specificamente il Libano.
1.1. I diritti delle persone
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo pone tutti gli esseri umani sulla stessa base d’uguaglianza. Perciò rifiuta ogni discriminazione fondata sulla razza, sulla confessione religiosa, sul sesso o sul colore. Inoltre, la Dichiarazione esige, fra l’altro, l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, il diritto all’assistenza davanti ai tribunali e quello a difendersi, ogni uomo dovendosi presumere innocente finché le infrazioni che gli sono imputate non sono state debitamente provate.
Nel vasto campo delle libertà, la Dichiarazione evidenzia in modo particolare la libertà di religione, di pensiero, di opinione, di espressione, di movimento e di proprietà, con il rispetto della vita personale e del suo carattere privato.
Tuttavia, una lettura evangelica della Dichiarazione non può non privilegiare, in questo quadro ugualitario, l’attenzione specifica dovuta ai più bisognosi. Nella difesa dei loro diritti essi devono beneficiare di un’opzione preferenziale. Sia che si tratti dei bambini e dei vecchi come pure delle donne, oppure degli handicappati e degli operai come pure della generalità dei lavoratori, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è stata di fatto promulgata per questa massa di “umiliati e offesi”. La dobbiamo quindi prendere in considerazione perché la nostra rivendicazione dei diritti dell’uomo secondo la Dichiarazione universale sia sincera e operante.
In occasione della Giornata Mondiale della Pace, fissata per il prossimo 1° gennaio, ritorneremo sull’argomento delle minoranze. Infatti Sua Santità Giovanni Paolo II pensa che il rispetto dei loro diritti è una condizione fondamentale della pace mondiale. Ma prima di venire all’argomento delle minoranze, dobbiamo riconoscere che la grande maggioranza fra noi, a qualunque credo aderisca, non beneficia dei diritti umani elementari. Essa non partecipa ai benefici della società dei consumi che perseguiamo, e non gode della dignità che costituisce l’essenza dei diritti umani, quella dignità senza la quale non potremmo vantarci di una patria.
1.2. I diritti delle famiglie
Se la Dichiarazione dei diritti dell’uomo rivendica anzitutto i diritti individuali, non ignora pertanto i diritti delle comunità. Si tratta di un aspetto che anche il Vaticano II e i Papi contemporanei hanno messo in risalto nei testi ai quali abbiamo fatto riferimento.
Dal canto suo, Papa Giovanni Paolo II riserva un’attenzione particolare ai diritti delle famiglie. Si tratta di un punto su cui dovremmo seguire l’esempio di Sua Santità, perché la crisi libanese manifesta un’ignoranza colpevole dei diritti familiari.
Così, la nostra legislazione sul lavoro non garantisce all’operaio il giusto salario che gli permetta di sovvenire, insieme ai propri bisogni, a quelli della sua famiglia relativamente ad alimentazione, vestiario, alloggio e benessere, per quanto modesto. La politica degli alloggi non assicura neppure i bisogni degli individui e assolutamente non quelli delle famiglie, soprattutto delle giovani coppie e delle famiglie numerose. Lo stesso succede per quanto riguarda il problema scolastico e ospedaliero, che costituisce fra noi il trattamento peggiore che si possa infliggere alla classe media e alla classe povera.
La storia moderna collegherà la grande prova del Libano a quanto si è convenuto di chiamare la cintura di miseria che si è formata attorno alle città. Ma chi ignora che la formazione di questa cintura attorno a Beirut e ad altre città libanesi è dovuta a una carenza politica? La politica nazionale di sviluppo non ha assicurato, nelle diverse regioni libanesi, quanto era necessario alle famiglie in fatto di scuole, di dispensari, di abitazioni e di possibilità d’impiego suscettibili di garantire una condizione degna alle popolazioni interessate. E chi dunque fra noi oserebbe pretendere che il Libano dello sviluppo e del benessere degli anni Sessanta non sarebbe stato in grado di assicurare questa condizione nelle città e nelle campagne? Chi oserebbe negare che in questo modo avremmo potuto non solo evitare le cinture di miseria, ma sbarrare anche la via all’emigrazione massiccia, che ha fatto sì che il Libano dello sviluppo e del benessere abbia lasciato che i suoi figli si riversassero in un’emigrazione vicina o lontana, come se il Libano uscisse dalla grande carestia che ha infierito durante la prima guerra mondiale?
