Mons. Massimo Camisasca, Cristianità n. 393 (2018)
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, il testo dell’intervento pronunciato da S.E. il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla in occasione della presentazione dell’opera di Rod Dreher, L’opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano (San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2018), tenutasi a Milano, presso il palazzo della Regione Lombardia, il 14 settembre 2018. Il titolo, ricavato dal testo, e le inserzioni fra parentesi quadre sono redazionali.
Un nuovo slancio missionario verso tutti
Il libro di Rod Dreher L’opzione Benedetto ha un grande merito: propone una «riflessione quadro» sul nostro tempo, entro cui tenta di offrire una risposta possibile alla domanda: quale può essere la forma storica della realtà della Chiesa nel contesto attuale? Quella più vera, efficace, congrua con la sua missione?
Il libro ci parla perciò della forma dell’ecclesía come popolo, come qahal, raduno definitivo eppure sempre da compiersi; come corpo di Cristo che, secondo Paolo, è già interamente realizzato eppure deve sempre completarsi (Ef 1,3-23), attraverso l’opera degli apostoli, dei padri e delle madri che partecipano alla maternità e alla paternità di Dio.
Qual è la forma essenziale della Chiesa di Dio? La domanda non è nuova, anzi essa percorre doverosamente tutti i venti secoli della storia cristiana e prima ancora almeno dieci secoli della storia d’Israele. Ma è necessario proporla, così come è necessario aspettarsi da Dio la risposta, che non può essere mai interamente preventivata dall’uomo. Infatti la risposta alla domanda sull’espressione storica della forma permanente dell’Alleanza è un impulso, un suggerimento di Dio alla libertà dei battezzati che il Signore rivolge loro attraverso gli avvenimenti della storia profana (esattamente come a Israele, prima di Cristo, attraverso l’Egitto, l’Assiria, Babilonia…) e della storia santa (le tensioni tra i suoi re, i suoi profeti, le sue fedeltà e i suoi tradimenti), ma infine attraverso l’avventura della santità, che non è mai interamente a disposizione dell’uomo, anche se non è indifferente all’avvenimento della libertà. In fondo la risposta alla nostra domanda («Qual è la forma essenziale della Chiesa di Dio?») nasce dall’incontro nel tempo di due infiniti: la libertà di Dio e quella dell’uomo.
Benedetto non è preventivabile né programmabile, così come prima di lui Agostino [d’Ippona, 354-430] e prima ancora Antonio [Abate, 251-357], Basilio [330-379], Pacomio [292-348]. E in seguito Leone [440-461] e Gregorio Magno [540-604]. Si tratta di suggerimenti dello Spirito accolti dalla santità, dal genio semplice o complesso di uomini come noi, anche se giganteschi. Ma la loro statura emergerà solo successivamente, a volte anche dopo secoli.
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La riforma permanente della comunità ecclesiale inizia nel suo seme quotidiano dalla riforma dei cuori. La riforma, la nascita di una nuova forma, parte dalla riforma del cuore, il quale cambia forma nel momento in cui non è più centrato su se stesso, ma su un altro. La vera riforma è il dislocamento in Dio del nostro essere personale.
Non penso si possa né si debba parlare di una forma storica che possa valere allo stesso modo per ogni continente in cui vive la Catholica. Fin dal suo sorgere la Chiesa ha vissuto in una pluralità di lingue, culture, a partire dalla pluralità delle comunità originarie (petrina, paolina, giovannea…), dalla pluralità dei carismi (missionari, evangelizzatori, profeti…), dalla pluralità dei Vangeli e dei testi canonici, cioè dalla pluralità delle innumerevoli sfaccettature dell’unico volto di Cristo, mai riconducibili a uno solo. La persona di Gesù è infatti infinitamente conoscibile e ciascuno non può che cogliere una parte del suo mistero. Ma ciò che ha contraddistinto le origini della Chiesa era la consapevolezza che nessuno poteva fare a meno dell’altro, che il tutto, l’Uno nella sua forma Trinitaria, cioè l’Uno della Chiesa come fede e carità, precede sempre le diverse comunità. Esse non sono una parte dell’Uno, ma un suo riflesso.