1.3. I diritti dei popoli
Se, un giorno, la storia contemporanea deve attribuire la crisi del Libano alla privazione dei diritti di cui hanno sofferto la maggior parte dei suoi figli e più specificamente le famiglie, la rovina del Libano, di cui questa stessa crisi fa stato, sarà attribuita dalla storia all’indifferenza colpevole che si è registrata in Libano nei confronti di una terza dimensione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Infatti è noto che, se, nella sua lettera, questa Dichiarazione è stata concepita soprattutto per difendere gli individui e i gruppi, essa non può, nel suo spirito e nella sua finalità, non difendere i diritti delle patrie e metterne in risalto lo splendore.Questo è comunque il terzo campo dei diritti dell’uomo che dobbiamo esaminare per compiere il nostro dovere sincero di difesa del nostro paese. Ed è tanto più necessario dopo che la nostra critica si è esercitata sul duplice terreno dei diritti della persona e dei diritti della famiglia.
In vasti ambienti locali e internazionali è stato detto e viene ancora detto che la guerra del Libano è una guerra civile, la cui fiamma è attizzata dal confessionalismo. Si tratta di un giudizio erroneo e ingiusto, che confonde gli effetti con le cause e fa sopportare a quanti in Libano sono trattati in modo ignominioso le colpe di coloro che hanno messo le mani su questo paese, siano essi libanesi oppure stranieri. I fattori interni hanno certamente sottoposto il Libano a una prova sociale ed economica gravissima. Ma la distruzione del Libano come popolo, come patria e come Stato non è dovuta a questi fattori, qualunque ne sia la gravità. La distruzione del Libano è da imputare a forze regionali e internazionali che, da parte loro, non hanno rispettato i diritti del Libano come popolo, come patria e come Stato.
Indubbiamente la questione palestinese ha esercitato sugli avvenimenti del Libano un’influenza tanto profonda quanto remota. Questa questione non cessa di essere fin dall’inizio un argomento di dibattito, mentre si tratta semplicemente di una causa evidente, che esige venga fatta giustizia a un popolo espulso dalla propria terra e disperso. Perciò questo popolo non smette di reclamare il diritto di far ritorno nella sua patria in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite, senza pertanto essere ascoltato.
Ma, nel frattempo, il popolo palestinese rifugiato in Libano non ha rispettato i diritti del popolo libanese che gli aveva dato ospitalità. Ha anche cercato di costituire uno Stato nello Stato e di falsare il delicato equilibrio libanese, schierandosi con una frazione del nostro popolo contro un’altra.
Detto questo, la colpa del popolo palestinese è stata moltiplicata da quella degli Stati interessati e che, da parte loro, sono responsabili della sorte di questo popolo. Infatti, invece di liberare il Libano dal suo fardello e di onorare i diritti dei palestinesi permettendo loro di costituire il loro Stato sulla loro terra, gli Stati in questione hanno messo il popolo palestinese in conflitto con il popolo libanese e ottenuto la distruzione dei due popoli.
Il fatto di colpire un popolo attraverso un altro popolo ha infatti posto la discordia fra i cittadini di uno stesso paese, e proprio in questo è consistito il complotto che si è servito dei libanesi come di strumenti per i suoi misfatti. Gli autori del complotto hanno provvisto i libanesi di tutte le parti di denaro e di armi, e hanno alimentato nella popolazione gli odî, che covano in ogni sorta di società umana. Allora si è talvolta parlato di guerra civile e talvolta di guerra religiosa. Ma la verità è stata riconosciuta per quella che è e non smette di essere. Si tratta proprio, come è stato detto, della guerra degli altri sulla terra libanese.
Ecco dunque quanto dobbiamo cercare di capire guardandoci da esaltazioni fittizie, per avere qualche possibilità di nutrire reciprocamente pietà e di non far più portare alla generalità dei nostri compatrioti, a qualsiasi parte appartengano e quali che siano i loro errori, la responsabilità di quanto è accaduto e che va attribuito a un pugno d’uomini ben noti.
Così, se comprendessimo le cose secondo giustizia, non potremmo più preconizzare ipocritamente riforme, anche urgenti. Infatti, non vi è riforma che tenga finché il Libano non è stato liberato da quanti lo hanno spogliato della sua libertà di decisione.
Inoltre, questa esposizione della situazione libanese non è un’analisi puramente teorica. È un richiamo sincero alla comprensione con la speranza che ci restituisca alla rettitudine e, a Dio piacendo, alla concordia che ci lega in modo organico attraverso la storia.
A sostegno di questo modo di vedere, ci richiamiamo alla testimonianza della Santa Sede apostolica, che vede nella patria libanese un simbolo di convivenza. La Santa Sede non cessa di difendere i diritti del popolo palestinese da quando è stato spogliato l’anno stesso in cui è stata promulgata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma nello stesso tempo la Santa Sede difende il Libano, che è stato distrutto a causa dell’ingiustizia perpetrata in Palestina. Nei due casi il Papato non distingue fra i seguaci delle diverse religioni e non opera per una confessione a detrimento di un’altra. Esso ha presente soltanto l’interesse del popolo e la dignità della patria, e questo non deve assolutamente meravigliare. Infatti, questa posizione non è solamente conforme all’impegno della Santa Sede a favore dei diritti dell’uomo, ma deriva anche dalla logica della fede che sottende sia lo spirito della Dichiarazione che i suoi articoli.
II. Una patria degna dell’uomo cioè una patria che osserva la legge di Dio
Passando a questa parte della nostra lettera pastorale non cambiamo argomento, ma proiettiamo sui diritti dell’uomo, fino a questo punto intravvisti in una triplice dimensione – individuale, familiare e nazionale -, una luce supplementare. Questa luce che li illumina è suscettibile di ravvivare la volontà di attenersi a essi e di assumere in pienezza le responsabilità che ne derivano.
Le norme della Legge divina fissata nei Libri Sacri non costituiscono comandamenti e disposizioni che si oppongano ai diritti dell’uomo oppure che si impongano a lui dall’esterno. Al contrario, proprio i comandamenti divini e le disposizioni della Provvidenza fondano le qualità peculiari dell’uomo e lo distinguono, nel piano di Dio, dalle altre creature. In questo piano, comprendente i comandamenti e le disposizioni che vi si collegano, si fonda veramente la singolare dignità dell’essere umano, nella sua qualità d’immagine di Dio e di suo rappresentante sulla terra.
Questa visione dell’uomo contenuta nella Sacra Scrittura ha originato i diritti dell’uomo nel corso delle civiltà. Si può dire che questa visione sta alla base stessa della civiltà. Inoltre, parlare di norme o di leggi non significa limitarsi a obblighi che sarebbero contraddittori, secondo alcuni, con la libertà dell’uomo e con la sua dignità. Al contrario, queste norme e queste leggi, facendo l’uomo un soggetto responsabile dei suoi atti, stabiliscono i suoi diritti su una base sicura e lasciano allo spirito umano la cura di esaminarli più da vicino e di dedurne gli obblighi che la sua stessa logica gli suggerisce.
Non possiamo certamente ignorare che il Vecchio Testamento comporta leggi delle quali alcune toccano il campo temporale. Ma noi pensiamo che queste leggi sono state dettate per un determinato tempo e che il Vangelo le ha superate, oppure abolite. Alla sua luce rimangono solamente dati che illuminano per riflesso quella Legge prima che Dio ha promulgato all’inizio e che ha fissato nelle profondità della coscienza umana. Si tratta di quella che viene chiamata lex naturalis o legge naturale, e a essa ci rimanda l’apostolo Paolo quando parla delle “nazioni che, senza possedere la legge rivelata, sono legge a sé stesse; mostrano la realtà di questa legge nel loro cuore” (Rom. 2,14-15).