Ogni Chiesa, anzi ogni comunità che nasce dall’Eucaristia e perciò dalla successione apostolica, è tutta la Chiesa, così come ogni frammento eucaristico è tutto il corpo di Cristo, nella misura in cui tale comunità si concepisce e vive nell’unità con tutta la cattolicità.
La forma deve essere concepita come rapporto tra due fuochi di un’unica ellisse: i due fuochi dell’umanità e della divinità di Cristo nell’unità della sua Persona, alla destra del Padre e nel fango della storia.
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Non ci si può interrogare sulla forma della Chiesa senza conoscere e giudicare il periodo storico in cui si vive. Quali sono dunque le caratteristiche del nostro tempo? Dobbiamo avvicinarlo con sentimenti di simpatia o di rigetto?
Ritengo che l’atteggiamento più fecondo oggi, di fronte alle problematiche drammatiche e nuove in cui siamo immersi (poste dalla società secolarizzata, dal mondo globalizzato, dalla post-modernità e dal trans-umanesimo), debba essere un atteggiamento positivo e costruttivo. La nostra attenzione principale non deve soffermarsi sulla condanna, ma sulla positiva attrazione che esercita la vita di coloro che vivono la fede, cioè su una proposta. È a partire dalla positività di una proposta che si scopre la caducità, talvolta diabolica, di tutto ciò che alla luce di Dio si trova condannato.
In questo orizzonte non ritengo che la modernità sia solamente una storia negativa: come ogni periodo storico è un intreccio di bene e di male. Si pensi alla parabola del grano e della zizzania (cf. Mt 13, 24-30). Il magistero di Benedetto XVI [2005-2013] ha ampiamente mostrato quanto la modernità contenga, assieme a una profonda negazione dell’identità cristiana, a un progetto sistematico e intenzionalmente anti-cristiano (e in particolar modo anti-cattolico), un richiamo all’autenticità della fede. Ogni epoca tende a mettere tra parentesi alcuni aspetti della vita e ne sottolinea altri. Dalla modernità abbiamo ricevuto per esempio un richiamo alla riscoperta della libertà, che non dobbiamo dimenticare.
Ogni pensiero reazionario, nella misura in cui vede il bene soltanto nel passato, dimentica quella proiezione in avanti che, assieme al radicamento nell’origine, costituisce il necessario cammino della vita cristiana. Essa è infatti una continua tessitura tra passato e presente verso Colui che sta tornando.
Certamente è doveroso e vantaggioso imparare dal passato. È utile mostrare e sottolineare le analogie tra il tempo presente ed altre fasi della storia che ci precede. Per esempio, sono evidenti, come anche il libro di Dreher sostiene, alcuni paralleli tra il nostro momento storico e la fine dell’impero romano. Ma due epoche non sono mai identiche. Pertanto le soluzioni che hanno permesso di attraversare il passato possono essere fonte di ispirazione, ma non il modello alla luce del quale progettare di vivere il presente.
Desidero ora soffermarmi su alcune esperienze della vita cristiana essenziali in ogni tempo.
1. La liturgia: incontro col Mistero nell’umanità del mondo
La Chiesa vive come conversione del mondo a Cristo. Essa è composta di piccole o grandi comunità, consapevoli della propria appartenenza all’unica Catholica. L’origine di una comunità cristiana è sempre la liturgia, lode alla Trinità dal sangue e dagli escrementi della terra, ma anche dalla luce dei mari, dei monti, dei fiori, dei cuori che si aprono a Dio, al perdono, all’accoglienza, alla fraternità.
La Chiesa nasce come stupore di fronte alla grandezza della vita, alla sua misteriosità, alla sua bellezza, in cui si riflette l’umanità di Cristo. La Chiesa nasce da un incontro con il Mistero che traluce nell’umano e che lo trapassa (una poesia, un volto, una musica, un dolore, uno strappo, una lacerazione…), un incontro reso possibile dal fatto che qualcuno ci aiuta a vedere, a sentire con occhi nuovi.