Così, dunque, la legge naturale non si fonda tanto su testi quanto su ciò che Dio ha voluto che la ragione e la coscienza dell’uomo registrassero a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, e il consenso si allarga a partire da questo inventario. Così, l’onore della nostra generazione potrebbe consistere nel fatto di essere pervenuti, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’espressione più elevata del progresso della civiltà e, nello stesso tempo, della coscienza morale.
Questo non significa che la formulazione di tale Dichiarazione sia perfetta e che non possa più essere emendata e migliorata. Ma nello stadio attuale essa rappresenta una base sana su cui l’umanità è in condizione di edificare l’insieme dei diritti e dei doveri, lasciando alle generazioni future la cura di svolgere il proprio ruolo e di completare l’opera.
Tenendo conto di queste considerazioni di principio, nel contesto libanese ci interessa sottolineare due punti:
a. Il primo concerne il potere civile e la sua validità, a condizione che il legislatore rispetti i diritti dei credenti, individui e comunità, soprattutto in materia di libertà di credenze e di pratiche religiose, e che lasci alle diverse confessioni la possibilità di conformarsi al loro diritto specifico per quanto rigurda lo statuto personale.
b. Il secondo concerne il fine ultimo che, oltre le leggi tanto religiose che civili, va a privilegiare lo spirito sulla lettera e lo sviluppo morale sul legalismo casuistico.
Infatti, non sfugge a nessuno che questo fine rappresenta il vertice delle nostre aspirazioni attraverso le nostre intraprese temporali. Infatti, “cosa serve all’uomo guadagnare l’universo, se perde la propria anima” (Mc. 8,36)? Le realizzazioni di ordine economico sono certamente necessarie – come abbiamo precedentemente ricordato – per soddisfare le esigenze di tutti e soprattutto dei più bisognosi. Ma queste realizzazioni non trovano il loro fine in sé stesse. Esse sono soltanto un mezzo, per i più bisognosi e per la generalità delle persone, per accedere ai valori culturali, morali e spirituali. Esse esistono per permettere a tutti di realizzare le ambizioni autenticamente umane, che sono il servizio dell’altro, il dono di sé e la pratica religiosa, tutte forme di sviluppo dell’essere umano che lo portano ben oltre le ambizioni temporali.
Si tratta di quanto hanno adeguatamente mostrato i maggiori fra i pensatori della nostra epoca, all’interno del personalismo e dell’esistenzialismo cristiani. Essi hanno testimoniato con forza a favore dei valori dell’essere esaltati al di sopra delle acquisizioni dell’avere. Si tratta anche di quanto è stato mirabilmente esaltato da Papa Paolo VI quando ha immaginato una “civiltà dell’amore” e l’ha proposta come un programma del secolo per un’umanità in marcia verso il suo fine superiore e ultimo.
III. La patria libanese e le sue cinque priorità nella situazione presente
La civiltà dell’amore, a cui la nostra patria libanese è chiamata a partecipare nel gruppo di testa delle nazioni, esige una retrospettiva critica della nostra storia contemporanea che questa lettera non può svolgere. Richiamandosi a quanto è stato detto nella prima parte, a questo punto basti ricordare le conclusioni che sono state tratte nel periodo della pace e del benessere dalla missione alla quale il defunto presidente Fouad Chehab aveva affidato il compito di erigere una situazione socioeconomica delle regioni libanesi. Questa missione, che aveva beneficiato della collaborazione del rimpianto monsignor Jean Maroun, è stata diretta da padre Louis-Joseph Lebret, domenicano universalmente noto come fondatore di Économie et Humanisme. Inutile rilevare che i regimi che sono seguiti non hanno tenuto in nessuna considerazione le raccomandazioni di questa missione.
Relativamente al periodo della guerra, basti ricordare quanto abbiamo continuato a denunciare parlando dello sfruttamento dello Stato da parte dei principi dei mini-Stati.
Partendo da questa constatazione molto mortificante e nella prospettiva di correggerla – sia essa dovuta alle negligenze del periodo di pace oppure agli errori del periodo di guerra -, abbiamo pensato che fosse necessario presentare le cinque priorità seguenti:
3.1. In confronto con l’ambiente naturale che lo circonda il Libano è ricco di una straordinaria bellezza, grazie alla sua geografia fisica. Il Creatore non ha dotato il nostro paese di risorse minerarie né di altri fattori materiali di ricchezza. Ma ha privilegiato il litorale, le montagne e l’altopiano interno di uno splendore un tempo celebrato dai Libri Santi e che la storia non ha smesso, nel corso dei secoli, di indicare come un paradiso terrestre. Ebbene, cosa abbiamo fatto di questo paradiso? In che modo abbiamo trasformato questo paradiso in inferno, in tempo di pace, poi in tempo di guerra? Abbiamo contravvenuto alle norme dell’edificazione e della pianificazione civile in tutto quanto è stato costruito e abbiamo sfigurato la bellezza dei luoghi. Abbiamo permesso che le attività industriali e agricole superassero i limiti estremi dell’inquinamento e abbiamo finito per lasciare che le nostre coste diventassero deposito dei rifiuti di tutto il mondo.
La difesa dell’ecologia del Libano è una difesa realistica dell’habitat in questo paese e dei fattori che lo rendono attraente tanto per il commercio, la finanza, il lavoro scientifico o la cultura quanto per il turismo. Se persistiamo nel distruggere la natura libanese, come facciamo da anni, verrà un giorno in cui questo paese non sarà più abitabile e noi avremo trasformato le sue bellezze in bruttezza agli occhi delle generazioni future. Se continuiamo a distruggere l’ecologia libanese, faremo in modo che quanti, nel passato, affluivano in Libano da tutte le parti, si dirigeranno verso altri paesi per trovarvi, oltre alla pace e al benessere, il clima conveniente alla gestione dei grandi affari mondiali.
3.2. I libanesi non hanno atteso la guerra per utilizzare in modo spregiudicato i servizi pubblici, che per loro natura richiedono di essere nelle mani dello Stato. Ma nel corso degli ultimi anni sono arrivati al punto in cui il senso civico si è perduto e i mini-Stati si sono impadroniti dei servizi in questione. Il Libano non verrà salvato e non riacquisterà la sua stabilità né la sua prosperità, se il rinnovarsi del senso civico non pretende il ritorno dei grandi servizi dello Stato allo Stato e la presa in mano di tutti i settori vitali del paese da parte della legalità repubblicana. Si tratta, per altro, di quello che dicono tutti, fatta eccezione per un pugno di profittatori manipolati dallo straniero, quello straniero che ha deciso di distruggere il Libano passando attraverso le sue istituzioni.
3.3. Tale ripresa in mano dei servizi generali del paese da parte dello Stato non avrà successo finché la mentalità libanese non si piegherà alla necessità del rispetto delle leggi. I libanesi hanno certamente molte qualità, fra cui l’intelligenza, il coraggio, lo spirito d’iniziativa, l’elevatezza della prospettiva e la generosità. Ma tutto questo è messo al servizio dell’individuo, della famiglia oppure del gruppo sociale al quale si appartiene, raramente al servizio del bene comune. A causa di questo comportamento il cittadino libanese ignora le leggi, che sono state appunto promulgate per salvaguardare il bene comune.
Si dice che il Libano del dopoguerra avrà bisogno di un presidente forte, e questo è indubbio. Ma vi sarà un presidente forte soltanto se opera per far prevalere la legge, permettendo ai tribunali non solamente di pronunciare sentenze, ma anche di farle eseguire. Allora ogni cittadino riavrà il suo diritto e il diritto del Libano prevarrà su ogni altro diritto.