Un altro — che si rivela così come autorità, padre che genera, fratello che ha pietà di noi — ci apre lo sguardo su ciò che avevamo sempre visto, ma in realtà non avevamo visto mai. La realtà diventa segno, senza perdere la sua consistenza, bellezza e scomodità.
Persone che non conoscevi diventano essenziali, diventa essenziale la preghiera, il canto, la lode, il silenzio, la meditazione, la lettura, una guida che ti aiuta in questa nuova implicazione con l’esistenza tua e degli altri.
In realtà tutto è generato dallo Spirito e dall’attualità dei misteri della vita di Cristo. Egli prende le cose e le fa suoi sacramenti. È lui che agisce, aggregando così una comunità di persone, prima sconosciute le une alle altre e ora familiari perché Dio è divenuto loro familiare.
La comunità nasce come liturgia, che comprende certo come suo vertice la celebrazione domenicale o i Salmi della Liturgia delle Ore, ma non si riduce mai a una preghiera che isola o allontana dalla vita e dagli altri uomini. Nella liturgia c’è il fascino del cielo e della terra. Per questa ragione non si può secolarizzare la liturgia senza banalizzarla, né si può permettere che essa diventi il luogo del dialogo di tanti singoli con Dio, casualmente radunati assieme.
2. Comunità e autorità
Un secondo profilo. La Chiesa è una comunità universale, un unico popolo a cui sono chiamati tutti i popoli del mondo, unico corpo come unica è la fede e unica la carità. Ma come il corpo ha molte membra, allo stesso modo, per analogia, la Chiesa si compone di molte comunità. Questo perché occorre che la fede sia vissuta in relazioni di prossimità in cui si sperimenti il caldo della fraternità e il sale del cambiamento, la luce del perdono e il peso della diversità.
È questo il principio storico della nascita delle diocesi, delle parrocchie (beninteso, con un diverso peso teologico), delle comunità di vergini, di famiglie, delle comunità di ambiente, delle varie comunità di vita comune, di quelle religiose…
Nella diversità anche profonda delle espressioni storiche, la Chiesa ha sempre richiesto almeno un minimo di espressione della vita comunionale: messa domenicale, condivisione dei bisogni, partecipazione ad una unità di pensiero e di azione in ciò che è necessario. L’individualismo sempre crescente degli ultimi quattro secoli ha corroso la coscienza dell’unità e le sue modalità espressive. Ma ora tutto ciò si ripropone con una urgenza nuova e radicale.
Una comunità cristiana è una comunità guidata. Nasce dall’alto, da Dio, per radicarsi sulla terra, penetrando nella particolarità della vita degli uomini. La guida ultima è perciò sempre un presbitero in rapporto con il vescovo, che deve concepirsi come un suo inviato. La guida educativa potrà essere un prete o un laico, un uomo o una donna, un giovane o un vecchio. Ma non esiste vita cristiana senza connessione con l’alterità di Dio. Certo, ogni autorità può corrompersi nell’autoritarismo, nell’arbitrio, nel puro esercizio del potere. Questo non toglie nulla alla sua necessità. Abbiamo bisogno di padri e madri che ci sappiano guidare amandoci e ci amino a tal punto da correggerci anche duramente, se è necessario, sempre aiutandoci a camminare dietro a Cristo mentre camminiamo nel tempo sotto la guida di uomini. Non si può evitare lo scandalo dell’eterno nel tempo. Non è costui il figlio del falegname? (Mt 13,55).
3. La Chiesa e il mondo
La Chiesa non ha in sé la sua ragione, come la luna non ha da sé la sua luce notturna. Oggi questo è sottolineato, e giustamente. La luce è Cristo. Ma la Chiesa è pure necessaria. Senza la luna la notte buia resterebbe impenetrabile.