3.4. Tutto quanto è stato presentato fino a questo punto come priorità diventa particolarmente acuto quando è messo in relazione con la gioventù. Le ragioni di questo fatto sono due: la gioventù è stata segnata dalla guerra più di qualsiasi altro segmento della popolazione. D’altronde, non esiste nessuna possibilità di rinascita, di riforma e di sviluppo del paese senza la gioventù.
La gioventù ha pagato il tributo del sangue sul conto del suo sviluppo morale e culturale. Invece di imparare le lingue, di acquisire le scienze e di qualificarsi dal punto di vista umano e religioso, si è abbandonata alla violenza, alla droga e ai costumi licenziosi, non senza lasciarsi conquistare – come i suoi vecchi – dall’attrattiva del guadagno illecito e dallo spirito di dominio.
Inoltre, relativamente alla gioventù si è prodotto un fenomeno particolarmente deplorevole, cioè la separazione effettiva che da quattordici anni si è determinata fra le componenti della popolazione, da una regione all’altra. Infatti, il fenomeno non si limita all’ignorarsi reciproco che si è determinato fra musulmani e cristiani da un settore all’altro della capitale. Il fatto più grave è costituito dall’isolamento in cui ogni regione si è trovata bloccata. Così la gioventù del Nord non sa più niente del Sud e la gioventù del Sud non sa più niente del Nord, mentre entrambe ignorano tutto del monte Libano e, dal canto loro, le popolazioni del monte Libano si trovano dilacerate e allontanate le une dalle altre, a causa dell’inimicizia continuamente alimentata da quanti vi hanno appiccato il fuoco.
Malgrado tutto questo siamo persuasi che la nostra gioventù farà il suo dovere e ricostruirà il Libano, se ci si prende cura di essa, le si dà fiducia e la si sensibilizza in relazione alla responsabilità nazionale che incombe su di essa. Indubbiamente gli aspetti negativi della sua condizione attuale diventeranno positivi, per poco che i giovani divengano consapevoli della grandezza della loro missione, e che sostituiscano la durissima esperienza costituita dalla loro divisione con il piano di una nuova partenza nella storia del Libano.
3.5. Il Libano ha un certo numero di caratteristiche che abbiamo indicate parlando delle priorità precedenti. Ma la priorità superiore a cui giungiamo, prima di concludere questo messaggio, presenta qualcosa di più di una caratteristica. Si tratta della vocazione stessa del Libano nella singolarità della sua composizione socioreligiosa.
La convivenza islamo-cristiana rappresenta appunto la vocazione del Libano. Ebbene, i nemici del Libano, quelli dell’interno e quelli dell’estero che li manipolano, non smettono di colpirlo, favorendo la segregazione confessionale delle popolazioni e consacrando la spartizione sulla terra libanese. Fra la grande vicinanza prodotta dai mezzi di comunicazione sempre più rapidi nel mondo contemporaneo e le grandi tensioni prodotte dalla mescolanza obbligata delle popolazioni a causa di questa nuova vicinanza, il tipo libanese di convivenza fra le due maggiori religioni mondiali è divenuto un modello perseguito dagli Stati e dalle società costrette al pluralismo in un grande numero di regioni e secondo diverse modalità di civiltà. Diventa indispensabile che il Libano possa mostrare la vivibilità e l’eccellenza del modello di convivenza di cui fa l’esperienza dolorosa ma viva.
Conclusione.
Cinque raccomandazioni ecclesiali di fronte alle priorità libanesi
Al termine di questa lettera pastorale, dobbiamo indicare i doveri specifici dei nostri fedeli nel quadro della riforma e della ricostruzione nazionali. Oltre a quanto è stato suggerito prima, ecco cinque raccomandazioni suscettibili di coprire gli obblighi supplementari che ci toccano come cristiani e che derivano dallo spirito del Vangelo. Esse ci legano ai nostri fratelli concittadini senza porci in una situazione preferenziale rispetto a loro. Esse confortano la nostra volontà di servizio e di sacrificio con lo spirito fraterno che, in Cristo, ci rende solidali con ogni uomo.
1. La rivendicazione dei diritti dell’uomo come base dell’edificazione nazionale esige una metodica presa di coscienza a partire da tali diritti come li abbiamo richiamati in questa lettera. Chiediamo ai responsabili dell’educazione a tutti i livelli di dedicarsi a questa presa di coscienza. Lo faranno attraverso sessioni che vorranno opportunamente organizzare nelle università e nelle scuole secondarie, nelle parrocchie, nei movimenti di apostolato, nei ritiri quaresimali e nelle altre attività pastorali, insistendo, nel campo dei diritti e dei doveri nazionali, sulla convivenza.
2. Raccomandiamo ai diversi organismi ecclesiali , incaricati dei servizi di soccorso e di aiuto, di cercare seriamente la coordinazione, nei termini in cui è richiesta dalla Santa Sede nel quadro della Commissione recentemente istituita a questo fine. Auspichiamo che tale Commissione vada oltre le iniziative prese qua e là e definisca un piano d’insieme. Un progetto di sviluppo integrale dovrebbe mettere in rilievo quanto è di competenzaq dello Stato, poiché la Chiesa può solamente dare il suo contributo nel quadro di un orientamento sano e di una collaborazione efficace.
3. Nel quadro del coordinamento pastorale richiesto da tale Commissione e attraverso il piano generale di sviluppo, a esso, come a tutti coloro che sono interessati a questa grande impresa, chiediamo di porre rapidamente rimedio alla crisi delle scuole e degli ospedali. La situazione prevalente in questi due campi è diventata intollerabile. La Chiesa deve mettere in stato d’allarme i propri figli e le istituzioni da essa dipendenti perché collaborino efficacemente ad avviare soluzioni radicali che s’impongono
4. In tutte le iniziative prese dalle istituzioni ecclesiali, scongiuriamo i responsabili e chiediamo loro insistentemente di dare la priorità in ogni campo alla gioventù. Bisogna far riassorbire in essa le conseguenze della guerra e renderla capace di rilanciare la rinascita nazionale, che riuscirà soltanto se la generazione della guerra si mobiliterà a tal fine. A questo proposito è molto incoraggiante notare il significativo aumento delle vocazioni sacerdotali e religiose adulte. Tutto quanto contribuisce a sviluppare nella gioventù queste vocazioni, e altre nel campo dell’apostolato dei laici, è un compito che scongiuriamo i responsabili di porre in primo piano nelle loro cure e nelle loro opere.
5. Infine, lanciamo un appello pressante alla preghiera ininterrotta nei monasteri, nelle chiese parrocchiali, nelle famiglie e nelle istituzioni educative, aggiungendovi le pratiche penitenziali che convengono ai diversi stati del clero e del laicato. La situazione nazionale minaccia di essere catastrofica ed esige gli sforzi giganteschi a cui abbiamo richiamato. Ma vi sono difficoltà che resistono a ogni soluzione estranea all’aiuto divino, che si ottiene con la preghiera e con il digiuno (Mt. 17, 21).
Dopo l’incontro annuale che si è svolto nel convento di Notre-Dame de Louayzé dal 28 novembre al 3 dicembre 1988, questa lettera viene pubblicata a nome dell’Assemblea dei Patriarchi e dei Vescovi Cattolici in Libano, in occasione del 40° anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, promulgata a New York il 10 dicembre 1948.
Il Consiglio di Presidenza
Nasrallah-Pierre Sfeir
[Patriarca di Antiochia e di tutto l’Oriente]
Maximos V Hakim
[Patriarca di Antiochia dei Greci Melkiti Cattolici]
Ignace Antoine II Hayek
[Patriarca di Antiochia dei Siri]
Jean-Pierre XVIII Kasparian
[Patriarca di Cilicia degli Armeni]
***
(1) Cfr. la bibliografia pubblicata dal Consiglio della Santa Sede che si occupa dei rifugiati e dei migranti. Essa comprende tutte le decisioni prese dagli organismi dell’ONU relativi ai diritti dell’uomo, decisioni classificate in ordine alfabetico dei principali diritti rivendicati dalla Dichiarazione universale.