Cristo, lumen gentium, ha detto: Voi siete la luce del mondo (Mt 5,14). La Chiesa non è altro da Cristo, di cui è il corpo, altro dal Regno, di cui è l’inizio. Si può anche dire che non è altro dal mondo? Sì e no.
Preferisco pensare, come ho già avuto modo di dire sopra, che la Chiesa è il mondo che si converte a Cristo. Per questo la Chiesa esiste in un duplice movimento di giudizio sul mondo (Il principe di questo mondo è già condannato — Gv 16,11), di contestazione dei suoi criteri, dei suoi obiettivi, dei suoi programmi (Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo — Gv 17,14) e in un movimento di salvezza, che mostra Cristo e la Chiesa come ciò a cui gli uomini aspirano dal profondo (Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo — Gv 12,47). Il mondo è l’oggetto dello smisurato amore di Dio (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito — Gv 3,16). Questo duplice movimento è (o dovrebbe essere) permanente nella storia della Chiesa. Esso è in realtà un unico movimento di luce e di sale, di testimonianza che attrae e fa cadere le scaglie dell’uomo vecchio.
In duemila anni questo cammino si è articolato attorno a due esperienze, centrali nella vita di Gesù: la verginità e il martirio.
Oggi verginità vuol dire riscoperta della sessualità e dell’affettività, le grandi malate del nostro tempo. Una sessualità che torni ad essere la meravigliosa scoperta dell’altro, nella sua complementarietà e differenza da me. Un esercizio della sessualità che non accetti di ridursi a puro godimento fisico, ma torni ad essere — pur nelle cadute inevitabili della nostra pochezza — un percorso di conoscenza, di estasi feconda, nel sacrificio e nella distanza che sempre richiede ogni rinascita.
Verginità e martirio vogliono dire un nuovo percorso di integrazione tra silenzio, studio, lettura, meditazione, lavoro e uso delle tecnologie. È un percorso da scrivere, quasi interamente. Esso non è impossibile, seppure non sia facile. Rod Dreher negli ultimi due capitoli del suo libro offre delle riflessioni su sessualità e uso delle tecnologie, tentando di individuare delle strade per vivere l’eros in modo più umano e il rapporto con le macchine in modo più libero. Le sue riflessioni sono preziose e condivisibili. Ma queste tematiche, a motivo della loro estrema complessità, non possono che restare aperte, in attesa di ulteriori e sempre più precise considerazioni.
Verginità e martirio sono la difesa della vita nascente dall’aborto, della vita fragile dall’eutanasia, la difesa del povero, di chi è dimenticato. La carità mostra la mostruosità delle ideologie e dell’economia quando è finalizzata all’arricchimento di pochi.
Solo verginità e comunione possono sostenere la comunità nel martirio, renderla consapevole della posta in gioco e lieta nella paziente consapevolezza della vittoria.
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Le nostre comunità cristiane, per custodire e vivere appieno la fede nel tempo in cui viviamo, necessitano di un’ossatura monastica, le cui coordinate fondamentali ho delineato sopra. Ossatura monastica non significa vita claustrale e distacco totale dal mondo circostante. Non dobbiamo chiuderci, ma aprirci con slancio missionario verso tutti, pur consapevoli del fatto che molto spesso tale slancio significa l’incontro con persone che non hanno fede o che addirittura combattono contro la Chiesa.
La fede del singolo, per crescere, ha bisogno di donarsi. Abbiamo qualcosa da annunciare ad ogni uomo di ogni luogo e di ogni tempo. Certamente è rischioso «entrare nel mondo», ma questo rischio è ineludibile. Molte saranno probabilmente le sconfitte e le amarezze per coloro che oggi offrono la loro compagnia senza rinunciare alla loro identità cristiana, così come per coloro che hanno il coraggio di proporre pubblicamente i contenuti della fede. Ma è indispensabile donarsi con quella libertà dall’esito e quel distacco che si chiama verginità, fino all’eventualità del martirio. Una fede che non contempla tra le sue possibilità anche quella del sacrificio supremo, com’è accaduto a Gesù, non è una fede matura.
+ Mons. Massimo Camisasca